LAURA BEVIONE | Nel lontano 2009 assistemmo al primo spettacolo di OHT – acronimo per Office for a Human Theatre, compagnia fondata l’anno precedente a Rovereto da Filippo Andreatta. Si trattava di Bios Unlimited, incaricato di aprire la seconda giornata dedicata dal festival Teatro a Corte alle “Nuove sensibilità” della scena italiana – così un progetto/concorso del Ministero dei Beni Culturali. L’aspetto più interessante di quello spettacolo era sicuramente lo spazio scenico: trenta casette bianche ispirate all’opera Cabine dell’Elba dell’architetto Aldo Rossi. Si trattava di trenta parallelepipedi di legno, alti e stretti, sui cui lati venivano proiettate immagini varie, fotografie d’epoca in bianco e nero, giochi di luce: alcune delle quali, non a caso, vennero poi diffuse nel parco della Centrale Fies di Dro nel corso dell’edizione successiva del festival Drodesera.

Una spiccata predilezione per la contaminazione dei linguaggi artistici che ha contraddistinto anche i lavori successi di OHT – per esempio, nel 2014, Autoritratto con due amici, in cui venivano messi alla berlina i vezzi del mondo dell’arte contemporanea, sovente autoreferenziale e inefficace. Ora la compagnia, con questo Curon /Graun, pare avere conquistato un suo originale e solido vocabolario.

FQ6A4961 - © Triennale Milano - foto Gianluca Di Ioia
Foto Gianluca Di Ioia

La parola e la presenza fisica degli attori sono annullati a favore di una drammaturgia costruita su un dialogo vivo e complesso fra musica – Fratres del compositore estone Arvo Pärt – e immagine – video e non solo.

Motivo ispiratore dello spettacolo è un fatto storico: dopo svariati progetti e altrettante vicende parlamentari-governative, inevitabilmente condizionate dalle circostanze storiche – l’ascesa del regime fascista, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, il difficile dopoguerra – nel 1950 l’Italia, affamata di energia elettrica, decretò la costruzione di una nuova diga in Val Venosta, opera che determinò la formazione del lago artificiale più esteso della provincia di Bolzano, risultato anche della demolizione e della sommersione di un intero paese, appunto Curon (Graun in tedesco).  A salvarsi dalla ferocia del progresso industriale – e pure dall’ansia di dimenticare il recente passato – fu soltanto il medievale campanile del villaggio, preservato per ragioni storico-artistiche e, oggi, spettrale costruzione affiorante dalle acque.  

Quel campanile, ricostruito come modellino di dimensioni variate ovvero ripreso dal vivo, nel mezzo del paesaggio invernale, è posto al centro del palcoscenico, fronteggiato dall’orchestra (in occasione delle repliche milanesi cui abbiamo assistito, la Sinfonica Giuseppe Verdi).

FQ6A4968 - © Triennale Milano - foto Gianluca Di Ioia

Archi e percussioni eseguono tre differenti variazioni sul tema di Fratres a cui corrispondono altrettante visioni. Sullo schermo bianco viene ricostruita l’articolata vicenda che portò all’annegamento di Curon: abitazioni ed edifici vari furono demoliti, persino il cimitero, ma non prima che tutte le salme fossero riesumate e trasferite in nuove tombe.
Solo il campanile venne salvato: ecco allora comparirne una sorta di miniatura, immersa in una vasca rettangolare, lentamente ma inesorabilmente sommersa di acqua, e allo spettatore manca il fiato, l’annegamento pare reale…

Il paesaggio poi cambia: in soggettiva, viaggiamo lungo la strada che costeggia il lago artificiale fino ad arrivare al punto su cui sorgeva Curon ed ecco comparire il campanile, quasi uno spettro fra le montagne innevate. E, involontariamente grotteschi, notiamo il cartello che segnala i luoghi di interesse turistico e la casettina di legno dove i visitatori possono richiedere informazioni.

eIc_ouxQ

A questo punto il telone/sipario cade e, dal buio, un’apparizione ci sorprende e ci agghiaccia, ci immobilizza e ci emoziona: il campanile è lì, concretissima visione sul palcoscenico in penombra.

Una descrizione, la nostra, inevitabilmente insufficiente nel ricreare la misteriosa e misterica fusione di musica e  immagini, frutto tanto di precisissima e curatissima professionalità – nulla è lasciato al caso, ogni minimo particolare, ogni singola sfumatura di luce – quanto di non velleitaria volontà di tradurre in una lingua tanto esatta quanto evocativa sentimenti ed emozioni non superficiali.

L’apparato scenico e visivo messo a punto dal regista Filippo Andreatta e dai suoi collaboratori – fondamentali le costruzioni sceniche di Paola Villani e le luci, davvero dettagliatamente e inventivamente eloquenti, di William Trentini – sa essere autonomo e, allo stesso tempo, combaciante correlativo oggettivo delle evocative sonorità di Arvo Pärt, indicando così non soltanto una strada originale e creativamente praticabile per OHT ma pure una convincente possibilità di messa in scena della musica contemporanea.

Non soltanto, la particolare drammaturgia coniata dal regista trentino mostra come sia possibile parlare “poeticamente” – ossia in maniera allo stesso tempo metaforica e pratica –  di cronaca, di fatti accaduti nella nostra storia recente, rintracciandone, evidenziandone ed elaborandone i contenuti universali, che, nel caso di Curon/Graun, sono terrore e vuoto, soffocamento e ansia di infinito, granitico istinto vitale che tenta di ribellarsi alla morte…


CURON /GRAUN
regia Filippo Andreatta
set design Paola Villani
light design William Trentini
riprese e montaggio video Armin Ferrari
responsabile allestimento Viviana Rella
assistenza allestimento Massimiliano Rassu
interpreti Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi
produzione Orchestra Haydn di Bolzano e Trento; in coproduzione con OHT, Centrale Fies

Triennale Milano
25 gennaio 2020