MATTEO BRIGHENTI | L’imperativo del vivere sociale, per come lo abbiamo conosciuto finora, era uno e uno solo: correre. Restare chiusi, segregati in casa come siamo tutti noi per il contenimento del Coronavirus, ci sembra allora la più ingiusta e terribile delle condanne. «È come se il ritmo del corpo dovesse continuare sempre e comunque sulla corsa della società – dice Iacopo Braca a PAC – questo momento di fermata ci può aiutare a scoprire qual è il nostro proprio ritmo».
Classe 1980, fiorentino, Braca sviluppa progetti di coaching che mettono al centro l’arte, la letteratura, il teatro come strumenti formativi, per il miglioramento della comunicazione interpersonale, il benessere individuale e collettivo, per sviluppare  competenze trasversali, per affrontare ogni avventura in piena consapevolezza. È tra i fondatori della pluripremiata compagnia Teatro Sotterraneo (oggi semplicemente Sotterraneo), a cui ha detto addio con una performance nel 2014, Morire in volo. 17 anni di teatro. Quell’anno ha dato vita a Jangol e dal 2016, in collaborazione con la Fondazione Teatro della Toscana, ha creato il percorso di formazione Accademia dell’Uomo.
«Non ci diamo mai l’occasione di stare dentro di noi – ragiona – nella società capitalistica che abbiamo costruito dobbiamo fare, consumare e basta, il tempo lo spendiamo in questo: è tutta una serie di azioni a cui ormai il corpo è abituato».

Iacopo Braca. Foto Filippo Manzini

Ce lo dicono e ripetono ogni giorno: stiamo vivendo in un tempo sospeso. Per te che cosa significa?

Io non lo sento come una sospensione, io lo vivo come la vita. Dentro all’esistenza che stiamo vivendo c’è questo periodo nel quale, invece di andare fuori, stiamo dentro. Solitamente siamo sempre molto portati ad andare fuori, a fare azioni che ci portano verso il fuori – la città, gli eventi, la società – adesso ci tocca stare dentro: dentro la casa, dentro noi stessi, dentro i nostri pensieri. Questo movimento inverso, a mio avviso, è molto prezioso.

Perché ci spaventa o, comunque, ci pesa così tanto fare un’azione all’apparenza semplice come restare in casa?

In casa di solito ci stiamo in funzione del fuori e non della casa stessa. Adesso dobbiamo rifarci un’altra grammatica, dobbiamo riprogrammare il nostro corpo a muoversi in uno spazio più limitato, ad avere una relazione più stretta con chi condivide con noi questo periodo di isolamento. Se c’è un problema, non scappi. Ci devi stare, sei inchiodato ad affrontarlo. Difatti, iniziano a saltare fuori tutte le criticità della nostra struttura sociale.

Tu ci sei arrivato allenato oppure ha sorpreso anche te?

Negli anni mi sono allenato. C’è chi va in palestra e chi, al contrario, passa giorni in casa spengendo Internet, fa i suoi riti di meditazione, di yoga o qualsiasi altra cosa che può farti stare dentro al corpo. Ho costruito poi un ambiente per me piacevole, anche a livello estetico: ho tutte le mie cose, i miei libri, le mie passioni. Quando lo spazio ti rappresenta, in qualche modo, ti senti accolto, coccolato. Poi ho accanto una donna che amo, che ho scelto, quindi sono molto fortunato.

La grandezza della casa aiuta?

La grandezza della propria abitazione, se ci pensi, nella nostra società è sempre legata all’economia. Chi ha più reddito, chi ha più patrimonio, ha la possibilità di avere più metri quadri. Per una classe sociale media nella quale io, almeno, mi trovo, si tratta dei metri quadri che mi corrispondono: in quelli stiamo. Certo, non è tanto lo spazio dentro alla casa l’importante, ma è soprattutto quello dentro di noi. Cioè, quanto spazio abbiamo fatto dentro alla nostra mente, quanto, affacciandoci alla finestra, possiamo coprire con i nostri pensieri, con la nostra immaginazione. Lo spazio potenzialmente è infinito, se guardiamo dentro di noi.

L’uso smisurato dei social, delle dirette giornaliere su Facebook o su Instagram, è una testimonianza di quell’infinito o, al contrario, della nostra finitezza?

Intanto, non so se qualche volta sei uscito per fare la spesa, ma stanno già cambiando le cose a livello di impatto ambientale: non ci sono quasi più macchine, l’inquinamento si è abbassato, si sente proprio l’aria diversa, se uno la percepisce. La questione è che ora non comprendiamo che anche Internet ha un impatto che inquina. Ne stiamo abusando, secondo me, perché abbiamo paura, in questo tempo, come dicevi te, “sospeso”, di scomparire. Oddio – pensiamo – se tra un mese non ci sono più lì dentro cosa succede? C’è dunque una rincorsa a riempire gli spazi vuoti in maniera digitale. Quando tutto questo sarà finito ci dovremo chiedere: quali parti di noi dobbiamo riempiere oppure svuotare? Capire il rapporto tra la contrazione e il rilascio sarà fondamentale. In questo momento abbiamo una contrazione del corpo, se vai a giro devi tenere la distanza, i muscoli sono tesi, c’è stress perché hai timore di chi hai di fronte, non puoi toccarti. Sarà interessante vedere come il corpo reagirà quando potrà tornare a non avere divieti.

Ora siamo solo mente o dovremmo essere solo mente?

Molte delle nostri azioni sono mentali e stiamo agendo soprattutto in base alla paura. Però, la questione è: cosa abbiamo fatto per arrivare a questo? Oppure, quali azioni non abbiamo fatto per evitarlo?

Foto Filippo Manzini

Padre Bernardo Gianni, abate fiorentino di San Miniato al Monte, mi ha detto qui su PAC che questo tempo non può essere una parentesi.

Sono d’accordo. Da qui parte tutto il nuovo mondo che dobbiamo essere in grado di costruire. Questa è una grande occasione per prenderci un tempo non tanto per riempire uno spazio digitale perché temiamo che nessuno ci veda più, perché dobbiamo intrattenere, ovvero tenere le persone dentro a un tempo del quale non sanno cosa farsene, ma piuttosto per riflettere, per capire. Ad esempio, se la persona accanto a noi è quella giusta, oppure per domandarci perché l’abbiamo scelta, o ancora per scoprire quali sono le cose che potevamo fare meglio. Ognuno guarda a se stesso, ma sappiamo bene che le scelte dei singoli hanno poi un impatto sulla globalità delle persone.

Questo dunque può essere davvero un tempo pienamente pasquale, per citare ancora padre Bernardo, del sacrificio che ci riveli un cammino di consapevolezza, accettando il momento per ciò che è, senza ammantarlo di “finta normalità”?

Sacrificio è una parola molto importante, però nella nostra cultura occidentale è un po’ distorta. In senso etimologico significa rendere sacro. Ecco, secondo me questo momento avrà valore se riusciamo a renderlo sacro. Mi riferisco, per ognuno, alla sacralità dello stare in questa dimensione, nella propria solitudine, nella propria relazione, anche in quello che stiamo facendo noi: uno scambio di riflessioni, che forse prima non avremmo potuto avere. Ha una sua importanza questa mezz’ora che ci stiamo prendendo al telefono, probabilmente la routine non ce ne avrebbe data l’opportunità.

Cosa consiglieresti di fare a chi è totalmente impreparato ad affrontare questo periodo?

L’ho testato su di me: spengere tutto. Darsi 48/72 ore offline, riprendersi il tempo e lo spazio fuori dal digitale. Delle piccole pratiche sono, per esempio, stare in ascolto del proprio respiro, cercare di non pensare a niente oppure pensare a una cosa in maniera profonda facendosi tante domande. Le domande sono fondamentali: attivano il pensiero. Tutto questo stare online, io credo, ci seda parecchio. Nessuno si è ribellato a questo stare chiuso in casa, nessuno ha portato un pensiero altro, a parte i carcerati e al Sud, dove però alla crisi sociale si somma lo sciacallaggio mafioso. La ribellione è importante, la rivolta crea dibattito. Già partire dal chiudere Internet è qualcosa. Ci possiamo trovare tutte le vie del mondo – è il suo bello –, ma il problema di oggi è che le tante, troppe informazioni molte volte non le sappiamo leggere, oppure non le sappiamo collegare, e perciò non riusciamo a definire una strada che sia nostra. Le molliche di Pollicino, per capirci, sono moltissime, ci possono portare ovunque, al punto che ci perdiamo: tracciare una via è proprio mettere insieme le briciole di informazione che ci servono a orientarci. Comunque, più stiamo nel corpo e più, secondo me, possiamo attivare qualcosa. Il divano, ovviamente, attrae e distrae.

Il divano come simbolo di ciò che è facile, confortevole, noto. Un’altra comodità è diventata l’ironia?

L’ironia, la risata, come sai bene, serve per esorcizzare la paura. Ridere poi è un atto fisico, si attiva la serotonina, il nostro corpo produce un altro modo di guardare la realtà. In questi giorni pensavo a “Charlie Hebdo”, chissà come starà comunicando oggi. Perché l’ironia, se è davvero graffiante, non viene capita, anzi viene proprio attaccata, esattamente come è successo e succede al giornale satirico francese. Quando le cose non ci riguardano, ne ridiamo, quando invece ci toccano da vicino ci scatta dentro la rabbia. Al contrario, chi è veramente ironico lo è sempre. Un film come A Futile And Stupid Gesture diretto da David Wain, che ho visto da poco su Netflix, parla proprio di come si può dissacrare e distruggere tutto con l’ironia. Un piccolo gesto può veramente cambiare il nostro punto di vista sulle cose. Il fatto è: ci sono realtà che fanno questo? Che hanno questa forza pure in questi frangenti?

È ben altra cosa dalle battute da Web…

Se veramente vuoi distruggere una paura, in maniera sarcastica, da atto psicomagico, citando Alejandro Jodorowsky, allora lo fai fino in fondo, cioè attraversando la tua vita, non facendo solo una rappresentazione. “Charlie Hebdo” ha ironizzato perfino davanti al fatto che sono stati uccisi i propri giornalisti all’interno della redazione. Questo significa essere realmente fedeli alle proprie idee e alle proprie visioni del mondo.