ESTER FORMATO | Un paio di anni fa ne riportammo notizia all’interno di una ricca carrellata delle giovani realtà milanesi; ora Bedbound per la regia di Margherita Scalise ritorna con una seconda versione al Teatro Libero di Milano.

Il testo di Enda Walsh, autore irlandese, classe 1967, è una partitura a due voci nuda e cruda, intriso di un linguaggio spesso basso, volgare e violento, non di certo sconosciuto alla drammaturgia anglofona a cavallo fra i due secoli, in cui esplodono pulsioni e solitudini contemporanee che disconoscono altra comunicazione.
Questa pièce, infatti, strutturata apparentemente come dialogo fra un padre lurido e meschino e una figlia paralitica costretta a letto, ha una forza quasi icastica nelle parole e avvampa ancor di più perché, appunto, il dialogo è solo apparente. All’interno della compagine drammaturgica si nascondono invece due partiture monologanti che si intersecano in una disperante rincorsa alla rabbia da riversare sull’altro.

Per questo motivo il letto dove giace questa figlia diventa l’unico luogo scenico in cui è possibile che avvenga la narrazione; è enorme il piumone bianco che conquista ogni millimetro del palco, mentre lo stesso letto posto verticalmente sul fondale custodisce il corpo rattrappito di una ventenne ancora in bikini come l’ultima volta in cui la sua mamma l’ha vista sana, che sbadiglia e sulla quale è puntato un faro bianco.

Il padre emerge da quella grande coperta; ha un aspetto meschino col suo quotidiano vestito umidiccio, mentre un suono fastidioso si propaga per la scena, dando la percezione che quello spazio che dovrebbe circoscrivere la graziosa cameretta di una ventenne, è in realtà una sorta di bunker di ignota ampiezza (che sia opprimente o sia al contrario esteso, rimanderebbe in ogni caso a un senso di squallida angoscia).
L’uomo sciorina un profluvio di parole: aggressivo, accecato da meschine ambizioni, è il risultato di una scalata sociale che lo ha visto da magazziniere a proprietario di un mobilificio. Senza scrupoli, pronto persino alla prostituzione del proprio corpo, ha incentrato l’esistenza sul bieco profitto, agendo sempre e solo in funzione di ciò. L’esacerbazione del linguaggio prende a trasformare un dialogo in due monologhi distinti in cui, però, non di rado l’uno completa quello dell’altra sebbene fra loro sussista solo un legame costrittivo dato dalla mera biologia.

La ragazza odia alacremente suo padre e maledice la sua condizione di paralitica, rivendicando una madre affettuosa e remissiva morta dinanzi ai suoi occhi. Nonostante agisca a un livello superiore rispetto al piano d’assito, è in realtà trincerata da una barriera materiale e umana costruita dall’uomo che più volte ha rinnegato la sua esistenza. Legge e rilegge una fiaba di cui mai sarà protagonista e sogna, quasi bestemmiandola, una vita che non vivrà mai. Solo le parole che emette le ricordano di essere ancora viva oltre quella  bara in cui sembra sepolta, e la sua voce si fa così avida di vita che la partitura assomiglia sempre di più a uno scontro corpo e corpo. Come in una lotta, si respingono violentemente senza trovare requie, accumulando un climax di risentimenti, di ferite profonde incuneate in una quotidianità cruenta e mediocre.

La regia di Margherita Scalise verte verso un’interpretazione quasi onirica del testo, le intersezioni fra le parti dei due personaggi ci immergono infatti in una relazione controversa, cruda si, ma al contempo delicata. Ne emerge la solitudine ma anche il sospetto che l’uno non potrebbe esprimersi senza l’altro; l’involucro del piumone in cui il padre si nasconde, di cui poi si disfa, per poi ancora rituffarvisi è la sintesi visiva di quanto si nasconde nelle drammaturgia, ma d’altro canto è interessante perché, pensando anche alla sua grandezza, è metafora di una inevitabile condivisione fra i due che si respingono con la violenza della parola.
Eppure, l’impressione è che il silenzio potrebbe essere un incubo ben maggiore, un orrifico senso di morte per la figlia, un orrendo senso di colpevolezza per il padre, vanificazione e quindi spazio vuoto a cui solo le parole possono ovviare.

Ma Enda Walsh non lascia lo spettatore in questo turbine di maledizione e di solitudine; non appena il rinnegamento di ogni sentimento toccherà il fondo, l’autore ci riporterà a una rarefazione del linguaggio: esso si dirada e dilata a poco a poco il respiro dei personaggi, dunque ne riemerge l’anima, finché lo stesso spazio vuoto diventa contatto, compassione, salvezza e rinascita.

Sulla scena i due attori Woody Neri e Alice Spisa non si risparmiano: la caratterizzazione fisica, gestuale, ma anche psicologica dei personaggi è curata quasi al millimetro, plasmano perfettamente la parola attraverso il loro lavoro attoriale, rendendola quindi concreta, dando così intensa voce a questa inquieta drammaturgia che non conosce nessuna dolcezza.
Neanche per un attimo.

 

BEDBOUND

di Enda Walsh
regia Margherita Scalise
con Woody Neri e Alice Spisa
consulenza alla traduzione Flavia Casini, Gianluca Gagliardi, Francesca Gatti
sound design Hubert Westkemper
light design Daniela Bestetti, Paolo Latini, Simona Ornaghi
scene e costumi Margherita Scalise
foto si scena Francesca Marta e Marina Alessi

Teatro Libero, Milano
20 febbraio 2020

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