MATTEO BRIGHENTI | Una provocazione di pensiero rivolta a questo tempo nelle mani del Coronavirus. Immaginabile perché i Sotterraneo sono tra i pochi veri sperimentatori del linguaggio e dei contesti, sopra e sotto il palcoscenico. Attraverso Daniele Villa, il ‘drammaturgo’ e ‘dramaturg’ classe 1982, abbiamo così interrogato i fantasmi della nostra società che la pluripremiata compagnia fiorentina di ricerca evoca nei suoi spettacoli tuttora in repertorio. «Le domande che poni chiamano al gioco, che noi prendiamo sempre sul serio – premette Villa – e quindi giochiamo».
È la prima volta dall’inizio della pandemia che qualcuno di loro rompe il silenzio dietro a cui tutti si sono rifugiati. «Sai benissimo che noi Sotterraneo – spiega – abbiamo speso i mesi di quarantena rintanati al buio come pipistrelli (tanto per scegliere un animale a caso…) schivando ogni possibile intervista, intervento o internet-action in genere, in preda a un profondo senso di inadeguatezza nel parlare di quello che stava accadendo. Ora però – continua – è arrivata la nuova “Fase 2”, e forse possiamo provare a parlare (con un po’ di leggerezza)».
Ne è nata una sorta di “intervista impossibile” alle ombre che popolano e ci parlano da Homo Ridens (2011) a BE NORMAL! e Be Legend! (2013), da Overload (2017) a Shakespearology (2019). Fino a fantasticare un’ipotetica, sconvolgente durational performance di 12-24 ore su vita, morte e dis-attenzione da Covid-19.

Lo dicono tutti, perciò comincio i miei incontri di questo periodo sempre da qui: viviamo in un tempo “sospeso”. Cosa significa per te?

È sospeso se tutti vogliamo soltanto tornare al più presto nel punto in cui eravamo prima. Come se qualcuno avesse premuto il tasto “pausa”. Quindi, forse, non dovremmo chiamarlo sospeso, in virtù del valore operativo delle parole. Tutti, infatti, dicono che non dobbiamo tornare nel punto in cui eravamo prima, ma la verità non è ciò che si dice, ma ciò che bolle nell’inconscio collettivo. Di fatto, la pandemia è uno spartiacque e questo tempo non è più il “prima” e non è ancora il “dopo”. Quando mancano le parole di solito qualcuno salta fuori con un neologismo che s’impone di per sé; vedi alle voci selfie, googlare, post-verità. Se mi viene in mente il neologismo giusto garantisco l’esclusiva a Pac per il lancio.

Sotterraneo (da sinistra: Daniele Villa, Sara Bonaventura, Claudio Cirri) Foto Andrea Pizzalis per Centrale Fies

Come Sotterraneo vi muovete attraverso i formati «focalizzando – scrivete – le contraddizioni e i coni d’ombra del presente». Quali delle une e degli altri rintracci in questo presente?

Questa è facile. Contraddizione: salute vs economia. Cono d’ombra: la pandemia è solo l’antipasto, la portata principale sarà la crisi climatica. Banalità? Vero. Forse, però, in questo tempo – inserire qui il neologismo – è bene evitare di lanciarsi in astruse profezie o speculazioni e soffermarsi, invece, a ripetere chiaramente e compulsivamente quello che sappiamo già, anche perché il rumore di fondo è tanto e la capacità di esercitare il pensiero complesso è ai minimi storici.
Aspetta però, me ne viene in mente un’altra. Contraddizione: cercare di risolvere il problema usando la stessa mentalità che l’ha creato (copyright Albert Einstein). Cono d’ombra: il lavoro cognitivo, perché una democrazia irrazionale è solo un teatrino di marionette emotive (copyright Yuval Noah Harari). Aspetta, un altro ancora… no scherzo, fermiamoci qui. 

I vostri spettacoli sono costruiti spesso, anzi, ora che ci penso, sono costruiti in qualche modo sempre come un esperimento, un test, rispetto alla drammaturgia, ai performer, all’azione in scena e con il pubblico. Non è che forse, per certi versi, anche adesso siamo parte di un qualche esperimento?

No, secondo noi no. Un esperimento è condotto da qualcuno con precisi scopi, con forti premesse teoriche, a volte in doppio-cieco per evitare condizionamenti, nel migliore dei casi mantenendo grande apertura mentale rispetto ai risultati. E in effetti sì, ci è capitato di usarlo come dispositivo drammaturgico, come “contratto” che per un’ora circa ci legava agli spettatori, i quali erano perfettamente consapevoli dei termini dell’accordo e della complicità a cui questo li chiamava. Quello che sta accadendo adesso, invece, non è un esperimento (con buona pace dei complottisti d’accatto cui il Web ha dato ormai asilo stabile). Non c’è nessun “disegno” e, al contrario, noi saremmo felici che fosse un’occasione per sviluppare disegni intelligenti e visionari per uscirne.

Be Normal! Foto Claudia Pajewski

Presentate il vostro BE NORMAL! come la «giornata impossibile fra aspirazioni, fallimenti e sopravvivenza quotidiana». Sembra la radiografia profetica dell’isolamento da Coronavirus. Come si fa a essere “normali” oggi? Avere, come voi, il daimon dell’arte dentro di sé è di aiuto oppure no?

In effetti potremmo fare un BE NORMAL! 2 modalità quarantena e porci gli stessi problemi, ma ricontestualizzati. È anche vero, però, che in BE NORMAL! si susseguivano quadri di sopravvivenza quotidiana fra impegni, spostamenti urbani e sottili umiliazioni, lavoro, mobilità, spazio pubblico: tutte cose che la quarantena ha – collocare qui il neologismo, altrimenti usare “sospeso”. Perciò, forse BE NORMAL! è inattuale rispetto al lockdown, ma rischia di tornare attualissimo negli anni di recessione economica a cui dovremo sopravvivere. Comunque, al di là dei fattori economici, la normalità è già di nuovo in agguato: sono uscito per la prima volta dopo due mesi (supermercato a parte) e le strade erano come le ricordavo, tranne il dettaglio delle mascherine e del tentativo di tutti di stare lontani gli uni dagli altri… insomma era tutto come prima, ma anche diverso. La normalità ha assunto un carattere perturbante che potrebbe predisporci a dei cambiamenti… ed è curioso come di tutte le “apocalissi” immaginabili ci siamo ritrovati a viverne una che in qualche modo ci suggerisce anche la soluzione, ovvero il senso della misura. Di fatto per i Greci andava di pari passo con il daimon: segui la spinta daimoniaca, ma con misura, che poi vuol dire con la consapevolezza della realtà che ti circonda e dei suoi limiti.
Detto ciò, se parliamo nello specifico di “daimon dell’arte”, secondo noi quello aiuta sempre: siamo tutti intrappolati in uno stato di nevrosi (chi più intensa, chi meno), ma se puoi raffinarla e darle corpo in un’opera e se addirittura sei così fortunato che agli altri interessa ascoltarti, allora devi solo essere grato.

Cerchiamo di essere “normali”, ma forse, per chi verrà dopo di noi, diventeremo leggendari, come il protagonista del romanzo di fantascienza Io sono leggenda di Richard Matheson. In Be legend! ripensate l’identikit infantile di alcuni personaggi storici o dell’immaginario divenuti, per l’appunto, leggenda: Amleto, Giovanna d’Arco, Adolf Hitler. Tra queste, qual è secondo te l’identità migliore per essere le nuove leggende del quotidiano?

Questa non lo so. Davvero. Mi limito a dire che hai sfiorato lo spoiler su Matheson (il film di Francis Lawrence è perdibile, ma il libro no, e sono molto diversi) e che la più grande paura è che il disordine e la crisi economico-climatica spingano i più verso un mix di tutte e tre le identità: il dubbio elevato a prolungata inazione di Amleto, il fanatismo disancorato dalla realtà di Giovanna, il fascismo come risposta psicopatologica collettiva all’ansia di un’epoca. In realtà, non mi viene in mente nessun personaggio specifico che possa incarnare la schizofrenia cui siamo sottoposti ora, però posso rilanciare sul terreno dei romanzi di fantascienza con Fiori per Algernon di Daniel Keyes, storia di un uomo stupido – da qui in avanti spoiler alert – che diventa mostruosamente intelligente, con tutto il dolore che questo comporta, e poi torna a essere stupido: secondo alcuni pensatori questa è la curva de-evolutiva che stiamo vivendo come specie.

Be Legend! Foto Ruben Gamez

L’acqua in cui ci muoviamo è quindi tanto agitata quanto incerta. Quali strategie possiamo adottare almeno contro la debordante esposizione mediatica a cui siamo sottoposti giornalmente? Cosa ne direbbe il “vostro” David Foster Wallace immaginato in Overload?

Questo è un bel gioco. Cosa avrebbe scritto David Foster Wallace del Coronavirus? Cosa avrebbe scritto Walter Benjamin della caduta del Muro di Berlino? Cosa avrebbe scritto Charles Darwin dell’ingegneria genetica? La risposta ovviamente è che non lo sappiamo. Andrebbero scritte lunghe interviste impossibili e forse alla ventesima stesura avremmo una simulazione credibile.
Questo esercizio, però, rischia d’intrappolarci nella nostalgia e di farci credere che i pensatori, quelli veri, quelli illuminanti, appartengano solo al passato. E non è vero. In campo neuroscientifico e statistico questo esercizio di idealizzazione del passato si definisce “retrospezione rosea” ed è uno dei tanti meccanismi paleolitici in cui i nostri cervelli ci intrappolano. L’intelligenza collettiva è a lavoro anche oggi, il problema è orientarsi e per noi le strategie sono essenzialmente due: co-evolvere con l’ambiente “raddoppiato” dai media attraverso quella che il filosofo Yves Citton chiama ecologia dell’attenzione e nel frattempo studiare come funziona il cervello – bias cognitivi, euristiche, fallacie logiche: in pratica si tratta di provare a ridurre il rumore di fondo attraverso un’attenzione selettiva-profonda e il pensiero critico razionale. Un percorso noiosissimo e frustrante, devo dire, però non vedo altre strade per stare in un mondo che si va trasformando in pacchetti di informazione e realtà aumentate, in concomitanza con un anno o due di distanziamento sociale… un mondo in cui non posso nemmeno più andare a teatro, che sì era faticoso, a volte noioso, a volte costoso, a volte deludente, ma almeno c’era una dimensione collettiva e contemplativa che nei prossimi mesi rischiamo di trovare solo in fila al supermercato.  

Overload. Foto Carolina Farina per Short Theatre

Un altro illuminante autore va in scena grazie a voi. È William Shakespeare in Shakespearology. Dato che lo conoscete da vicino, cosa ci consiglierebbe di fare e sentire colui che, come sostiene il critico Harold Bloom, ha “inventato” l’essere umano e quindi tutti noi? Con voi canta, per giunta: che canzone sceglierebbe oggi?

Niente, questo gioco ti piace un sacco. E lo capisco, eh. Cosa consiglierebbe Shakespeare, quello vero… beh, lui nella sua vita ha incrociato cinque o sei epidemie di peste (la prima mentre nasceva) e quando un’ordinanza della Regina chiudeva i teatri di Londra lui e i suoi andavano in tour in provincia, e se erano chiusi pure i teatri in provincia il buon William scriveva e vendeva sonetti o si occupava dei suoi tanti affari… Quindi forse sarebbe a suo agio nella “Netflix della cultura” proposta dal Ministro Franceschini e che a tanti di noi ha causato un comprensibile brivido lungo la schiena; o forse no, forse avrebbe spiazzato tutti con delle performance outdoor in location impervie. Non lo sappiamo, il che vuol dire che la sua imprevedibilità perdura nei secoli. Invece, il “nostro” Shakespeare direbbe: «Ok, diteci che teatro si può fare: uno spettatore alla volta? Tutti distanziati? Gli attori non si possono toccare? Solo spazi aperti anche in inverno? Tamponi, test sierologici e misurazione della temperatura per gli attori a ogni replica? Ok. Diteci che teatro si può fare e faremo quello, alla nostra maniera, scrivendo giorno e notte e stanando il pubblico dalle quarantene». E dicendo queste cose il “nostro” Shakespeare comincerebbe a suonare un pezzo che pompi un po’ di adrenalina, qualcosa come The Passenger di Iggy Pop o Where Is My Mind? dei Pixies, ma la playlist sarebbe lunga e varia e da scegliere un po’ a turno, ché il viaggio è lungo…

Shakespearology. Foto Francesco Niccolai

Intanto, a viaggiare è l’ironia, che pare correre irrefrenabile da Facebook a Instagram, da Whatsapp a TikTok. Una risata ci seppellirà? Che poi alla fine, pensando al vostro Homo ridens, cosa c’è da ridere adesso?

Sul riso e il suo portato paradossale (reazionario e/o rivoluzionario) si potrebbe discutere per ore. Limitiamoci a questo: non c’è niente da ridere, per questo l’essere umano è geniale, perché ride lo stesso e quando è intelligente lo fa proprio per sottolineare che non c’è niente da ridere, lo fa per digrignare i denti, lo fa per dire all’universo che sa di essere una creatura risibile, ma questo non lo fermerà; lo fa per scelta, insomma. Su internet c’è “un po’ di tutto”, ma i social in particolare sono media che chiamano spesso (sebbene non sempre) un riso morto, un riso riflesso, un riso consolatorio e quella risata sì che ci seppellirà. Per noi il motto deve rimanere quello originale, una risata vi seppellirà: c’è sempre un conflitto, una dialettica, il pensiero che ride ha sempre un bersaglio.

Per quanto abbiamo detto fino a qui, se il Coronavirus fosse un “personaggio” di un ipotetico spettacolo dei Sotterraneo, come lo rappresenteresti?

La verità è che non vorremmo fare un instant-show sul Coronavirus, ma visto che abbiamo detto che stiamo al gioco… se il Coronavirus fosse un “personaggio” saremmo noi stessi, contagiati. Un esercizio di empatia verso chi ha portato il virus sotto la propria pelle. L’impossibilità di toccarci fra di noi e di avvicinarci al pubblico diventerebbe la drammaturgia stessa del pezzo. Non ci sarebbe neanche bisogno di fare granché, forse. Solo stare in ascolto. Ogni tanto qualcuno va a un microfono per ragguagliarci su come si sente. Ci confrontiamo sui sintomi, del tutto simulati, ma basati su uno studio dettagliato di referti medici. Chiediamo se ci sono domande dal pubblico, ma sono tutti troppo lontani e non li sentiamo. Allora, guardiamo una serie tv tutti insieme o facciamo un’ora di allenamento a corpo libero, anche se qualcuno non ce la fa fisicamente… Mi sa che è una durational performance, formato 12-24 ore, il pubblico può entrare e uscire quando vuole. Durante i tempi morti entra in scena del personale sanitario per sanificare i locali. Li osserviamo. Ci spostiamo per non intralciare. Poi mettiamo un’altra serie tv, ma nessuno la segue davvero. Quando finisce la prima puntata uno di noi è morto. E allora lo cremiamo. E poi aspettiamo di essere guariti per andare a spargere le ceneri dove lui/lei avrebbe sempre voluto. Il problema è che non ce l’ha mai detto. Allora cominciamo a scrivere precise indicazioni al riguardo per ciascuno di noi. Ci vorrà un po’… qui forse il pubblico può uscire, alla spicciolata, mantenendo le distanze.

Homo Ridens. Foto Franco Rabino