RENZO FRANCABANDERA | Non penso si possa restare indifferenti dopo essere arrivati qui, in questo paesaggio pre-montano e boschivo, immerso fra i calanchi d’argilla nell’Appennino tosco-emiliano.

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Un viaggio, un incontro fortunato, nato quasi per caso dalla caparbietà del solito amico in vena di inviti, in questo caso Michele Pascarella.

Se quello a Capo Peloro di cui abbiamo raccontato qualche giorno fa era un invito di mare, questo è un invito di terra ma anche d’aria, di spirito. Arriviamo dopo alcuni chilometri di curve e un tratto sterrato nella poetica e panoramica via che ci porta fino a Ca’ Colmello, uno dei luoghi simbolici di maggior respiro in Italia per il pensiero (forse anche utopico) dell’arte nel suo rapporto con la natura.
L’approccio al vissuto esperienziale e dell’arte che si promana ci induce fin dall’arrivo a comprendere in modo chiaro che si tratta di un luogo di rilievo a questo fine.

La logica assolutamente sperimentale con cui i due padroni di casa, Chiara Tabaroni e Bruno Fronteddu hanno deciso diversi anni fa di condurre Ca’ Colmello, risponde alla precisa esigenza umana e creativa di due persone che avevano maturato un percorso artistico ma anche di pensiero all’università di Bologna, di cui cercavano una messa in atto empirica. «All’inizio vivevamo in una casa in campagna vicino a Bologna, città attorno a cui gravitavamo. Già in quel luogo avevamo iniziato le nostre sperimentazioni in dialogo con l’ambiente; e tuttavia con il tempo ci accorgevamo che per realizzare i nostri sogni avevamo bisogno di adattare il luogo alle nostre esigenze. Avevamo bisogno quindi di uno spazio nostro, che avremmo potuto modificare in base al tipo di poetica del vivere e di pratica dell’arte che avevamo in mente. Abbiamo cercato, girato tantissimo prima di arrivare qui. E quando l’abbiamo visto, all’inizio ci sembrava un sogno irrealizzabile, sia per l’enorme lavoro che serviva per rimettere in sesto il casolare e sia per il fabbisogno finanziario che l’opera richiedeva».
Ma già allora, come in molte altre circostanze che sono seguite, i due protagonisti di questa vicenda hanno giocato un po’ il tutto per tutto, lasciando che fosse la loro determinazione, la volontà profonda, a portare a compimento la sfida.
Era il 2011.
Nel giro di poco meno di un decennio, il casolare, all’epoca diroccato e restaurato negli anni con pazienza e tanto lavoro, è diventato uno dei luoghi per l’immaginazione e la spiritualità legati alla creatività nel suo dialogo con l’ambiente più interessanti in Italia, per quello che in questi ultimi quindici anni ho potuto vedere e conoscere con i miei occhi.

E così ci troviamo ora, in un bellissimo pomeriggio di fine estate, alla Casa Laboratorio Ca’ Colmello di Sassoleone, sulle colline sopra Bologna, in chiusura della settima edizione di S.I.A. – Sottili Innesti Amorevoli, rassegna di workshop residenziali e spettacoli, curata appunto dell’associazione culturale Baba Jaga, nome del progetto di Fronteddu e Tabaroni.
Mentre i bambini invadono il casolare e giocano con gli animali, gli adulti leggono e cenano con un menù indiano nel silenzio spruzzato di frinire, in attesa dell’imbrunire.

A quel punto, dopo essersi radunati nello spiazzo prossimo al casolare, si segue un percorso illuminato dalle fiaccole per arrivare nella spianata che ospita il meraviglioso anfiteatro naturale di Ca’ Colmello. Un palcoscenico dell’assoluto immerso nella natura e nel paesaggio che lo circonda. «Alcuni artisti arrivano finanche a temere uno spazio così contaminato dall’elemento naturale» mi confessa Chiara accompagnandomi al tramonto a vedere con gli ultimi raggi di sole questo posto spettacolare, circondato da piante di ginestre e dominato da giganti installazioni, realizzate da alcuni degli artisti che in questo luogo sono stati in residenza.
Il timore dell’elemento naturale non è invece cosa che riguardi gli artisti in scena per  Naba Jagoron –  Risvegli, spettacolo di arti performative indiane della Compagnia Milòn Mèla – La Ricerca delle Sorgenti diretta da Abani Biswas (qui un’intervista in inglese al maestro e ad alcuni performer, interpreti della tradizione popolare indiana).
L’artista, già collaboratore di Jerzy Grotowski, è stato fondatore nel 1973 del Living Theatre di Kolkata insieme ad un gruppo di giovani artisti, esperienza grazie alla quale partecipò poi al progetto multiculturale del Teatro delle Sorgenti diretto dal regista polacco Jerzy Grotowski dal 1979 al 1983. Di qui, nel 1986 nacque poi il progetto “La Ricerca delle Sorgenti – Milòn Mèla” con il quale da oltre venticinque anni partecipa a festival, rassegne ed eventi in Europa e in India. Il progetto ha un proprio centro di lavoro, Theatre House (Santiniketan-West Bengal), dove dal 1990 si svolgono sessioni di lavoro e laboratori.

In questa esperienza di spettacolo dal vivo, di natura probabilmente anche divulgativa, si fondono tecniche performative tradizionali di grande effetto e maestria, ponendo in luce gli aspetti più antichi e originali di ogni disciplina, che oggi vanno scomparendo, dai ritmi e suoni Baul del Bengala di ispirazione sufista, ai maestri dell’arte marziale Kalaripayattu (Kerala); dai danzatori Chhau della Purulia (Jarkhand/Bihar) a quelli Gotipua (Orissa), in una combinazione per la quale danza e gesto millenario si uniscono alla coreografia e alla performance acrobatica, tenendo calamitato lo sguardo dello spettatore in un’emozione davvero prodigiosa.
La partitura musicale e vocale che accompagna l’intensa (per taluni versi davvero imperdibile) creazione, di sapore profondamente rituale e ancestrale, viene eseguita da quattro musicisti con strumenti tipici a corde e percussioni; la stessa intensità rituale caratterizza ciascun gesto compiuto dai danzatori/acrobati,
 sia con il trucco tipico dei danzatori Gotipua, sia quando indossano le maschere tradizionali (raffiguranti le divinità induiste, i demoni e gli spiriti tribali) della ancora diffusissima danza Chhau, che nel suo repertorio mescola, fra danza e teatro, storie prese dai Purana, dal Mahabharatha e dal Ramayana, i grandi poemi epici indiani, ancora vivi nella cultura diffusa (qui un filmato di una rappresentazione pubblica recente).

L’armonia e la dolcezza dei movimenti e dell’accompagnamento vocale e strumentale caratterizzano invece la danza che celebra l’unione dell’uomo con la divinità, nella quale il devoto si identifica con l’elemento femminile (Shakibhava), le cui movenze tradizionali risalgono addirittura al Medioevo e alla tradizione delle Devadasi (le danzatrici dei templi).
Lo stile della composizione tutta, ma in particolare di questa parte dello spettacolo in cui gli interpreti non indossano maschere, è estremamente raffinato, e oltre ai movimenti dei passi (non di rado sonori per via delle cavigliere), si usano i Mudra (gesti delle mani), espressioni facciali e posizioni dello Yoga classico.

Davvero sembra incredibile trovarsi in questo antico casolare nel cuore dell’Appennino, e immaginare l’audacia così povera di mezzi (forse qualche aiuto il governo del territorio, inteso in senso un po’ ampio, dovrebbe darlo!) ma così forte di intenzioni, per spirito e potenza evocativa. L’associazione Baba Jaga, infatti, ospita qui nomi assai interessanti della ricerca multidisciplinare artistica italiana e internazionale. Basti guardare i protagonisti di questa edizione della rassegna, con i workshop e le esperienze che spaziavano dall’illustrazione con Joanna Concejo alle pratiche vocali con Ewa Benesz, dalla danza butoh con il maestro giapponese Masaki Iwana alle arti performative indiane con la Compagnia Milòn Mèla, all’ espressione teatrale con Daria Deflorian, fino all’esplorazione di albi illustrati e scrittura con Silvia Vecchini. Progetti per adulti e bellissime esperienze immersive nella natura per i bambini e i ragazzi.

«Questo antico casolare dei primi del Novecento immerso tra colline, ginestre, calanchi,  alberi, distese verdi e orizzonte aperto, è uno spazio dove coltivare un sentire vivo. Qui dal 2011, Bruno e io abbiamo deciso di abitare e creare un luogo prezioso in cui accogliere teatro e arte, corse di bimbi e canti, intrecci di culture del mondo, poetiche e scambi, un ponte tra arte e natura. Abbiamo creduto in un sogno possibile, lontano dalla realtà urbana ma vicino all’intima essenza delle cose», ci dice Chiara.
Negli anni, con l’aiuto anche di diversi volontari che vengono a stare qui in determinati periodi dell’anno, i due hanno ristrutturato con cura lo spazio, creando poi l’anfiteatro in natura, la sala di lavoro, sentieri nel bosco, un frutteto realizzato in crowdfounding, così da raccogliere attorno a questo luogo quella che lei definisce «una sorta di comunità trasversale di fruitori, amici e sostenitori attivi, che si è sviluppata attorno a questa utopia di vita e di visione, un filo sottile e commovente che ci fa resistere, vitali e controcorrente. Per arrivare fin quassù ci vuole la volontà forte di giungervi, sapendo poi che il luogo accoglierà con premura. Il silenzio sarà dono».
S.I.A. – Sottili Innesti Amorevoli è stata negli anni (e anche l’estate prossima sarà) una notevole rassegna di spettacoli. Bellissimi ed emozionanti. Che si concludono con la comunità degli spettatori che, finita l’emozione del teatro, si raccoglie attorno al grande fuoco che Bruno allestisce con cura mentre Chiara riaccompagna tutti dall’anfiteatro al casolare: è capitato di poter testimoniare anche noi, dopo la performance a cui abbiamo assistito, la magia del fuoco sotto un incredibile cielo limpido e stellato.

Ci siamo arrivati. E ci torneremo sicuramente. Per vivere questo dolcissimo eremitaggio, che però facilmente porta dentro se stessi.

E anche a voi che leggete, se siete arrivati fin qui, magari è venuta curiosità.

Dunque è bello lasciarvi a un breve video che raccoglie in sintesi, se non la magia di Ca’ Colmello (che va vista e vissuta in quel posto magico), almeno la bellezza, l’energia e la sconvolgente armonia della creazione di Milòn Mèla, per come andò in scena cinque anni fa allo Street Parade a Roma. Molti di quei momenti sono ancora presenti e vivi nella creazione che abbiamo visto nella notte del 25 agosto a Ca’ Colmello.
Anche allora, come in questo filmato, la performance si è conclusa con la Danza del Fuoco, che unisce l’impeto dell’origine marziale all’eleganza e alla leggerezza dei movimenti quasi coreografati. Un fuoco che qui, fra le colline, diventa protagonista, nel buio della notte in Appennino, riempie lo spazio, e crea la sua comunità quasi spirituale.
Imperdibile esperienza.

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