LEONARDO DELFANTI | «C’è una sola realtà, una sola felicità al mondo ed è la gioventù». Così recita Lily Ferrer amica di Jezabel in un momento di solidarietà femminile, dove le confessioni hanno il sapore della profezia.
La disarmante verità di Jezabel, romanzo scritto nel 1936 da Irene Nèmirovsky, è l’ineluttabilità del tempo che avanza. Ciò che l’ha reso un classico senza tempo è la società dell’immagine che ritrae. Colei che ha portato lo scandalo della verità alla ribalta è Jezabel, icona tragica di lussuria e superbia che percorre tutta la cultura occidentale dai tempi della Bibbia fino alla pop music.

Gezabele è la regina fenicia che introduce in Israele il culto della sessualità sacra. Per tale motivo il profeta Elia interviene per spodestarla in una guerra civile conclusasi con la defenestrazione della sovrana, il cui corpo viene abbandonato per giorni alla mercé dei cani.
L’innegabile forza tragica di colei che è stata identificata, nel corso dei secoli, ora come emblema del peccato, ora come vittima del fanatismo religioso, ha fatto sì che la sua storia si insinuasse come icona di bellezza e dannazione nella narrazione collettiva.
Nel XIX sec. Jezabel divenne la contro-immagine dell’ideale femminile vittoriano: gli studiosi parlano di “stereotipo di Jezabel” riferendosi allo strumento culturale adoperato durante l’era coloniale per tacciare le donne africane di immoralità e promiscuità sessuale; stereotipo tutt’oggi esistente, non solo nella cultura anglosassone.
A Jezabel sono dedicati blog femministi e canzoni pop: Ricky Martin, José Luis Rodríguez, Waldemar Matuska e Sade ne celebrano destino crudele e disarmante bellezza.

Questo mosaico culturale, tanto vasto quanto eterogeneo, ha un suo tassello anche nell’opera di Irene Nèmirovsky, andata in scena con l’adattamento di Francesco Niccolini e la regia di Paolo Valerio per la produzione del Teatro Stabile di Verona e del Teatro Stabile di Napoli.

La scena, ambientata a Parigi negli anni che circondano il primo conflitto mondiale, si apre con il processo alla protagonista. Calano dall’alto lo scranno del giudice, a sinistra, e il banco degli imputati, a destra, quasi a richiamare l’arcano maledetto che si mostra sotto gli occhi, bramanti spettacolo e vizio, della società parigina e di noi tutti, pubblico riunito.
Jezabel (Elena Ghiaurov), al centro, è distaccata: l’accusa di aver ucciso il giovane amante Bernard Martin (Jozef Gjura) non la tange. Ella, incredibilmente attraente seppur ormai sessantenne, si trova su un altro livello della scena: la sua figura si intravede sullo sfondo, coperta da uno schermo di proiezione che ne vela la siluette alla fine di un meraviglioso boulevard innevato.
Il tableau, costruito da Antonio Panzuto, ci abitua sin da subito alla dimensione registica della doppia narrazione: da una parte un testo teatrale costretto a essere recitato in piccoli riquadri, confinati alla dimensione dell’oggetto calato dall’alto che narra attraverso sei attori le dinamiche di quattordici personaggi; dall’altra le vicende che sfuggono alla narrazione diretta, gli eventi che generano il teatro, la trama non pronunciabile del romanzo di Irene Nèmirovsky, dietro a uno schermo su cui, di volta in volta, sono proiettate le ambientazioni, a loro volta contestualizzate dalla musica del pianoforte suonato live da Sabrina Reale.

Il processo, conclusosi con una condanna a cinque anni di reclusione per delitto passionale, lascia però gli uditori insoddisfatti. Aleggia, già nelle capziose domande del presidente di giuria (Roberto Petruzzelli), l’interrogativo sulla genesi dell’efferato delitto. La spettacolarità di una vita passata nello scandalo è ciò che genera l’attrattiva tragica del mito Jezabel.
Inizia così a tracciarsi – complicatamente – a ritroso la vicenda di una giovane donna innamorata della vita, ossessionata sin dalla pubertà, dalla bellezza, dal lusso e dagli amanti. Gli innumerevoli amanti nei quali essa si rispecchia sono esemplarmente personificati da Leonardo De Colle nel doppio ruolo di Claude-Patrice Beauchamp, il primo a dichiararsi quand’ella ancora non sa cosa sia l’amore, e del conte Aldo Monti, a cui la protagonista tace il segreto della propria età per timore di essere abbandonata.
Sarà proprio il conte a rafforzare in Jezabel la convinzione che una donna sia desiderabile «finché è bella»: il credo della giovinezza a qualunque costo, germe accresciuto dalle frequentazioni dell’alta società parigina.

Una spirale drammatica, registicamente narrata a scena aperta, in cui sedie, tavoli e letti colano come macchie di ricordi di una vita che alla bellezza immola tutto. Purtroppo in molti quadri gli attori sembrano essere slegati dalle vicende, come distaccati dall’evento scenico per mancanza di appigli reciproci in uno spettacolo ricco di dettagli poco amalgamati da una regia che non riesce a connettere i livelli della scena.

«I figli invecchiano, ma non invecchiano loro, invecchiano te»: Jezabel arriva a sacrificare la figlia Marie-Therese (Giulia Odetto). Il diniego della verità è insito nella protagonista a tal punto da portarla a ostacolare il matrimonio per amore tra la figlia e Olivier Beauchamp (Jozef Gjura) e ad abbandonare, seppur la figlia sia morta dandolo alla luce, il nipote, Bernard Martin (sempre Jozef Gjura).
Proprio nello scontro tra madre e figlia si evince maggiormente la difficoltà registica nel guidare gli attori costretti in uno spazio angusto: Paolo Valerio decide di soffocare i singhiozzi della figlia dentro le pieghe di un letto, imponendo così un silenzio poco realistico e per nulla adatto a un romanzo che fa spettacolo del dramma umano.

Il segreto dell’età che passa, mosso dal desiderio di mantenere a sé il suo unico vero amore, fa di Jezabel, la cui anima per sua stessa ammissione «è vecchia, ha l’odore della morte», lo spettacolare scandalo che l’archetipo biblico ha tracciato nel nostro immaginario.
Jezabel sacrifica la sua stirpe per l’illusione della giovinezza: il suo è un atto contro il quale il giudizio divino tuttavia resta sospeso, come il telefono che squilla, anch’esso calato dall’alto. Quella telefonata a cui risponde solo la morte.

Lo scandalo del romanzo della Némirovsky è lo scandalo di quella che la psicologia chiama gerontofobia, la paura del corpo che invecchia, l’invidia per la giovinezza. La regia, allora, non riuscendo ad amalgamare i livelli della narrazione, perde l’occasione di raccontare fino in fondo l’aspetto drammatico di un ego pronto a sacrificare tutto purché «la morte arrivi prima della fine del piacere».

 

JEZABEL

dal romanzo di Irene Nèmirovsky 
adattamento Francesco Niccolini
regia Paolo Valerio
con Elena Ghiaurov, Roberto Petruzzelli, Leonardo De Colle, Francesca Botti, Sara Drago, Giulia Odetto, Jozef Gjura
pianoforte Sabrina Reale
movimenti di scena Monica Codena
scene Antonio Panzuto
costumi Luigi Perego
consulenza luci Luigi Saccomandi
musiche Antonio Di Profi

Teatro Nuovo di Verona
20 febbraio 2020