SILVIA ALBANESE | Milano, 19.05.2019
1.0. L’abbondanza, la bulimia. Il racconto di FOG Triennale Milano Performing Arts 2019 è anche un racconto di Milano, della sua velocità e delle sue connessioni perfette, dei colori delle metropolitane che attraversano la città, di un paesaggio poetico dai contorni incerti e diffusi, di un’abbondanza di proposte, visioni, incontri che rischia di rendermi patologicamente vorace e insaziabile. Il mio posto è tra i viaggiatori, gli appassionati, i cittadini nomadi e quelli stanziali, i colleghi, gli amici e gli amici dei colleghi, con il cuore a mille per paura di arrivare tardi al Teatro Franco Parenti, con il cuore largo di ricordi e un senso di solitudine mentre metto le cuffie e spero di avere il telefono sufficientemente carico per poter vivere Square Milano, emozionata come se Nicola Galli lo vedessi per la prima volta, perché così tanto come in Deserto digitale non si era mai fatto vedere… Mentre sono in questo vortice accade anche il Festival del Silenzio, finalmente conosco Valentina Pagliarani, mi faccio massaggiare da Annalisa Luise nella coreografia tattile MIM e al Piccolo Teatro vedo un vero capolavoro di Milo Rau. Ecco, quello che mi manca a Milano è il tempo del silenzio, la pausa sospesa, l’attesa: quel farsi di uno spazio vuoto che mi permetta di ascoltarmi, e di ricordare.

1.1. Partenza
Il mio viaggio a FOG è cominciato il 26 marzo alle 20.00. Sono scesa dalla lilla, ho attraversato il piazzale del Cimitero Monumentale godendomi a ogni passo (ben sostenuto e spedito) la vista del Famedio illuminato, sono arrivata in Fabbrica del Vapore, ho attraversato anche quest’altro piazzale ed eccomi al DiD Studio. C’è già tanta gente che aspetta, sono contenta che siamo in tanti. Mi piace che FOG realizzi due appuntamenti in coproduzione con Ariella Vidach AiEP «dedicati a cinque autori tra i più interessanti nell’ambito della giovane danza italiana», e mi piace che gli spettacoli vengano presentati proprio al DiD: mi piace vedere le cose per la prima volta, e il piacere è persino maggiore se chi vado a vedere è in scena per la prima volta (o quasi) in un determinato contesto.

Giovanfrancesco Giannini, datamigration_1

1.2 Qui il web è fatto dei nostri fiori blu: datamigration_1 di Giovanfrancesco Giannini
Geografie e politiche di un altrove, e un corpo in scena che costruisce il proprio archivio gestuale dialogando con un archivio digitale. La migrazione/trasmissione di dati a cui allude il titolo avviene lungo un continuum che mi pare cerchi di portare le immagini e il corpo su uno stesso piano di commensurabilità. La visione è frontale, il corpo interviene offrendo linee e percorsi, talvolta riproponendo i gesti che vedo in queste immagini che non so se guardare sul monitor del macbook, o sulla parete. La selezione dei materiali mi obbliga a stare in relazione con immagini scomode, fastidiose, aberranti che appartengono alla mia Storia attuale o recente. Scrivo ‘Storia’ con la S maiuscola, perché è proprio dal patrimonio di discorsi e immagini collettivi che Giannini prevalentemente attinge. C’è anche quella famosissima foto del piccolo profugo siriano annegato nell’ottobre del 2015 davanti alla spiaggia di Bodrum, in Turchia: a faccia in giù, in riva al mare, le braccia abbandonate, una maglietta rossa e pantaloncini scuri, scarpe allacciate. Questo bambino è stato identificato, si chiama Aylan. Penso a quanti corpi restano presenze mute e anonime, si fanno assenza per qualcuno altrove, quante vite interrotte lungo il percorso che avrebbe dovuto portarli da una vecchia a una nuova casa. Corpi che mancano, vite imprigionate in quel fenomeno che gli antropologi definiscono “lutto impossibile”; perché come si può piangere un morto in assenza del suo corpo?
L’archivio di Giannini si compone di immagini note a tutti noi perché ormai parte di un immaginario condiviso: sono immagini che in-formano la nostra memoria collettiva e diventano Storia.
L’esplosione delle Torri Gemelle: sono passati 18 anni. All’epoca era ancora la televisione a in-formare il nostro immaginario, oggi è il web, sono i social. Il corpo danzante in questo dialogo, in questo gioco di sottrazione e richiamo all’assenza, si fa per me presenza leggera e quasi immateriale; non ne avverto tanto la carne o la pelle, quanto la linea, il disegno, il suo farsi superficie di scrittura al servizio di un disegno complessivo poetico e misurato: le sue memorie corporee e gestuali attinte da quell’immaginario (mass)mediatico che è già diventato Storia, io le osservo mentre si risveglia e riattiva in me la memoria corporea di quelle immagini, che mi riguardano. «Il corpo in datamigration_1 dialoga con flussi multimediali e con l’immagine mediale, quindi con contenuti che sono all’interno di un dispositivo artificiale composto da dati invisibili ed estranei alla percezioni sensibili» mi scrive su Messanger Giannini, a cui nel frattempo ho chiesto l’amicizia. Piani differenti e spezzati, così come spezzato, rotto, è per lui il rapporto tra uomo e natura: «Le immagini e i video proiettati sono parte di una memoria collettiva e testimoniano in pieno il rapporto conflittuale e spezzato tra uomo e natura/socialità», mi scrive. Un legame mediato e spezzato, anche per via della manipolazione delle immagini che mi arrivano, ci arrivano. Lo sguardo che ho su un evento a cui non ho preso parte, di cui non ho una memoria, è lo sguardo che qualcun altro ha deciso che io abbia su quell’accadimento, non lo decido io. Allora, sono testimone di questa danza, ma non sono stata testimone di nessuno di quegli eventi, che presumo di conoscere per via delle immagini che mi hanno raggiunto.
Non ho potuto scegliere da dove e come osservare.

Collettivo Munerude, Rotten#1 Foto di Camilla De Filippis

1.3 Quando i fiori blu marciscono: Rotten#1 di Collettivo Munerude
Loro sono tre, e ho potuto conoscerle all’inizio della ricerca per Granito: Francesca Antonino, Laura Chieffo, Ilaria Quaglia. Non vedo l’ora di vederle qui, nel programma di FOG, una data importantissima per loro, e già solo questo mi emoziona, mi fa prendere posto in mezzo al pubblico con la sensazione di andare in scena. Rotten#1 riprende alcuni materiali da Granito, proponendoli in reverse: invertendo il prima con il dopo e surrealisticamente giocando con le opportunità di destrutturazione e ricomposizione che la materia coreografica offre. Rotten significa ‘marcio’. Come in Granito, anche qui la ricerca si focalizza sui processi di trasformazione e decomposizione della materia organica vegetale, che il Collettivo Munerude dichiara di trovare affascinanti per la varietà di forme e colori transitori che creano: «La sfioritura genera movimento e la decomposizione crea rinnovamento: Rotten#1 vuole mettere in luce questo processo, lasciarlo accadere per rendere evidente il mutamento» [corsivo mio].
I tre corpi femminili si espongono in una quasi integrale nudità, e cascate di lunghi capelli mossi coprono i loro volti; così vicine e in contatto tra loro, creano un corpo unico: un essere fatto di schiene, braccia, gambe, capelli, che porta con sé le marche semantiche dello sforzo e dell’equilibrio. Quando improvvisamente il limite è raggiunto e il corpo si separa in tre corpi, questo lasciare andare diventa sonoro per il fragoroso contatto con la terra, contemporaneamente allargando le pareti del mio torace. Vedo polmoni che escono da schiene che respirano, corpi che vivono l’esperienza di un nuovo contatto, in cerca di uno spazio proprio, e non senza la tensione di una lotta che non saprei dire se è già in corso o deve ancora avvenire. Una lotta che mi sembra riguardare la possibilità di allentamento e ampliamento dei confini del corpo proprio, per lasciare che un altro corpo entri ad abitare gli stessi confini. La percezione è visiva ma anche materica, per via della pressione costante, del contatto teso, delle pelli muscoli ossa che si toccano: anche alle mie mani viene voglia di toccarsi l’una con l’altra, le mie dita vogliono esplorare l’intensa esperienza materica del contatto.
Lasciarsi accadere. Accade poi che uno dei corpi esca dal gioco, abbandoni la temporanea esplorazione quadrupede, si sollevi in ginocchio – offrendomi il miracolo del volto, dei seni e della pancia, di una visione della parte frontale del corpo che finora era negata alla mia vista – si scosti i capelli dal viso, e fermi tutto: «C’è un errore, la traccia musicale è sbagliata». Condivido attesa e tensione, al buio del DiD. E quando la musica di Gabriele Ottino riprende, lungo la giusta traccia c’è l’impressione del metallo che arriva. Il corpo è di nuovo uno, i corpi sono ancora tre.
Un desiderio. Vorrei che anche tu conoscessi la meraviglia dell’esplorazione della colonna vertebrale, la sua flessibilità e la forza di ciò che sostiene la verticalità che abiti. Vorrei che anche tu conoscessi la prossimità e il calore, la pienezza del corpo, dei corpi, l’animalità, il contatto con la terra. Le mie mani sentono il contatto con i capelli che vedo, e le tue? Non si risveglia in te la memoria di un tocco, di una carezza? Il suono è una materia densa entro cui i corpi trovano spazio, forma; si fa amniotico per essere abitato in posizione fetale. Cerco in me l’origine di ogni movimento, soprattutto della tensione che porta le gambe verso il cielo. Quando il piede, punto di contatto e tramite tra la terra e il corpo, si solleva, porta anche la terra con sé: una terra fatta di materia invisibile ma densa.
Questi fiori blu. A marcire per me in Rotten#1 sono questi fiori blu: se da Giannini mi sono sentita invitata a contemplare la situazione storica nel suo flusso mediatico, per trovarla certo non meno confusa di quanto potesse apparire al Duca D’Auge, Munerude mi porta ad affondare nel fango denso di un qui e ora estremamente tattile e materico, da cui non è opportuno fuggire, anche se la posizione in cui ci si trova può essere scomoda. Un’esperienza di presenza nel presente, con quello che c’è, così come accade. Senza il coraggio di vivere le nostre trasformazioni, marcio compreso, non è possibile generare alcun cambiamento.

Se vuoi, qui ci sono le linee guida del mio Diario Coreografico. Ringrazio Monsieur Raymond Quenau per essere stato oggi (e non solo oggi) il mio amico immaginario.