LAURA BEVIONE e RENZO FRANCABANDERA | LB: Risvegliava in me un immediato istinto accudente eppure non aveva alcun bisogno di essere accudito e, forse, quello era un suo modo involontario per permettermi di non sentirmi piccola e superficiale al cospetto della disincantata profondità del suo sguardo sulle cose degli uomini.
Ho conosciuto in prima battuta l’Antonio Tarantino drammaturgo, assistendo a messinscene tratte dalle sue opere, memorabili come Quattro atti profani e Stranieri, meno riuscite come La pace, e nondimeno comunque stimolo a riflessioni tanto sulla condizione umana e, in particolare, sulla società occidentale, quanto sullo stato e sul senso del teatro.

RF: Tarantino, ad oggi, risulta una delle esperienze più stranianti e sconvolgenti dell’ultimo cinquantennio di rapporto fra scrittura e scena. Una scrittura diversissima ma che ho sempre trovato simile nella sua essenza profonda a quella di Testori, sacra e blasfema allo stesso tempo, capace di costruire verità dalla finzione; di riportare l’attore ad una condizione di nudità davanti allo spettatore che la ascolta.

LB: La pace debuttò nel 2007 al Festival delle Colline Torinesi nell’allestimento creato dalla compagnia dei Marcido Marcidorjs, il cui particolare linguaggio – e la prassi di comporre autonome riletture di testi preesistenti e qui impegnati con un copione da essi non “manipolato” – non si sposò con la secca pregnanza dei dialoghi articolati da Tarantino. Oggetto di quella crepitante e amara commedia era una situazione che oggi verrebbe definita di fantapolitica: Arafat e Sharon sono stati deposti dai propri popoli, insoddisfatti del loro operato, e condotti al porto di Tunisi. Da qui i due uomini politici partono per un viaggio rocambolesco attraverso la Tunisia, in barca, in treno e in corriera, finché un aeroplano li riporta casa, dove riescono a riavere quel potere che era stato loro sottratto. Durante il tortuoso percorso, i due incontrano tre donne – una strega, una puttana e una madre – portavoce delle rivendicazioni, dei bisogni e degli opportunismi dei popoli ebraico e palestinese; e poi portuali, mendicanti, bigliettai scontrosi e pure un voglioso Orso Tunisino. Tarantino scandiva la propria commedia in tredici “movimenti”, ossia inverosimili circostanze inventate come pretesto per ironici e coloriti dialoghi fra i due ex-uomini di stato. Ne risultava un quadro piuttosto desolante: compromessi, opportunismo, disprezzo per i propri governati, meschinità ed egoismi, tutti molto “umani” e responsabili dell’impossibilità di quella pace auspicata dal titolo.

La pace – Marcido Marcidorjs (2007)

RF: Tarantino ha mescolato la vicenda umana delle icone poetiche ed ideologiche del nostro passato prossimo, ad una normalità tragica, fatta di antistorica ordinarietà. Le sue figure perdevano ogni contorno aulico per trovarsi immerse in una miserabile condizione lessicale, prima ancora che fattuale. Lui le impoveriva di potere, le spodestava dalla loro condizione inarrivabile, per calarle in contesti di ordinaria nevrosi, di frastagliata normalità. Penso ai due leader mediorientali, ma mi viene in mente anche Gramsci, De Gasperi, e poi la vedova di quest’ultimo che incontra la Iotti (ci riferiamo ad alcuni dei testi raccolti in Gramsci a Turi e altri testiedito da Ubulibri nel 2009 e curato da Leonardo Mello). La sua scrittura contemplava davvero quella sardonica e dissacrante mescola di complotti, raggiri, inganni e ipocrisie così connaturati alla vicenda umana e che manterrà nella sua scrittura grottesca fino a Giuseppe Verdi a Napoli, di cui ho avuto il grandissimo piacere di curare insieme a Sandra de Falco, che lo ha anche portato in scena, la pubblicazione per Cue Press, illustrandone la copertina. Lo dico ricordando l’indicibile commozione di poter avvicinare il mio linguaggio, il mio pensiero d’arte, ad una figura così grande del nostro tempo. Così lucida, amata, e amante della vita nella sua declinazione più semplice e alla portata di tutti. Un ideale quasi latinoamericano di artista e scrittore, così prossimo al sentire di cui scrive, e portatore di un suo preciso sguardo sull’esistenza.

LB: Una disincanta e agra visione del mondo che, se in quello spettacolo di cui ricordavo sopra era declinata nella grottesca tonalità della commedia – un po’ alla Jarry – e investiva l’ampia dimensione della politica internazionale, in Stranieri, messo in scena nel 2008 dal Teatro delle Albe, si rintanava in una situazione intima e familiare ma non meno desolata e amaramente dolorosa. Gli stranieri del titolo non sono, come si potrebbe immediatamente pensare e come gli acidi  soliloqui del protagonista parrebbero suggerire, i migranti, coloro venuti dall’estero a “rubarci l’alloggio”, bensì quelli che dovrebbero essere i nostri più vicini, gli affetti più intimi e domestici… Ricordo la tensione e l’atmosfera ognora più febbrilmente irreale di quello spettacolo, quel finale inatteso e sconvolgente. Una conturbante sensazione di disagio che ancora oggi mi pervade ripensandoci.

Stranieri – Teatro delle Albe (2008)

RF: Ricordo anche io quell’allestimento visto al Crt a Milano, diretto da Marco Martinelli e interpretato da Luigi Dadina, Ermanna Montanari e Alessandro Renda, un lavoro emotivamente connotato dal claustrofobia del bunker in cui gli spettatori erano costretti a fruirlo e in cui tiranneggiavano le atmosfere sottolineate dal progetto luci di Vincent Longuemare, un mago nel racconto di angoscianti “interno notte”.

LB: E, d’altronde, Tarantino non si è mai preoccupato di essere consolatorio né di offrire facili conferme alle anime “giuste” ma, d’altro canto, non ha mai neppure ricercato la provocazione gratuita né raffigurato – prima che drammaturgo, Antonio fu pittore – personaggi e/o situazioni morbosamente scandalose.
La sua immaginazione, al contrario, poggiava su una quasi involontaria ed esasperata sincerità, che lo guidava a ricercare, da una parte, quegli esseri che la società costringeva ai propri margini, il più possibile celati e virtualmente cancellati; dall’altra, quelle attitudini, quei sentimenti, quei comportamenti, tanto pubblici quanti privati, che plasmano la nostra quotidianità.

RF: Anche i suoi ambienti pittorici erano conturbanti: la vicenda dell’osservatore veniva assorbita e chiamata, come poi è stato anche per le sue drammaturgie, a cercare un senso oltre l’icona, per tornare al discorso che si faceva prima. Chi era davvero quel personaggio reale, che sul palcoscenico diventava finto e trasfigurava la sua vicenda in un ambiente che ne faceva perdere i connotati?
Così, anche i suoi quadri erano paesaggi dell’indicibile, in cui fluttuavano presenze riconoscibili, ma che si trasfiguravano in sensazioni, in presagi emotivi. Le regie dei suoi testi, alla lettura così farseschi, si rivelavano imprese mai agevoli. Tanto che, forse per sentirsi meno spaesati, occorreva vederne più d’uno, per trovarci non voglio dire casa o rifugio, sensazione impossibile dentro una sua opera, pittorica o letteraria che fosse, ma almeno coordinate per provare ad orientarsi.

LB: Esemplare mi pare dunque la tetralogia composta da Stabat Mater – il testo con cui Tarantino vinse nel 1993 il Premio Riccione dando così inizio alla propria “carriera” teatrale -, Passione secondo Giovanni, Vespro della Beata Vergine e Lustrini, che Valter Malosti accorpò in un unico spettacolo, Quattro atti profani, coprodotto dai teatri stabili di Torino e Roma nel 2009.
Sullo sfondo della suggestiva scena unica ideata da Botto&Bruno, una sorta di Golgota metropolitano di lamiere e rifiuti, prendevano magicamente vita – un sortilegio crudelmente reale – creature che Tarantino seppe scontornare all’interno del desolato paesaggio della periferia torinese. Vite neglette e tuttavia ciascuna portatrice di un sogno, concreto e legittimo, per realizzare il quale forse è anche valsa la pena perdersi…

Quattro atti profani – Valter Malosti

Personaggi quasi testoriani ma privi di quel sottotesto conflittualmente religioso che attraversava le opere del milanese e a cui Tarantino, malgrado gli espliciti riferimenti all’universo cattolico,  era intrinsecamente estraneo.

RF: E sono contento che alla fine questa sensazione la confermi anche tu… che hai conosciuto non solo l’artista ma anche la persona.

LB: Questo di cui ho parlato finora era l’Antonio Tarantino drammaturgo ma, poi, nel 2011 ebbi l’occasione di conoscere anche l’uomo: un caro amico, il cantastorie canavesano Claudio Zanotto Contino, ricevette da Antonio un prezioso regalo, un testo inedito, L’asina deve partorire ma l’asinello non ne vuol sapere di nascere, che mise in scena in un luogo molto particolare e quanto mai adeguato, il Rifugio degli asinelli di Sala Biellese.

Claudio e Antonio vivevano nello stesso quartiere di Torino, San Salvario, e spesso si incontravano: il drammaturgo estrapolò da un suo romanzo un episodio e lo trasformò in pezzo teatrale che offrì al cantastorie, il quale lo mise in scena nell’estate del 2011, facendosene regista e dirigendo Silvia Ribero, Rita Bruno, Stefania Uva e Stefano Saccottelli.

Questo era il contenuto dell’atto unico: «L’asina zoppa, prostituta d’alto bordo, sta per partorire, in questo momento di “trapasso” è assistita prima dalla serva e poi dal dottore. Il parto è difficoltoso, il dottore ascoltando con un fonendo il ventre dell’asina sente una voce, è quella dell’asinello che non ha nessuna intenzione di venire al mondo. Nascerà? Non nascerà? ». Ed è significativo precisare che, se nel romanzo il nascituro “umano” sceglieva di non venire al mondo, nella versione teatrale Tarantino immaginò che l’asinino, alla fine, nascesse…

In quell’occasione, in qualità di amica e fiancheggiatrice di Claudio Zanotto, conobbi anche Antonio, che acconsentì di salire sulla mia Panda 900 per andare al bar di Sala Biellese e condivise impressioni e reazioni tanto alle prove e ai preparativi della messinscena quanto del dopo spettacolo: affettuosamente brusco, apparentemente distratto ma in verità concretamente presente e acuto nelle sue osservazioni.
Antonio Tarantino lasciò che io, e soprattutto Claudio e il suo compagno Guido, ci prendessimo cura di lui, mantenendo però sempre una salda indipendenza.
La stessa che gli faceva preferire trascorrere giornate e serate nel consueto bar di San Salvario anziché presenziare a conferenze stampa e prime teatrali. Antonio Tarantino riceveva molto inviti, ma andava a vedere solo ciò che gli interessava e, alla fine, accettava anche un passaggio a casa, prima nella Panda e poi nella 600 con cui mi muovo tuttora per Torino.

Qualche anno fa ci incontrammo anche fuori dalla nostra città, a San Miniato, entrambi ospiti del festival Contemporanei Scenari organizzato dalla casa editrice Titivillus. Mi si chiese di dargli un occhio: l’aspetto da vecchietto un po’ stralunato ingannava, ma Antonio non aveva bisogno di angeli custodi né tantomeno di badanti e, dopo poche ore, si muoveva con disinvoltura per San Miniato ed era il primo a presentarsi ai vari appuntamenti…
In questi ultimi anni, nondimeno, Antonio Tarantino si faceva vedere meno per Torino: la salute sempre più precaria, le difficoltà economiche – alleviate dalla concessione della Legge Bacchelli, per la quale in molti firmammo un appello -, forse una maggiore insofferenza per la sabauda affezione a rituali cortesi…
E poi una caduta, il ricovero in ospedale e poi in una casa di cura del torinese, il Covid che acuisce malesseri preesistenti. Antonio se n’è andato così, il 21 aprile scorso, e già ci manca la sua innata e invincibile sincerità.