RITA CIRRINCIONE | «Sto recitando per voi Mohamed Ali e parlo di me a pieni polmoni, nascosto dietro le parole del pugile io vi parlo del mio dolore». A pronunciare queste parole è Ibrahima Deme, il giovane attore protagonista di M’appelle Mohamed Ali/Chiamami Mohamed Ali, arrivato solo due anni fa a Lampedusa dopo un anno e quattro mesi di viaggio dalla Costa d’Avorio; il personaggio che interpreta è proprio lui, “il più grande pugile di tutti i tempi”, Mohamed Ali, nato Cassius Clay, l’uomo che, nella sua coerente e ostinata ricerca d’identità, ebbe il coraggio di demolire quanto costruito nella sua esistenza di negro-americano di successo – nome, religione, posizione sociale, carriera, titoli – e di riscrivere la propria biografia.

M'APPELLE MOHAMED ALI CHIAMAMI MOHAMED ALI
Foto Alessandro Lopes

La storia del campione del mondo che negli anni sessanta si sottrae al cliché dell’atleta pago solo dei suoi successi, intellettualmente amorfo e incapace di esprimere un’opinione, per assurgere a paladino della lotta alla segregazione razziale, della non violenza, del rifiuto a partecipare alla guerra in Vietnam, diventa emblema di un modo di essere africano nel mondo contemporaneo: orgoglioso della propria identità, capace di occupare un posto nella storia, di prendere la parola, di mostrarsi ed essere visto, sulla scena o sul ring come nella vita.

Andato in scena al Piccolo Teatro Patafisico – nella versione italiana tradotta dal francese da Margherita Ortolani, regista dello spettacolo – M’appelle Mohamed Ali è tratto dal testo omonimo di Dieudonné Niangouna, autore congolese che attualmente vive a Parigi, uno degli esponenti più riconosciuti della drammaturgia africana contemporanea.

A differenza di certi passati allestimenti in cui l’essere africano oggi è stato filtrato da una prospettiva europea ed espresso con un linguaggio estraneo al suo background, attingere a una drammaturgia africana – la sola che può raccontare le urgenze di quei Paesi e che finalmente comincia a essere conosciuta e tradotta da noi – sgancia quella narrazione da un’egemonia occidentale dura a morire, sempre incline a manipolare, a interporre filtri e a perpetuare atteggiamenti di colonialismo culturale.

Uno sgabello, un secchio pieno d’acqua con una spugna dentro, a dare un’idea di ring. Più in là, su un leggio, come attaccata su un cartone, una bandiera americana, anzi, una parodia di bandiera americana: fuori misura, più piccola; le strisce bianche e rosse oblique anziché orizzontali sembrano evocare un segnale stradale di pericolo; nel riquadro azzurro dei pallini al posto delle stelle.

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Ibrahima Deme/Mohamed Ali è solo in scena. Il corpo fragile e forte, il viso attraversato da un susseguirsi di espressioni cangianti (ben sottolineate dalle luci di Gabriele Gugliara e Mbemba Camara) dalla rabbia a una giocosa irriverenza, dalla dura determinazione a un tenero lirismo, racconta una trama fitta (forse troppo serrata) dove l’amara esperienza dello sradicamento dalla propria terra si intreccia con episodi della vita di Mohamed Ali.

Il ritmo trascinante di un efficace tappeto sonoro percussivo (di Roberto Cammarata e Moussa Sangaré) – che sembra scandire l’incessante allenamento quotidiano del pugile – accompagna la narrazione per flash della sua vita, come quell’immagine con il pugno alzato a sfidare il volto oscuro e razzista dell’America, la più grande democrazia occidentale capace di sanguinosi episodi di repressione. Una vita come continuo atto di resistenza che diventa modello di un riscatto possibile e si attualizza in un’esistenza che può affrancarsi dallo status di profugo-migrante-rifugiato-richiedenteasilo.

Elemento-ponte tra le due storie, l’acqua: quella che bagna il volto tumefatto del boxer tra una ripresa e l’altra; quella che tanti migranti hanno dovuto attraversare per raggiungere l’Europa. Liquido primordiale che contiene e che può separare, fonte di vita e causa di tragiche morti.

Ibrahima Deme, con Mbemba Camara, Moussa Sangaré, Souleymane Bah, Moussa Koulibaly e Bassi Dembele, insieme a un gruppo di artisti palermitani, fanno parte di Blitz, la Compagnia di ricerca, formazione e creazione teatrale” che ha curato l’allestimento di M’appelle Mohamed Ali/Chiamami Mohamed Ali.

Fondata a Palermo nel 2014 da Margherita Ortolani, la Compagnia composta dai sei giovani originari della Costa d’Avorio, del Gambia, del Mali e della Guinea che attualmente vivono in centri di accoglienza, ha aderito a Diverse Visioni, un progetto finalizzato all’inclusione attraverso il teatro di giovani migranti, rifugiati e richiedenti asilo della città di Palermo. Ideato dalla stessa Ortolani (responsabile anche della direzione artistica) insieme a Vito Bartucca, dal 2017 ha dato la possibilità a questi ragazzi di partecipare alla vita culturale della città e di assistere a spettacoli teatrali e ad altri eventi.
Con Diverse Visioni#2, seconda tappa del progetto, dalla fase di fruizione, i giovani migranti hanno fatto il salto verso la fase creativa e operativa: guidati da altrettanti tutor, dopo un avviamento all’apprendimento delle arti e dei mestieri dello spettacolo, sulla base delle loro competenze, hanno seguito tutte le tappe dell’allestimento.

Non solo uno spettacolo teatrale messo in scena e una sfida vinta, dunque: M’appelle Mohamed Ali/Chiamami Mohamed Ali per i giovani migranti rappresenta il sogno di una nuova esistenza che prende forma e corpo; per noi, un apporto rigenerante per un teatro alla ricerca di nuovi linguaggi che possano esprimere la contemporaneità e che talvolta  si limita a riscritture e autocitazioni.
A rappresentarlo simbolicamente il sorriso accogliente di Moussa Koulibaly, il giovane addetto alla comunicazione, che ci dà il benvenuto mentre attendiamo l’inizio dello spettacolo e che ci invita a prendere posto in sala. Il volto sorridente di Moussa, che per contrasto ci evoca omologhi con qualche problema di comunicazione e di umore, ci riempie di speranza.

 

M’APPELLE MOHAMED ALI /CHIAMAMI MOHAMED ALI

testo di Dieudonné Niangouna
traduzione e regia di Margherita Ortolani
con Ibrahima Deme
luci Gabriele Gugliara
assistente tecnico Mbemba Camara
musica e suono Roberto Cammarata, Moussa Sangaré
scene e costumi Souleymane Bah, Vito Bartucca
training pugilato Chadli Aloui
comunicazione Agnese Gugliara, Moussa Koulibaly
documentazione foto/video Bassi Dembele, Alessandro Lopes, Laura Scavuzzo
una produzione BLITZ
in collaborazione con Piccolo Teatro Patafisico
con il supporto di UNHCR/INTERSOS
all’interno del progetto DIVERSE VISIONI#2

 

Piccolo Teatro Patafisico, Palermo
25 ottobre 2019