ANTONIO CRETELLA | Il legame tra cibo e potere, l’intreccio tra culinaria e arte del buon governo, la sovrapposizione del campo semantico della cucina con quello della politica rappresentano una delle più fruttuose commistioni tra due essenziali della natura umana. Se è vero, come dice Aristotele, che l’uomo è un animale politico, risulta ben chiaro il legame tra il bisogno primario di ogni animale, il nutrirsi, con la capacità umana di organizzarsi in società complesse rette da una gerarchia di consuetudini e leggi: gli Stati altro non sono che l’evoluzione ultima della lotta per la sopravvivenza della specie. Non è un caso se le grandi rivoluzioni della Storia, per riuscire, necessitino dell’alleanza tra ideologia e fame: a nulla sarebbero valse la speculazione illuminista e la brama di rappresentanza politica della borghesia senza il potente motore della carestia che alimentò la Rivoluzione Francese, di cui per altro una delle frasi simboliche, per quanto storicamente inaccurata, resta il «mangino brioche» attribuito a Maria Antonietta.
Non serve però ricorrere a casi estremi per trovare traccia del connubio tra cibo e politica: il banchetto e il simposio appaiono con continuità tra l’evo antico, il medioevo e l’età moderna come momenti d’affare politico, sancendo alleanze o perpetrando congiure. Decine di imperatori romani trovarono la morte tramite il veleno occultato nelle vivande, sadici assetati di potere trasformavano gli inviti a pranzo in carneficine degne di un film horror. Machiavelli ci narra di come il Duca Valentino, figlio di Papa Borghese, avesse trucidato i suoi nemici politici a un banchetto da lui stesso organizzato, descrivendo scene grandguignolesche di invitati costretti a mangiare il cibo appena uscito dagli intestini sanguinanti del convitato che avevano accanto, prima di essere essi stessi passati per la spada. Nella storia più recente, il mito di Mussolini si è legato indissolubilmente alla battaglia del grano e alla muscolare iconografia contadina dei produttori di cibo dalla terra, mentre il binomio borghesia-obesità, il “popolo grasso” per eccellenza, è una costante della critica al capitalismo e al consumismo. Anche dal punto di vista metaforico, il richiamo alla cucina informa il linguaggio politico: si cerca la giusta ricetta per l’economia, si parla alla pancia degli elettori, la sede degli istinti primari e pre-razionali.
La polemica sul tortellino al pollo, guidata ad arte da figure impegnate a titillare ogni aspetto dell’istintualità irriflessiva del potenziale elettore, dalla gola al sesso, rientra perfettamente nell’estetica di una politica gastronomica in cui il cibo diventa fattore identitario e si dipana in un preciso progetto politico: la sagra come luogo politico, la voracità come simbolo di virilità al pari del richiamo all’erezione perenne del compianto celodurismo degli anni ’90, il tutto concentrato in un quadro che, tra pane e Nutella e bicchieri di vino, appare coerentemente come una Repubblica delle Banane.
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