ESTER FORMATO e GIORGIO FRANCHI | La fine della chiusura dei teatri arriva con la bella stagione, quindi la città offre altri luoghi deputati allo spettacolo dal vivo. Molti festival ripartono, con regole specifiche certo, ma ripartono e si dipanano da nord a sud, ospitando spettatori in spazi urbani e non, alcune volte dimenticati o relegati a un punto periferico delle città.

Ed è proprio in un angolo verde di questa grande area ai confini metropolitani che si riparte anche con il teatro. Si ha una sensazione strana; accade proprio dopo i mesi della pandemia che il teatro lo si rincorre verso punti periferici in cui altrimenti mai ne saresti condotto. Periferia che in questo caso si carica di tanti significati: impossibile non vedere, nel percorso di Olinda e dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, il processo di rinascita e continua metamorfosi che Milano vuole sentire di avere. Tuttavia, se il rischio della nuova mentalità meneghina è che diventi un mero prodotto da vetrina in mancanza di cambiamenti sostanziali, è bene ricordare che il Paolo Pini è l’esatto opposto di questo.

Alla chiusura dell’ospedale psichiatrico nel 1999 l’enorme complesso che lo ospitava, fondato quasi settant’anni prima quando Affori era le Colonne d’Ercole del capoluogo lombardo, si è trovato in mezzo a un quartiere ogni giorno più popolato, alla ricerca di una dignità di città-stato circondata dalla metropoli sul modello di Baggio e Lambrate. Oggi il Pini si trova a pochi minuti dalla stazione Affori FN; all’imbrunire questa porzione della periferia nord appare silenziosa e solitaria, un sottopassaggio ci conduce verso l’ex manicomio, di cui rimane un immenso spazio verde al quale si accede da via Ippocrate 45. La fatiscente facciata del 1924 resta imponente, come imponente è lo spazio a perdita d’occhio dei viali, delle distese che si dipanano all’interno del vecchio edificio.

All’inclusione del Pini nel tessuto cittadino corrisponde un bisogno di dare nuova vita a quel luogo dopo la rivoluzione copernicana della legge Basaglia. Nel ’94 nasce Olinda, che non a caso prende il nome da Le città invisibili di Italo Calvino, con il sogno di aprire alla vita le porte di un luogo che finora era stato di reclusione. Oggi Olinda ha realizzato in quel complesso servizi di accoglienza integrata, di catering, di ristoro. Ma soprattutto, il teatro La Cucina, che fino all’emergenza Covid-19 ha ospitato il festival Da vicino nessuno è normale. L’attività teatrale è una naturale prosecuzione dei laboratori organizzati da Olinda per gli ospiti dell’ex ospedale psichiatrico. “L’idea era quella di far collaborare ex ospiti dell’ospedale e attori professionisti”, racconta il drammaturgo e storico collaboratore Renato Gabrielli, “come un unico gruppo misto. Non c’era niente di assistenziale, solo tanta voglia di sperimentare.” Ma quest’anno, in virtù dell’emergenza, dobbiamo spostarci nel giardino del Pini.

Assistiamo così ad Abracadabra, terzo studio intorno a Mario Mieli, di e con Irene Serini, il 27 giugno. Mario Mieli, filosofo e intellettuale, malato psichico rivive proprio nei meandri di un luogo che ha contraddistinto la sua particolarissima biografia. È uno studio, quello condotto dalla Serini, in cui viene scandagliato un nucleo complicatissimo e spaventoso di una vita, quello in cui pensiero, pulsioni, intelligenza e malattia si avviluppano. Un’identità indefinita e articolata galoppa attraverso le parole dell’attrice; l’impulso della vita che Mieli esprimeva nella coesistenza in ciascuno di ambi i sessi, la violenza, la morte e la perversione…tutto esplode nella distruzione della sintassi, nel sovvertimento delle regole linguistiche che sono il primo passo della malattia mentale. La performance riecheggia in quell’immenso spazio che l’occhio non riesce a misurare. È tornata la possibilità di ascoltare, assistere, vedere delle storie dal vivo che abbiamo inseguito sino allo schiudersi di un luogo misterioso e affascinante. Di Mario Mieli, che presta il nome a un importante circolo di cultura omosessuale di Roma, se ne raccontano frammenti che non intessono una reale e concreta biografia, ma una serie di istantanee di un’interiorità inafferrabile, così malinconicamente vicina a quella dimensione fisica ai confini del mondo metropolitano, restituita da anni a nuova vita senza che se ne dimentichi la sua storia.

Irene Serini in Abracadabra (foto: Antonella Lodedo)

Procedendo con Fammi un’altra domanda di Gabrielli, in scena il 31 giugno e il 1° luglio, si percepisce subito una comprovata dedizione alla magia del fare tanto con poco; magia e non prestidigitazione, dato che di conigli dal cappello non ce ne sono: il tentativo di strafare, talvolta spia di una frettolosa conversione in extremis che si cerca di nascondere abbagliando il pubblico, non rosicchia neanche un centimetro di spazio a uno scavo dolce e brutale nella psiche umana. Lo spettacolo è un monologo in seconda persona, formula già collaudata da Gabrielli (si veda ad esempio Qualcosa trilla), in cui a parlare è il suo assistente virtuale (la folgorante Valentina Picello, in forma strepitosa). Le informazioni che l’avanzatissimo cervello elettronico carpisce con facilità, scavando tra le chiamate e le ricerche internet, non servono alla profilazione di una consumatrice, bensì ad aiutare una donna al centro di una vita che la lascia sempre più sola. L’idea della protagonista indiretta viene parzialmente accantonata dal Gabrielli regista: “Quando ho scritto il testo non avevo ancora un’idea chiara di messinscena. Scartata l’ipotesi del video, è arrivata l’idea di aggiungere un’attrice che rappresentasse la donna attraverso un percorso sonoro.” Nasce così la partitura di Camilla Barbarito, sorprendente nel creare quanto nell’interpretare, un collage di tutto ciò a cui viene esposta quotidianamente la donna: rumori metropolitani, motivi pop noti, chiacchiere di circostanza in bilico fra il comico e l’alienante. Nessun pensiero proprio: a quello pensa la macchina, protesi di un’umana che allontana il silenzio con qualsiasi riempitivo.

Una prova di Fammi un’altra domanda (foto: Luca Del Pia)

Se nel caso di Irene Serini è il soggetto dello spettacolo a intrecciarsi con la storia del Pini prima e dopo e in quello di Fammi un’altra domanda è l’autore a farlo, per AstorriTintinelli e il loro Il 45 giri di AstorriTintinelli (4 luglio) è il primo contatto con Olinda. La volontà di ripartire del gruppo del Pini ritorna con prepotenza, permettendo al Teatro della Contraddizione di scegliere uno spettacolo da ospitare in via Ippocrate, devolvendo l’intero incasso al teatro a rischio chiusura. “L’iniziativa è partita da Rosita Volani. Non avevo dubbi quando ho proposto AstorriTintinelli invece che un nostro spettacolo: il TDC è produzione, ma soprattutto una casa per gli artisti,” racconta il direttore artistico Marco Maria Linzi, nascosto nell’ultima fila ma smascherato dalle risate alle battute del duo. Iniziativa che si somma ai gesti di solidarietà di altri colleghi: “Il teatro LinguaggiCreativi devolverà l’incasso di Ma pure questo è amore in scena all’Estate Sforzesca il 30 luglio (scritto e diretto da Simona Migliori, con Valeria Perdonò e Gabriele Genovese), un gesto che ci colpisce ancora di più nella misura in cui viene da un teatro non certo grande e che si trova attualmente in difficoltà. In futuro dovrebbero esserci dei progetti con l’Elfo e il Teatro della Cooperativa, nell’ambito della raccolta fondi Restiamo in Contraddizione. Ora che la nostra comunità di appassionati ha dato quello che poteva, il sostegno dei teatri è utilissimo ad avvicinarci ai 70mila euro che servono per mettere a norma la sede di Via della Braida.”

Alberto Astorri e Paola Tintinelli in Follìar (foto: Gabriele Lopez)

Sullo spettacolo c’è veramente poco da dire: bastano le parole di Alberto Astorri e Paola Tintinelli. I due metaforici lati del disco (Immaginazione al potere, estratto del loro Il sogno dell’arrostito e Follìar, entrambi recensiti da Elena Scolari) sono la storia di due entità abbandonate dal mondo, spesso incapaci di comunicare tra loro, in quanto aggrappate a un passato che non c’è più e a un linguaggio che sembra essersi svuotato di ogni senso, bloccati nell’incapacità di fare un passo in avanti. Tuttavia l’universalità di AstorriTintinelli, effetto collaterale di una ricerca sul senso profondo delle cose che non contempla una caccia agli appigli con la quotidianità pubblico, fa sì che ognuno veda qualcosa di diverso sul palco, come davanti a un quadro astratto. Talvolta ci si sente violati, come se ci avessero spiati per anni per inserire a tradimento i nostri segreti nello spettacolo che stiamo vedendo. Il linguaggio assolutamente unico del duo è sostenuto dall’influenza, sempre originale, dei più importanti autori moderni: la compagnia cita Thomas Bernhard, ma si possono facilmente ravvisare tinte di Müller, Pinter, Artaud e Beckett nei loro lavori. La scarsezza di mezzi, la scenografia essenziale in cui la stessa Paola Tintinelli manovra luci e mixer audio, non impedisce ai compagni di scena di produrre un teatro di altissimo livello e fuori dalle righe, ormai da tantissimi anni. Alle parole di Gabrielli, Linzi aggiunge: “È senza dubbio possibile fare un grande teatro con poche risorse, ma non è accettabile che questo debba sempre partire da una necessità economica prima che artistica. La voglia di fare porta le compagnie ad anteporre la propria opera a sé stessi e a bruciarsi per non sparire.”

In questo, Olinda ha già dato una mano: “Abbiamo avuto la fortuna di poter provare a lungo e in sicurezza qui”, racconta Gabrielli. “La possibilità di effettuare residenze così ampie, anche a ridosso di un festival, permette di fare un percorso di vera ricerca e rende questo posto davvero unico a Milano.” E così Da vicino nessuno è normale, all’alba del tanto sperato ritorno del teatro post-lockdown, mette in mostra la sua esperienza ultraventennale nel rinnovarsi come filosofia e non come antidoto alla crisi. Aprire le porte ad artisti capaci di fare teatro di altissimo livello con nulla o quasi (citiamo anche la coppia Cuocolo/Bosetti, intervistata qui da Laura Bevione) dà la prova di quello che si dice da tempo: che sia per scelta o per necessità, le piccole compagnie italiane non hanno avuto bisogno della crisi per iniziare a sorprendere con pochi mezzi. Con la speranza che, un domani, gli artisti passino più ore sui palchi e meno a casa a trovare la quadra tra bilancio e disposizioni anti-covid.


ABRACADABRA – INCANTESIMI DI MARIO MIELI

di e con Irene Serini
luci e suono Caterina Simonelli
organizzazione e produzione Maurizio Guagnetti
con il sostegno della compagnia IF Prana

FAMMI UN’ALTRA DOMANDA – UNA RIBELLIONE IN 18 CHAT

testo e regia Renato Gabrielli
in scena Valentina PicelloCamilla Barbarito
musica Camilla Barbarito
spazio Luigi Mattiazzi

IL 45 GIRI DI AstorriTintinelli

di e con Alberto Astorri Paola Tintinelli