LAURA BEVIONE | A volte merita pazientare, sospendere il giudizio e offrire allo spettacolo cui si sta assistendo la possibilità di imboccare una strada che convinca davvero.
Alla conclusione del primo tempo dello Zio Vanja messo in scena con cast italiano dalla giovane regista ungherese Kriszta Székely in una produzione-scommessa dello Stabile di Torino, il sentimento era di sostanziale delusione.

Gli attori – inutilmente microfonati così che le loro voci giungono meccaniche e aliene – sono costretti ad accordarsi a una nota artatamente esagitata, alzando eccessivamente la voce e gesticolando in maniera inconsunta.
Una linea interpretativa che pare persino mortificare l’interessante apparato scenografico: un parallelepipedo costruito da pareti di vetro trasparente che accoglie al suo interno un tavolo e qualche sedia, un frigorifero sormontato da suppellettili varie. Una sorta di teca museale ovvero serra, a suggerire tanto l’isolamento dalla presunta “realtà” in cui vivono i personaggi del dramma di Čechov, quanto lo stato di apnea in cui essi trascorrono la propria esistenza.

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Foto Andrea Macchia

Un eccesso di “vita” che, pur superando quel lezioso basso continuo che troppo spesso contraddistingue le messinscene cechoviane, risulta ridondante e artificioso. Così come non convince la forzata attualizzazione del testo del dramma – l’adattamento è opera della stessa regista e del suo consueto collaboratore Ármin Szabó-Székely – per cui Serebrjakov non è più stimato professore di filosofia bensì regista-sceneggiatore, mentre l’ambientalismo ante litteram di Astrov si trasforma in fanatica denuncia del cambiamento climatico in corso. “Ammodernamenti” che, in verità, nulla aggiungono alla caratterizzazione dell’interiorità dei personaggi né, tantomeno, al contenuto essenziale del dramma, che Čechov creò in forma di “scene di vita di campagna”, sottintendendo così il suo intento anti-tragico.

Una volontà autoriale sconfessata dalla melodrammatica esagitazione del primo tempo, che contraddice quella concezione di comica orizzontalità quale chiave ideale per ritrarre la condizione umana che informa il teatro di Čechov e che lo rende di conseguenza refrattario a eccessi tanto di pathos quanto di grottesco.

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Nel secondo tempo dello spettacolo, tuttavia, accade qualcosa e la messinscena prende una direzione decisamente più convincente ed efficace. La regia decide forse di fidarsi di Čhecov e, anziché imporre artificialmente soluzioni al testo, lascia che le invenzioni nascano quasi spontaneamente da un dialogo con l’autore non più viziato da aspettative né da presunti obblighi di attualizzazione.
La recitazione degli attori scansa l’iperbole a favore di una complessa e credibile naturalezza che non soltanto sa rischiararne i drammi interiori ma riesce anche ad attivare l’empatia del pubblico il quale, non a caso, inizia a commentare azioni e parole dei protagonisti – ed è interessante che gli spettatori a noi vicini si appassionino alle sfalsate geometrie amorose tracciate da Foto di Andrea Macchia così come si potrebbero accalorare per familiari e amici di lunga data…
Ed è altrettanto significativo che quei personaggi – confusi e fragili, contraddittori e a tratti meschini, in una parola indiscutibilmente “umani” – non suscitino sentimenti manichei, bensì empatica comprensione e, probabilmente, implicita immedesimazione.

Un risultato che la regia, più distesa e finalmente davvero complice del testo, riesce a raggiungere anche modificando la propria direzione degli interpreti, ammirevoli. Ivano Marescotti è un Serebrjakov tanto arrogante e untuoso quanto intrinsecamente insicuro; mentre l’elegante Lucrezia Guidone dà convincente materialità a quell’accidia che non è che autodifesa dalle passioni della vita che contraddistingue Elena. Un’esistenza piatta che riesce brevemente a scuotere Astrov, cui Ivan Alovisio regala un’inquietudine oscillante fra rabbia e cinico disincanto. Un’attitudine alla vita che conquista la Sonia, ingenuamente adolescente eppure già “vecchia”, tratteggiata dalla brava Beatrice Vecchione; mentre Paolo Pierobon sa immergersi con critica e, allo stesso tempo, empatica adesione nelle frustrazioni del protagonista eponimo. Il suo zio Vanja è capriccioso e indolente – si aggira per lungo tempo con indosso un accappatoio sopra gli abiti stropicciati – eppure ardente di energie e di passioni che non sanno trovare sfogo.

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Un uomo troppo giovane per rinunciare a vivere e, nondimeno, dolorosamente consapevole che l’occasione per dare una svolta decisiva alla propria esistenza è oramai passata, senza che lui sia stato capace – o abbia avuto davvero la volontà – di coglierla. Ecco, allora, che il monologo finale di Sonia – «bisogna vivere» – accorato e insieme disperatamente consapevole dell’illusione contenuta nelle parole che la giovane pronuncia, diviene pregnante suggello di uno spettacolo che è finalmente riuscito a trovare una sua convincente forza espressiva. Sonia si siede al tavolo accanto a Vanja per ricominciare il loro quotidiano lavoro e, intanto, partono le note struggenti de L’immensità di Don Backy ma con un improvviso stridore le luci, fulminate, si spengono.

All’infelicità non c’è via d’uscita, ci dicono Čhecov e Székely, e allora non resta che tentare di convincersi che la propria illusione sia verità…

ZIO VANJA
di Anton Cechov

adattamento Ármin Szabó-Székely, Kriszta Székely
traduzione Tamara Török
curata da Emanuele Aldrovandi
regia Kriszta Székely
scene Renátó Cseh
costumi Dóra Pattantyus
luci Pasquale Mari
suono Claudio Tortorici
interpreti Paolo Pierobon, Lucrezia Guidone, Beatrice Vecchione, Ivan Alovisio, Ivano Marescotti, Ariella Reggio, Franco Ravera, Federica Fabiani
produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Teatro Carignano, Torino
11 gennaio 2020