FRANCESCA DI FAZIO | Santarcangelo Festival si riconferma come luogo liminare in cui una contemporaneità futuristica incontra tradizioni che sanno di storia familiare. Si è da poco conclusa l’ultima edizione del triennio curato dalle direttrici artistiche Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino, forti di un commiato che sa più di continuazione e apertura grazie alla nascita di BE PART – Art BEyond PARTicipation, progetto finanziato da Creative Europe, di cui Santarcangelo Festival è capofila e che coinvolge diversi centri di ricerca europei ed extra-europei.

Nell’atmosfera eterea e affascinante dei giorni di luglio che hanno accompagnato l’edizione Slow and Gentle del Festival c’è stata anche l’occasione di partecipare a un workshop libero e aperto a tutti tenuto da Alessandro Sciarroni.
«Vieni a provarla, partecipa al workshop per un giorno o per l’intera durata del Festival: più ti eserciti, più impari, più possibilità avrà questa danza di sopravvivere». Questo l’invito rivolto al pubblico per renderlo partecipe di un progetto teso a salvare dall’estinzione la Polka chinata, una danza tradizionale emiliana conosciuta ancora da sole cinque persone. Abbiamo incontrato Alessandro Sciarroni per farci raccontare una storia di arricchimenti, fiducia e resistenza.

Il progetto che hai portato a Santarcangelo, Save the last dance for me, è il recupero di una danza in via d’estinzione. Come si è sviluppato?

La prima volta che ho scoperto la Polka chinata è stato grazie a un video che mi ha inviato Eva Neklayeva. Non sapevo fosse una danza italiana, bolognese. Il passo successivo è stato andare a vederla dal vivo a Castel San Pietro. Così siamo entrati in contatto con due ballerini e con il loro insegnante, il Maestro Giancarlo Stagni, titolare di una scuola di balli e danza nello stesso paese. Giancarlo ci ha raccontato la nascita di questa danza, che risale ai primi del Novecento, e da lui abbiamo appreso che solo cinque persone in tutta Italia la ballano ancora. Siamo rimasti molto colpiti da questa informazione. Ovviamente la danza non è come una specie vegetale o animale la cui estinzione determina la scomparsa totale del soggetto stesso: la danza è immateriale e si estingue solo nel momento in cui sparisce dalle coscienze. Così abbiamo deciso di attivare questo progetto con l’idea di salvarla soprattutto dall’oblio. Giovanfrancesco Giannini e Gianmaria Borzillo, due danzatori con cui collaboro, sono andati a prendere lezioni nella scuola di Stagni. Poi qualche tempo fa, a Venezia, l’hanno insegnata a quindici danzatori della Biennale College e infine a Santarcangelo abbiamo attivato un laboratorio aperto a tutti. Stiamo così dando forma a un archivio di persone, i cui nomi verranno raccolti sul mio sito in un elenco che comprenderà tutti coloro che hanno partecipato. Dal punto di vista drammaturgico l’idea è stata quella di prendersi cura di qualcosa che è fragile e che rischia di scomparire.

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Rispetto alla ripresa di una danza tradizionale, ci sono dei legami tra questo lavoro e quello affrontato in Folk-s?

Sono due formati diversi. Con Folk-s volevamo parlare della tradizione in generale. La proposta che facevamo al pubblico era quella di essere testimoni della durata di una tradizione. La domanda che ci siamo posti era: “quando e come questa tradizione finirà, se mai dovesse finire?” e l’unica risposta che abbiamo trovato in quel caso era il fatto che una danza esiste fino a quando qualcuno ancora la sa ballare o fino quando c’è ancora qualcuno che è lì, testimone, e la guarda.
In Save the last dance for me la drammaturgia è diversa: si tratta di un progetto di divulgazione, di conoscenza. La Polka chinata è molto diversa dalla danza che avevamo ripreso in Folk-s, ha un numero limitato di passi (chiamati con i nomi delle paste bolognesi: Passettini, Pestatini, Striscini). Lo Schuhplatter ha invece la capacità di essere composto, riassemblato, anche reinventato. Inoltre quello era un ballo di gruppo, mentre questo è un ballo di coppia che pone più attenzione alla fiducia reciproca. È un concetto molto diverso.

Incontrare i conoscitori e custodi di danze popolari per riportarle allo sguardo dello spettatore e salvarle dall’estinzione: quale relazione si crea tra la forma della danza e il pubblico, tra la forma artistica e la vita?

Oggi si parla spesso e giustamente in maniera negativa di “appropriazione culturale”. È infatti molto importante che i progetti vengano realizzati secondo principi etici molto precisi. Il fatto che queste danze ci siano prossime, in un certo senso ci avvicina e ci legittima a poterne parlare, ma la cosa interessante di Save the last dance for me è stata costruire il progetto assieme alle persone che praticano la tradizione. È stato il maestro Stagni a recuperare la Polka chinata quando questa era già morta: ha trovato dei video degli anni ’60, li ha studiati e ha iniziato a insegnare questa danza ridandole vita. Tutto il progetto è quindi stato costruito insieme a lui e ai suoi danzatori, alla comunità che tiene viva questa danza. Anche l’atteggiamento del Festival è stato quello di volerli coinvolgere e di mettere al centro il loro lavoro. Credo sia un arricchimento per tutti. Durante il workshop la danza è diventata il medium dell’incontro tra i partecipanti, sono venute più di novanta persone.

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Dopo il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia a che punto si trova la tua ricerca?

Rispetto al mio percorso non è cambiato nulla, sentivo già che quest’anno sarebbe arrivato a compimento un ciclo. Non a caso ho cominciato a guardare al futuro senza ancora un progetto preciso: l’idea di una nuova produzione c’è, ma per il momento senza data di debutto o residenze programmate. Credo che sarà molto diverso rispetto agli altri lavori. Nel frattempo sto dialogando per collaborare alla realizzazione di un’Opera sperimentale che debutterà l’anno prossimo alla Biennale Manifesta a Marsiglia. Probabilmente per una produzione nuova che porti la mia firma dovranno passare un paio d’anni. Ora sento che si è chiuso qualcosa, non so cosa riserva il futuro, ma sono molto sereno.

I tuoi lavori percorrono spesso un meccanismo coreografico che trova nell’interazione tra i performer e nella ripetitività dei movimenti un nucleo che si ritrova anche nella ripresa della Polka chinata. Che tipo di ricerca è? Anche in questo senso ci sarà la chiusura di un ciclo?

Sono affascinato da eventi ben precisi, Virginia Woolf li chiamava “momenti d’essere”. La lettura della sua opera letteraria mi ha influenzato moltissimo. Sono sempre stato attratto da un certo tipo di ricerca che impiega un numero lunghissimo di anni per compiersi. Penso a Yves Klein, a Rothko, a Morandi. Quello che cambia sempre di spettacolo in spettacolo è la drammaturgia. In base a quella scelgo il linguaggio che mi serve per dire ciò che voglio esprimere. Folk-s è uno spettacolo aperto che richiede da parte dei performer strumenti che appartengono alla performing art e alla danza contemporanea. Con Untitled ho iniziato ad ingabbiare i lavori in formati teatrali chiusi e Aurora contiene un inserto di pura teatralità. In Augusto ho avuto bisogno di approcciare il teatro danza. 66762649_2273645946017485_2368437789571153920_nC’è qualcosa nei formati tradizionali che sta richiamando la mia attenzione in questo ultimo periodo. Rispetto alla ripetizione, per me è una questione puramente ritmica. Uso il ritmo per mettere in relazione il performer e lo spettatore: la ripetizione mi aiuta a predisporre il performer e il pubblico in uno stato che abbandona un certo tipo di aspettative. In questi anni ho sempre cercato di dare il benvenuto allo spettatore in sala, o almeno di provarci: per me è sempre stato importante premiare lo sforzo di chi esce di casa, prende la macchina, cerca un parcheggio, e paga un biglietto per andare a vedere qualcosa che succede in tempo reale. Anche per quanto riguarda il lavoro con i performer, se c’è ripetizione o un uso quasi estremo del corpo è sempre un fattore positivo, non è mai sofferenza, è sempre una ricerca del piacere.

Augusto si situa quindi in un momento di svolta.

Per me ciò che c’è di nuovo in Augusto è soprattutto quello che accade nella seconda parte. C’è un colore scuro che per la prima volta appare nel mio lavoro, una durezza che era assente negli altri spettacoli, diventa quasi un lavoro sul dolore. Dal punto di vista storico, nonostante nei miei lavori non ci siano mai degli intenti direttamente politici, il momento che stiamo vivendo è abbastanza sintomatico e come artista non puoi non esserne influenzato. Augusto è la rappresentazione di una società che è obbligata a ridere per un’ora dall’inizio alla fine quando non c’è niente da ridere. Siamo in una situazione abbastanza straordinaria, nella quale per la prima volta alcune minoranze che non hanno mai avuto voce stanno ottenendo i primi diritti e la possibilità di avere la parola. Ma allo stesso tempo, dal periodo nazi-fascista non c’è stato un altro momento come questo, in cui certe idee xenofobe, razziste e omofobe fossero così diffuse, così legittimizzate, quasi date per scontate. Questo ovviamente in qualche maniera è entrato nel lavoro: in Augusto si ride per un’ora senza motivo, si ride anche davanti a chi sta male, anche davanti a un atto di violenza che può arrivare all’improvviso. Un po’ come il meccanismo infantile di quando ridi tantissimo e poi la volta che ti fai male veramente passi dalla risata alla tragedia. Sì, questo è un momento abbastanza straordinario: un’artista ha tanto su cui dover lavorare.

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