SUSANNA PIETROSANTI | Orizzonti Verticali, poetica e ossimorica denominazione per un breve Festival di Teatro al suo ottavo anno di vita (tre giorni performativi, volutamente frammentari, dal 27 al 29 agosto), si è appena concluso, nella cornice piuccheperfetta di San Gimignano, luogo teatrale ineffabile e plurima scena per le varie proposte artistiche.
Diretto da Tuccio Guicciardini e da Patrizia di Bari e curato dalla Compagnia Giardino Chiuso, il festival reagisce alla fermata imposta dal virus a tutto il mondo della cultura con un nuovo inizio, una rigenerazione che si radica nella scrittura, intesa come fonte del sapere, mezzo di trasmissione e di mistero: «il libro comincia con due pagine bianche, tutti i libri cominciano con due pagine bianche», scrive Sebastiano Vassalli, ideale punto di inizio per tutta l’operazione.

E di pagine bianche, arricciate, arrotolate, impalpabili, allusive, si compone il costume/corazza/onda della performer protagonista di uno degli eventi più significativi del festival, Bianchisentieri (ideato da Tuccio Guicciardini e Patrizia de Bari, quest’ultima anche coreografa).
Racchiusa nel suo costume incredibile, composto di pagine e pagine scritte, o bianche, che diventano vicendevolmente uno smisurato carapace, un’armatura opprimente, un’onda, un colpo di vento che scompagina parole e frasi, Camilla Diana si muove misteriosa e segreta, come un monstrum inaudito, vento fatto corpo, terra fatta moto, e si sposta ondulando, nella sua trasmissione di sapere, sogni, speranze, in una specie di magica scrittura/corpo, rendendo vivo il senso del termine latino versus, una scrittura bustrofedica ondulante, inarrestabile, nel doppio senso della mano che solca il foglio.

Scrittura memoria e scrittura profezia sono senza dubbio le due polarità tra le quali si tende Mondo Estremo. Il dottor Semmelwais, con Sergio Basile e il coordinamento scenico di Andrea di Bari. Un leggio, un’isola di luce nella piazza delle Erbe con le due torri custodi dello spazio: Sergio Basile dà voce alla storia di Ignàc Semmelweis, che sconfisse la febbre puerperale comprendendone la dipendenza dalla scarsa igiene e dalla contaminazione del virus dalle mani infette.  Da un lato un’operazione memoriale, la glorificazione di un eroe del coraggio, un Ulisse capace di tentare nuove strade, di capire che quanto non è mai stato fatto prima può essere intrapreso, anche se ‘abbiamo sempre fatto così’: dall’altro, naturalmente, un messaggio per la condizione in cui stiamo vivendo. Evidenti le rispondenze, l’obbligo di lavarsi le mani, l’ostilità razzista secondo la quale a trasmettere il virus saranno, semmai, “gli studenti stranieri”, e non tutti quelli che, entrati in contatto prima coi liquidi dei cadaveri sezionati, procedono a visite ginecologiche senza essersi adeguatamente igienizzati. La scrittura, a cui l’interprete dà voce, senza performarla troppo, ci tramanda tutto questo, ponte sospeso tra il nostro domani e tutti i nostri ieri.

E i corpi dei performer che interpretano Leonardo da Vinci: Anatomie spirituali della Compagnia Egribiancodanza, scrivono una storia mobile terribile e meravigliosa, evidenziando le zone del loro corpo, tracciando, qui e ora, sul palco i disegni anatomici del genio toscano: in una cornice sonora che evoca suoni naturali ed echi di melodie rinascimentali, si muovono come ricreando gli schizzi sulla pagina, talvolta in a solo di gusto quasi Bosch, demoniaci, crudeli, comici, talvolta in una serialità da organo vivente, da armonia di tendini e muscoli al lavoro insieme. E quando lo sfondo sonoro diventa la lettura delle celebri Favole leonardesche, i corpi dei danzatori scrivono la storia: diventano gobbe, ventri, curve, lo slancio delle zampe della elle, accenti e punteggiatura di una scrittura scenica poche volte così fisica e immediata.

Bisogna ri-creare, ri-scrivere, per ripartire. Questo il senso del titolo della performance di chiusura, Sto felicemente dimenticando tutto,  mise in espace di Tuccio Guicciardini, ancora in piazza delle Erbe ma non sotto la guardia delle due torri “orizzonti verticali”, bensì lungo la muraglia antica e viva che evoca nel miele corroso della pietra un lungo, invalicabile confine, una montaliana “muraglia”; non dobbiamo, non possiamo più guardare in alto, ma misurare il presente, ciò che abbiamo davanti, oppure alle spalle: passato, futuro. Aiutati solo da un video introduttivo che inquadra lo stesso luogo scenico prima in lontananza, poi nella vicinanza estrema del particolare ingigantito, nove interpreti di diverse generazioni e di diverse concezioni teatrali recitano stralci del loro teatro, lampi fragili di memoria, ponti friabili tra un passato che felicemente stiamo dimenticando e un futuro di auspicabile ri-creazione, curiosità, desiderio. Una carrellata di artisti diversi, fra i quali Giancarlo Cauteruccio con il suo multicolore, deforme, impressionante “mi fa fame”; Virginio Gazzolo, ultraottantenne esempio di carisma indimenticabile; Carla Tatò, con la sua recitazione unica, antimimetica, inconfondibile. Con tutti gli altri, un prisma di voci, un montaggio postmoderno di pagine e parole, forse senza connessione, mai senza senso.

In realtà, questa è stata la chiave di volta del festival. Un festival di isole labilmente collegate, di tentativi, di inizi, di innesti. Un festival fragile, ma non privo di vitalità, che si giocava tutto sul balzo verticale delle torri superstiti, delle pagine superstiti, testimonianza che il tentativo di superare il limite può essere distrutto, ma anche permanere e che, se c’è una regola eterna, è da sempre e per sempre quella dell’irregolare.