RENZO FRANCABANDERA e ELENA SCOLARI | RF: Lei sul palco, comunque… parliamone! Non le si toglie gli occhi di dosso, questo è certo! Un po’ Sade, un po’ Rettore, con le spalline anni ’80, magra ed elegante in un completo bianco giacca scollata e pantaloncini… È molto più di un eye catcher! Che dici, tu che mi pare di capire hai aderito alla religione dei duraniani?

ES: Ah sì, Francesca Pizzo è perfetta nella sua “ottantità”, soprattutto per le spalline squadrate e imbottite, simbolo della moda discutibile che imperò in quel decennio da bere e da ballare. Confesso che nell’antagonismo Duran Duran – Spandau Ballet io tifavo con decisione per i primi. Faccio un po’ di cronistoria spicciola sull’origine del nome dei gruppi, forse non più conosciuta: nel 1968 uscì un film di fantascienza a sfondo erotico, Barbarella, ambientato nel 40.000 d.C., per la regia di Roger Vadim e ispirato al fumetto di Jean-Claude Forest. La protagonista del film era una sexyssima Jane Fonda, incaricata di ritrovare lo scienziato pazzo professor Durand Durand, scomparso nel mistero. Spandau è invece un quartiere di Berlino, in cui si trovava un carcere omonimo. Ecco l’etimologia. Ed ecco già la ragione indiscutibile della supremazia dei Duran.

RF: Siamo a Santarcangelo (edizione 50 di uno dei festival più importanti per lo spettacolo dal vivo in Italia): sotto la vetta della torre antica, in cima alla rocca, in mezzo alle case, le sedie sono distanziate per un’edizione fuori Carnevale per mascherine. Il lampione è oscurato con due bustoni neri per il “rusco”, come lo chiamano qui. E via, si parte. Parliamo qui, fra i vari spettacoli proposti nel Festival della nuova produzione di Ateliersi, collettivo di produzione artistica che opera nell’ambito delle arti performative e teatrali. Lo spettacolo è La mappa del cuore di Lea Melandri, ispirato al libro pubblicato nel 1993 da Rubbettino La mappa del cuore. Lettere di adolescenti ad un giornale femminile. E questo per quanto riguarda il libro.
La trasposizione in scena di qualcosa che traesse origine da questo composito materiale è venuta in mente ad AtelierSi, gruppo di artisti con base a Bologna nell’omonimo atelier in Via San Vitale e composto da Fiorenza Menni (direzione artistica, attrice e autrice), Andrea Mochi Sismondi (direzione artistica, attore e autore), entrambi in scena insieme alla dama bianca. Con loro anche Giovanni Brunetto (direzione tecnica e arti sonore), Elisa Marchese (amministrazione e organizzazione), Tihana Maravic (progettualità e comunicazione), Diego Segatto (arti web e grafiche), e numerosi altri collaboratori artistici e consulenti coinvolti di volta in volta sui singoli progetti come in questo caso Vinx Scorza, vero e proprio sound sculptor dei loro ultimi lavori, figura e presenza live molto molto interessante in numerosi progetti di arte performativa in Emilia e non solo. Ha riscritto tutte le canzoni dei Duran cantate in scena, compresa la bellissima versione finale di Wild Boys (Ragazzi selvaggi). Che poi, diciamolo incidentalmente, tradotti in italiano questi testi erano veramente più che ridicoli. Ma avevano un sound fantastico. Tu leggevi Ragazza In o Cioè?

ES: Non posso più nascondere niente… Io leggevo Cioè, più frivola ancora.

RF: Me la ricordo! Aveva la copertina adesiva. Alle medie nel 1985 implorai un’amica di regalarmi uno sticker di Luìs Miguel dopo il festival… Abbiamo tutti qualcosa di cui vergognarci.

ES: Ma c’era anche Primavera, questa era la rivistina più “autorizzata” da scuola e oratori in quanto di matrice cattolica.
La cosa più divertente era sfogliare le riviste con le amiche celando dietro le risate gli imbarazzi intorno alle questioni che attanagliavano tutte noi, a quell’età (13-14 anni, mi pare).
Quanto ai testi delle canzoni erano un disastro, e forse anche musicalmente non proprio le opere più pregevoli del secolo scorso, sentite con orecchie adulte.
“Sorriso gelato alla ciliegia, suppongo sia molto carino” (Cherry ice cream smile I suppose it’s very nice) non è Leopardi ma il ritornello di Rio ha delle allitterazioni apprezzabili, dài:
And when she shines she really shows you all she can
Oh Rio, Rio dance across the Rio Grande
E poi resteranno per sempre le note della gioventù, l’inglese imparato (anche) su quei testi e la porta della cameretta chiusa per cantare. Ovviamente davanti al superposter appeso (a me, per essere controcorrente, piaceva l’efebico tastierista Nick Rhodes).
Perdipiù quei cantanti erano talmente fatui da non immaginare certo di essere la valvola di partenza per riflessioni alte e sociologiche che la femminista Melandri regalava ai suoi lettori e pen friends.

RF: Lea Melandri, scrittrice, saggista, insegnante, intellettuale, scriveva anche per Ragazza In. Attivista, donna di cultura e di politica teneva audacemente (ma giustamente, come dovrebbero fare gli intellettuali nel loro fare politica nella società) una rubrica delle lettere su un giornale per adolescenti e, fra poster e superposter, provava a delineare un dialogo fra lo psicologico e l’oracolare con i suoi lettori. Molti erano affezionati a questo suo rispondere-non rispondere, che diventa in certo modo quasi subito anche il centro dello spettacolo di Ateliersi. Infatti dopo alcune inquadrature video a mezzo telecamera mobile, come ormai capita di vedere frequentemente negli spettacoli teatrali, il discorso si sposta sulla storia di questa rivista, e dopo un po’ di ironia generale sugli anni ’80 si arriva al rapporto fra la scrittrice e i suoi lettori e corrispondenti. Parliamo di 8/9.000 lettere arrivate alla redazione ai tempi.

ES: Sugli anni ’80 si è detto molto, nonostante la loro sostanziale vacuità, ma facciamo alcune considerazioni organiche al fenomeno osservato dallo spettacolo: è vero che molti degli interrogativi posti nelle lettere sono quelli che universalmente attraversano l’adolescenza, a tutte le latitudini. (Anzi, a ben guardare l’uniformità è soprattutto dei paesi ricchi e in pace, dove non hai da preoccuparti di avere da mangiare o che ti cada una bomba in testa). È forse altresì vero che chi è cresciuto negli anni ’80 si è sentito lungamente in colpa per essere nato “in ritardo” e non aver potuto partecipare alle lotte dei ’70. Io ho sempre sentito una sensazione di minorità verso i contestatori precedenti perché non mi sono battuta come loro. Il fatto è che non avevo niente contro cui protestare! Anche grazie a chi aveva rivendicato diritti prima di noi, non avevamo lotte forti e utopiche da ingaggiare. Ma per sopperire a questa inferiorità abbiamo scimmiottato i movimenti studenteschi del ’68 con la ridicola Pantera che, in fin della fiera, era una scusa per dormire a scuola, pomiciare e farsi le canne. Credo che questa condizione abbia fornito elementi per una nuova forma di smarrimento in noi allora giovanissimi, non si trovava posto per i propri disagi, non c’erano più i “collettivi” dove confrontarsi e dove le ragazze si guardavano vicendevolmente la vagina allo specchio, per conseguire la consapevolezza di sé che passava anche dalla padronanza del proprio corpo e del proprio piacere.

RF: Il tuo è un elogio al ragionamento, e a me il cuore argomentativo dello spettacolo pare proprio questo: riflettere, come faceva la scrittrice nella sua rubrica delle lettere, partendo dal particolare per cercare l’universale. A mio avviso il succo è contenuto in una delle risposte date da Melandri stessa nella sua rubrica. Argomentava proprio con un paio dei suoi lettori che la accusavano di non rispondere direttamente al singolo problema, dicendo che in fondo la consolazione commiseratoria è quello che costringe le persone che si trovano in un contesto di difficoltà a non ragionare sulle dinamiche, sulle possibili evoluzioni, e non permette agli altri di sentire come proprio quel problema. Invece proprio il dire-non dire di Lea, il suo periodare lirico, spesso enigmatico, pur nella chiarezza dell’intenzione di fondo, lascia a molti la possibilità di leggere una propria sfumatura personale della vicenda.

ES: Vero. Infatti il suo tono evasivo e talvolta divinatorio allarga lo sguardo costringendo a uscire dalle proprie stanzucce e a stringere legami con gli altri. Gli altri che a quell’età sono scaturigine di ansie ma finiscono anche per essere la soluzione alle Inquietudini (titolo della rubrica tenuta da Lea Melandri).

RF: La creazione ha il pregio di un ritmo narrativo interessante, di un intreccio fra musica, atmosfera d’antan e riflessione semiotica su come coniugare semplice e complesso che in fondo è la missione stessa dello spettacolo, che riesce – sotto questo aspetto – solo in parte, a mio parere. La recitazione dentro e fuori i personaggi che Menni e Sismondi portano avanti certamente sta più comoda addosso a lei che a lui, meno “presentatore” o alterità dialogica della ragazzina degli anni ’80 chiamata a ricordare, tanto che si ricorre all’espediente letterario, non sappiamo se vero o finto, della madre di lui che pure leggeva i suggerimenti oracolari della Melandri.

ES: La struttura – semplice – dello spettacolo tende a diventare un po’ prevedibile, in quanto ripetuta: lettera, commento alla lettera, osservazione fintamente personale sul caso, canzone. Trattandosi di un uomo e una donna mi sarei aspettata che questo diventasse materia di confronto diretto, in scena, sui contenuti trattati. Mochi Sismondi è meno incisivo e meno compreso nel ruolo, forse perché il disegno del suo personaggio non è così preciso. Mi pare anche che, passato l’inizio, manchi un po’ di relazione con la dama duraniana, che rimane seduta sullo sfondo, sussurrando leggera Blue silver, A view to a kill (colonna sonora di 007), The reflex…

RF: E poi, sempre in tema di narrazione di quegli anni, nata da ricerche fra carte e faldoni (tema iconico che ritorna molto negli ultimi lavori di Ateliersi), spunta anche, finito lo spettacolo, la carrambata della ragazzina, ora donna, che aveva a suo tempo scritto le letterine con i problemi esistenziali affidati nella loro soluzione cosmica all’intervento salvifico di Simon Le Bon, e che viene chiamata sul palco a raccontarsi brevemente, a raccontare cosa resta di quell’adolescente, 35-40 anni dopo aver spedito quelle lettere con il Ciao scritto con la C grande e gli occhietti. Un espediente che forse come chiusa propone il modulo – caro alla compagnia – dello spettacolo che finisce in discussione e incontro, ma che qui, visto che poi non segue dibattito, rischia di lasciare un po’ un sapore di altro. Che pensi di questo?

ES: È un brusco tuffo nel presente che non aggiunge granché alla riflessione. L’operazione de La mappa è invece interessante, riapre una conversazione su anni che meritano di essere discussi ancora, capiti, analizzati. Come fa Adolfo Scotto Di Luzio nel saggio “Nel groviglio degli anni ’80” (ed. Einaudi).
C’era qualcosa che ci portiamo ancora dentro, sotto quella superificie glitterata.

RF: E comunque, per tua informazione, io avevo la cassetta originale di Arena. Mi ricordo l’emozione quando la andai a comprare. L’esterno con tutto il pieghevole con i testi ecc. La cassetta era tutta bianca. E la rimandavo indietro con la penna bic per non consumare le batterie del walkman. Da qualche parte penso di averla ancora.

ES: Madonna che tenerezza. (Madonna non mi piaceva tanto). Io compravo gli LP perché mi piaceva la copertina grande e perché era più facile risentire il brano che ti piaceva di più. Bei tempi!

 

LA MAPPA DEL CUORE DI LEA MELANDRI
di e con Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi e con Francesca Pizzo
musiche arrangiate ed elaborate da Vincenzo Scorza e Mauro Sommavilla
produzione Ateliersi con il sostegno di MiBACT, Regione Emilia-Romagna e Comune di Bologna
Parte delle lettere e delle risposte della rubrica “Inquietudini” sono raccolte nel libro “La mappa del cuore” pubblicato da Rubbettino Editore.