LAURA BEVIONE | Fa capolino da un lato, sul fondo del palco immerso nell’oscurità: una sorta di apparizione mesmerica, della medesima sostanza delle tenebre. Lino Musella/Jan Fabre si siede al tavolo – base di vetro appoggiata su semplici transetti di legno – poggia la sua cartella e inizia la lettura delle pagine tratte dal diario tenuto dall’artista originario di Anversa.

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Si accende una sigaretta, rigorosamente belga, e si versa un bicchiere d’acqua da una delle due caraffe di vetro appoggiate sul tavolo; una a forma di teschio, così da offrire all’attore, nel corso dello spettacolo, l’occasione di alludere ammiccante al monologo più celebre della storia del teatro.

Musella legge il diario o brani tratti da scritti di Fabre stesso, mentre sullo schermo alle sue spalle scorrono le immagini in bianco e nero di Anversa – si tratta di un breve video che documenta un’azione performativa compiuta dall’artista sul fiume che attraversa la città alcuni decenni fa – oppure sono proiettate alcune frasi pronunciate dall’attore, così da sottolinearle e invitare il pubblico a un’approfondita meditazione.

Spettatori che, nondimeno, non sono considerati platea passiva da istruire bensì sono chiamati alla partecipazione: cantare il ritornello di una canzone, indovinare chi sono i personaggi eminenti simboleggiati da steine – ossia pietre – poste ai quattro angoli del palco, interamente ricoperto di sale.

Sale che serve a curare le ferite fisiche – Fabre usava tagliarsi e usare il sangue nelle sue performance – ma, poiché Musella è pur sempre napoletano, buttato alle proprie spalle per allontanare la cattiva sorte…  È interessante, infatti, come l’attore sia allo stesso tempo fedele controfigura dell’artista belga e al contempo sveli la finzione teatrale: a un certo punto, dalle quinte laterali compare un pupazzo con le fattezze di Fabre e l’immancabile impermeabile beige. Come se l’autore/regista dicesse: ecco quello lì sul palco è me ma è anche altro da me, in una vertigine identitaria e perturbante.

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I testi, in ordine rigorosamente non cronologico bensì concettuale-emozionale, rimandano alla vita familiare di Fabre – la morte prematura del fratello Emile, che l’artista avverte reincarnato in se stesso; la bizzarria della madre e il complesso rapporto che la legava al padre; la nonna e l’infanzia in un quartiere operaio di Anversa – e alla nascita e all’approfondirsi della sua vocazione artistica. L’accademia di belle arti e gli anni trascorsi a New York, le prime sculture e il rapporto con un’artista statunitense che, dopo averne raccolto la disperazione per le sventure di un amico,  lo invita a non essere “sentimentale”, poiché l’arte richiede, al contrario, quel freddo distacco che solo consentirebbe la creazione. Fabre, però, non concorda: non lo dice esplicitamente, non ribatte a quell’opinione che riporta senza commento, bensì la smentisce con la sua stessa arte che si nutre di “oggetti” e sentimenti vivi e caldi.

C’è nell’artista belga la ricerca di una bellezza che egli stesso definisce “pericolosa”, che non si rispecchia in equilibrio armonioso e non si traduce in ricerca di un’(im)possibile perfezione. Bellezza come qualcosa che provoca vertigine e terrore, che non mira a essere contemplata bensì a smuovere e sconvolgere, a mettere in discussione. Certo una bellezza che non è per tutti ma che, nondimeno, possiede una rilevante componente concreta e persino “sporca”.

È la volontà di rimettere al centro il corpo – ecco Musella che si alza e lentamente, come un rito, si sbottona la camicia e mostra parte del suo torace – che è tempio e, allo stesso tempo, oggetto sacrificale. La fisicità dell’uomo è esaltata da Fabre in ogni suo aspetto, anche quelli più “sporchi” – sangue, sperma, mutilazioni, imperfezioni – che riacquistano valore in quanto espressioni di un corpo composito e vulnerabile e, proprio per questo, sacro e inviolabile. E, da qui, la relazione instaurata da Fabre con i propri attori, allo stesso tempo amati e vessati, venerati e sacrificati.

Coesistono nell’artista belga tensioni e sentimenti apparentemente idiosincratici: è satiricamente rabbioso e, al contempo, sconsolatamente struggente, un’ambivalenza ben esemplificata allorché Musella canta My Way, immedicabilmente disperato e diabolicamente ghignante…

Coesistono affabilità e stanchezza ma sono assenti cinismo e ironia, questi ultimi atteggiamenti verso l’esistenza che Fabre esplicitamente condanna, poiché allontanano l’uomo da se stesso e dalla sua sacra e irrinunciabile fisicità e, dunque, dagli altri, pulsante anima della realtà.

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Lo spettacolo, così, riesce ad approfondire e complicare il ritratto di un artista sovente sbrigativamente definito come “provocatorio” – benché omaggiato con svariate mostre in giro per l’Italia e per il mondo – evidenziandone certo contraddizioni e vezzi, ma chiarendone pure la poetica, problematica e intrinsecamente coerente, portatrice di una concezione naturale e vera dell’humanitas. E ciò grazie anche all’ineguagliabile prova di Lino Musella, capace di essere Jan Fabre e allo stesso tempo se stesso, in un dialogo costante fra sé e l’altro da sé che gli è chiesto di incarnare che è costante e vitale creazione artistica.

JAN FABRE. THE NIGHT WRITER. Giornale notturno

testo, scene, regia Jan Fabre
drammaturgia Miet Martens, Sigrid Bousset
traduzione Franco Paris
interprete Lino Musella
produzione Troubleyn/Jan Fabre, Aldo Grompone; in coproduzione con FOG Triennale Milano Performing Arts, Luganoinscena-LAC, Fondazione Teatro Metastasio di Prato, TPE-Teatro Piemonte Europa, Marche Teatro, Teatro Stabile del Veneto

Teatro Astra, Torino
14 aprile 2019