GIAMBATTISTA MARCHETTO | «Il teatro rinascerà, come è sempre accaduto, ma qualcosa cambierà davvero. E non per forza in negativo». Fernando Marchiori, critico teatrale e docente all’Università di Padova, nonché direttore dei festival Scene di paglia nel Padovano e Valli del Natisone in Friuli, invita a immaginare una nuova necessità nell’evoluzione delle arti sceniche e del teatro in particolare. Ad esempio riscoprendone la natura di esperienza politica, «un po’ più luogo di riflessione, di critica, di costruzione di nuovi immaginari che ridisegnino il nostro stare al mondo».
Citando Artaud, lo scrittore veneziano rimarca che l’epidemia, come e più del teatro, spinge al limite di una rappresentazione che «ribadisce il legame fra ciò che è e ciò che non è, fra la virtualità del possibile e ciò che esiste nella natura materializzata». E allora risulta chiaro che il teatro «sarebbe necessario subito, adesso: nel pieno della pandemia».

Fernando, come stai trascorrendo il tempo in questo periodo di chiusura/reclusione?

Molto lavoro per le lezioni “a distanza”, come abbiamo imparato a dire. Molta musica, molti sogni – l’infanzia che riemerge: ho sentito che è un’esperienza diffusa –, e qualche buona lettura per riflettere su quanto ci sta accadendo: Günther Anders, Ernesto De Martino, Susan Sontag…

Molti hanno il tempo che desideravano e non hanno mai potuto avere, ma desiderano tornare alla frenesia per rimpiangere un tempo vuoto…

Trovarsi a tu per tu con se stessi può far paura. Gianfranco Berardi (artista non vedente, premio Ubu l’anno scorso come miglior attore italiano) mi raccontava l’altro giorno la proficua serenità della sua quarantena: tre ore al giorno di meditazione e un grande progetto che sta prendendo forma nella sua testa. Ma chi non è abituato a guardarsi dentro può ritrarsi inorridito dalla vertigine. E d’altra parte, quanta retorica sulla natura ritrovata e quanta saggezza d’accatto nei discorsi della quarantena…

Foto Giorgio Meneghetti

Quali processi mentali sono protagonisti in questo tempo? Esiste una condivisione sociale nella riflessione sullo straniamento? O emerge solo l’individuo?

Sembra che si ripropongano, sia pure con valori del tutto diversi, i due terrori antinomici che per De Martino governavano la crisi dell’Occidente nel secondo dopoguerra: quello di “perdere il mondo” e quello di “essere perduti nel mondo”. Il senso di perdita della vita vissuta, della partecipazione, della mondanità ha pervaso questi mesi di reclusione forzata, ma adesso che si può ricominciare gradualmente a uscire c’è anche, tra gli altri, un sentimento di inadeguatezza, quasi una resistenza (che è il contrario di quella resilienza ormai entrata nel prontuario della crisi) alle tentazioni e ai pericoli del mondo. E non perché ci sia speranza o fede in un altro mondo, cioè in un progetto politico o in un orizzonte spirituale, ma perché smart working e home banking, le videochiamate e la pizza consegnata a domicilio ci hanno resi miseramente indipendenti dalla comunità, potenziali hikikomori perfettamente funzionali a un sistema neoconsumistico a tracciabilità totale. Almeno per quella parte della popolazione che può permetterselo. Perché anche in piena quarantena una buona metà delle fabbriche era in produzione e sui campi i braccianti irregolari hanno continuato a spezzarsi la schiena.

Una società in coprifuoco è ancora sociale? Quale peso ha avuto e sta avendo sulla cultura e sulle comunità?

La realtà è che le diseguaglianze e le profonde ingiustizie delle nostre società si sono esasperate con la pandemia. Potrebbero scoppiare con la crisi economica che ne seguirà. E la gestione dell’emergenza è anche un grande esperimento di controllo sociale che, tra l’altro, rimodula i territori e persuade ad accettare una riduzione delle libertà civili. Giorgio Agamben riflette da molti anni sullo stato di eccezione che rischia di diventare paradigma normale di governo.
Da più parti si è stigmatizzato il ricorso alla metafora della guerra per parlare della pandemia. Il lessico bellico serve a compattare la popolazione contro un presunto nemico esterno, subdolo e invisibile, con la duplice conseguenza di distogliere l’attenzione dalle altre criticità interne alla società e di nascondere la dimensione ecologica della crisi. La pandemia è stata causata, spiegano gli scienziati, da uno di quei salti di specie (spillover), che diventeranno sempre più frequenti in futuro, innescati dalla devastazione e dallo sfruttamento del pianeta da parte dell’uomo. Il nemico siamo noi, incapaci di armonia con la natura, cioè con noi stessi. Incapaci di ascoltare il respiro del mondo, di essere, come scriveva Ungaretti «una docile fibra dell’universo».

Molto del tuo/nostro mondo di relazioni è basato sulla condivisione di codici interpretativi: dall’economia alla gastronomia, dalla religione alla cultura. Questo tempo sospeso ha cambiato i codici? Li cambierà?

Li ha già cambiati. Stanno cambiando prima di tutto i codici sensoriali, i paesaggi percettivi, e dunque anche la percezione di sé e la cognizione del mondo. Il Covid-19 altera il gusto e l’olfatto, li annulla, non si sa ancora se temporaneamente o irreversibilmente. Il contatto è precluso anche a chi non è contagiato: pratichiamo un distanziamento che chiamiamo “sociale”, ma che è prima di tutto fisico ed è il contrario della socialità, specialmente nella cultura mediterranea. Se poi si pensa che a partire dal Settecento il gusto definisce il giudizio in campo estetico, si comprende la profondità della trasformazione antropologica in atto. Gli occhi sopra la mascherina restano invece liberi di muoversi e anzi, come è stato prontamente analizzato, si adoperano in una nuova e più marcata ricerca di espressività. Apparentemente riportando al primato della vista sugli altri sensi ritenuti per antica tradizione più primitivi in quanto più lontani, come riteneva Kant, dall’intuizione pura. In realtà spesso svelano, spalancandosi maldestramente sull’altrui distrazione telematica (anche con maschera e guanti obbligatori stiamo compulsivamente attaccati allo smartphone), la nostra incapacità di comunicare. Resta l’udito, il primo senso a svilupparsi nel neonato, il più complesso, quello che è stato definito il senso della riconoscenza. E non sarebbe male se si sviluppasse un po’ nelle nostre future relazioni.

La scena in Italia (e nel mondo) è congelata. Cosa comporta questo? Come emerge in tempo di crisi il valore delle arti performative?

Spettacolo dal vivo significa incontro, presenza, scambio, percezione ravvicinata – fino al sudore del performer, alla saliva dell’attore, al brivido del pubblico… – significa condivisione, contatto, esperienza comune. Tutto questo, ci dicono, non sarà più possibile. Che teatro sarà? Va di moda citare Artaud, ma oggi non è il teatro che, come la peste, «coglie immagini assopite, un disordine latente, e spinge d’improvviso fino a gesti estremi», al contrario è l’epidemia che, come e più del teatro, spinge al limite di una rappresentazione la quale, usando ancora le parole di Artaud, «ribadisce il legame fra ciò che è e ciò che non è, fra la virtualità del possibile e ciò che esiste nella natura materializzata»: giriamo in maschera, le nostre città sono diventate scenografie metafisiche, affolliamo le piattaforme virtuali come teatri dell’assurdo, pronunciamo le nostre battute nella neolingua rivoltante: meet, zoom, webinar, streaming…

La paura sulla scena: il teatro e le arti si sentono oggi le prime vittime della crisi. Possono essere strumenti di ripartenza?

Certo il teatro rinascerà, come è sempre accaduto, ma qualcosa cambierà davvero. E non per forza in negativo. Si potrebbe per esempio riscoprire la sua necessità come esperienza politica, come discorso pubblico, un po’ meno intrattenimento e un po’ più luogo di riflessione, di critica, di costruzione di nuovi immaginari che ridisegnino il nostro stare al mondo.
In ogni caso, una pausa di riflessione, per quanto forzata, farà bene agli artisti più attrezzati, economicamente e culturalmente. Ma la risacca di questa emergenza, la crisi che ne nascerà, spazzerà via molte realtà della scena italiana. Parlo evidentemente di quelle realtà – singoli artisti, gruppi di ricerca, festival – più fragili perché meno tutelati dalle istituzioni. I baracconi stabili, quelli sopravviveranno.

Foto Giorgio Meneghetti

Ricostruire una comunità. È questo uno dei percorsi per la scena del futuro?

Il teatro sarebbe necessario subito, adesso: nel pieno della pandemia. E io mi aspetto (sogno) di vedere nascere da un momento all’altro una dimensione di teatralità situazionista e libertaria, nomade e reticolare, che scardini questa visione del mondo allontanata nella sua rappresentazione “da remoto”, che pratichi prossimità e reciprocità. Cioè che provi ancora, nonostante tutto, a fare comunità. Anche sfruttando le potenzialità della rete, la macchina multimediale, ma per rendere virtuoso il virtuale, per svelarne la “realtà” e strappare dalla caverna mediatica l’eremita di massa che ognuno di noi è diventato da ben prima della “rivoluzione” digitale (Anders ne parlava sessant’anni fa) per riportarlo nel mondo. Per riportarlo a se stesso.

@gbmachetto