ILENA AMBROSIO | Nanami Nagura è una performer giapponese, vincitrice per due anni (2014 e 2018) dell’Air Guitar World Championships. L’immaginaria chitarra elettrica che quasi esplode tra le sue mani è in grado di mandare letteralmente in visibilio gli appassionati del genere.
Nanaminagura è il titolo che Antonio Ianniello ha scelto per la sua performance – invero anche un’installazione – che debutterà domani, 19 settembre, alla Biennale Teatro di Venezia.

«Il titolo Nanaminagura è la chiave di lettura della performance stessa – ci racconta Ianniello. La pratica dell’air guitar fa riflettere sulla capacità dell’immaginazione di creare comunità pur tramite una finzione. Non c’è necessita di un’abilità specifica ma solo dell’accordo di una collettività che riconosce un performer. La chitarra elettrica immaginaria – continua – è come se fosse il manifesto di questo lavoro; è uno strange tool, secondo l’interpretazione che il filosofo americano Alva Noë dà del prodotto d’arte, ossia uno strumento particolare che non ha un utilizzo specifico ma riorganizza il modo di accedere al mondo e a sé stessi. Ciascuno può suonare quella chitarra come gli pare, intrattenersi con quell’oggetto, riflettere su esso creando un ragionamento, uno spazio di pensiero e meditazione.
Questo è evocato dal titolo ma non ce n’è alcun riferimento durante la performance. Nanaminagura è una sorta di manifesto che resta in trasparenza a quel poco che accade in scena».

Abbiamo visto questo “poco”, che il performer Gianmaria Borzillo fa accadere in scena, durante le prove in Sala Assoli a Napoli – la Casa del Contemporaneo produce il progetto insieme a Tradizione e Turismo srl – e ne abbiamo parlato con Antonio Ianniello.

Più che descrivere nel dettaglio cosa avviene in scena con Nanaminagura, credo potremmo offrire un panorama del background di questo lavoro, dei presupposti dai quali è scaturito. In particolare vorrei ci parlassi dello studio sulla percezione che stai portando avanti con il tuo Dottorato di ricerca presso La Sapienza di Roma.

La mia ricerca ruota in modo particolare intorno al concetto di percezione enattiva, legato all’ambito della filosofia analitica anglosassone e che io cerco di analizzare servendomi anche della mia esperienze nell’arte performativa.
In estrema sintesi, la tesi fondamentale di questo tipo di approccio alla percezione umana è che essa si costruisce e non si subisce. Contrariamente a quanto sostiene la grande tradizione di pensiero che affonda le radici in Platone, noi non subiamo la visione, essa non è semplicemente un’affezione dei nostri organi di senso che trasmettono poi un segnale a sua volta codificato da un apparato centrale che poi costruisce la percezione.
Soprattutto, e questo mi interessa molto, la percezione non è legata a un’esperienza del tutto privata e solitaria. Nella concezione dominante legata alle neuroscienze la percezione fa capo a un centro di comando che è il cervello, il quale la elabora come in un laboratorio privato. A me invece piace molto pensare – e credo ce ne siano anche i fondamenti scientifici – alla percezione come qualcosa che ha una sua dimensione pubblica, che facciamo lì fuori nel mondo con gli altri, utilizzando supporti tecnici condivisi, strumenti concettuali condivisi; per cui ciò che vediamo è anche una responsabilità, è ciò che siamo chiamati a vedere e costruire collettivamente, pur se a partire dal nostro punto di vista personale. Questo aspetto risulta molto interessante e stimolante per chi poi è chiamato a costruire gli strange tools: nel momento in cui vado a mettere a punto uno strumento che riorganizza il mio accesso alla realtà, devo sentire la responsabilità di creare un oggetto che può essere attraversato e può modificare la percezione e il modo di accedere al mondo di chi lo attiva.

Dunque, in virtù di un’idea di percezione collettiva – collettiva perché soggetta a influenze e condizionamenti impliciti e inconsapevoli dati da una collettività – questo strumento può essere attivato in condivisione; che è poi ciò che avviene in scena. Come confluiscono, quindi, queste tesi all’interno di un dispositivo performativo?

In primo luogo diciamo che ‘dispositivo performativo’ di per sé incarna la tesi, in quanto è esso stesso uno strange tool. In secondo luogo, confluiscono nel tentativo di accogliere un attraversamento piuttosto che indirizzarlo. Questa teoria si concretizza nella misura in cui io, consapevole che la percezione è agita, non la indirizzo, non la strutturo in modo aprioristico. Se sviluppo uno strumento nella convinzione che l’occhio dello spettatore è passivo e la percezione privata, produco una specie di contenuto da riversare interamente nelle menti e negli occhi di chi partecipa al gioco. Il mio tentativo è, invece, quello di sottrarmi a questo meccanismo di emissione di messaggio e lasciare campo per un’azione che nel caso di Nanaminagura è un invito a un assemblaggio visivo e concettuale, a un tatto visivo per cui, come descriveva Merlau-Ponty, l’occhio va a “brucare” degli oggetti. In scena non ci sono indizi che attirano l’attenzione su un luogo deputato per l’accadimento di qualcosa, ma il protrarsi di azioni che permettono allo spettatore di distaccarsi da ciò che sta accadendo per poggiarsi su un oggetto che non è stato minimamente messo in luce.
In questa modalità entra la mia ricerca.

Pur invitando lo spettatore a una percezione attiva, senza imporre una lettura aprioristica, immagino che a monte, nel tuo laboratorio privato, un senso che tiene unito il tutto ci sia. In cosa lo individui, considerando anche il tema della censura che fa da leit motiv ai lavori presentati in Biennale?

Ovviamente quel senso c’è. Io, però, distinguerei tra produzione di significati e messa a lavoro di un senso. In questo caso ho provato, a parte nell’unica parte parlata del lavoro, a sottrarmi a una produzione di significati facendo in modo, però, che tutto lo strumento in gioco ruoti intorno a un senso.
Il grumo di concetti che ha mosso il mio immaginario è ben preciso nella mia mente, ma non so se sia sorto prima o dopo l’immagine scenica.
Di preciso so che l’inizio è stato il titolo e poi un oggetto in scena. Il titolo in relazione a ciò che ho immaginato in scena ha poi animato a cascata tutto il resto.
Ciò che mi ha ispirato è l’idea di una censura esistenziale/ontologica più che politica e sociologica. Una censura che ha a che fare con le forme di linguaggio che utilizziamo e dalla quale scaturisce un comune deficit dell’immaginazione. Così ho messo al centro il tentativo di indagare i limiti della nostra immaginazione, la nostra capacità di agire, la nostra illusione di poter essere completamente al comando delle nostre azoni; mi sono chiesto dove agiamo e dove, invece, siamo agiti, dal linguaggio, dai discorsi e dalle forme di vita che incarniamo.
Accanto a questo il grumo comprende la questione, che mi sembrata fondamentale, dell’impossibilità, nella forma di vita imperante, di cadere, perché (piccolo spoiler, nda) «tutto ciò che cade resta a terra». Nel nostro modello di vita l’unica necessità è il capitale, mettere a profitto la propria esistenza, per cui ciò che cade, che non è utile, che non può essere messo a profitto, resta a terra. Non c’è misericordia per ciò che non serve.

Questa contrapposizione quasi sadica tra la caduta – caduta come pericolo ma anche, a volte come necessità di riposo, di rannicchiarsi – e il dover stare in piedi per scamparla ed essere messi a profitto è espressa in modo eloquente dalla costruzione coreografica.
Così come si percepisce molto distintamente un corto circuito tra una simbologia ancestrale e uno slancio futuristico. Cosa lega questi due immaginari? Il retaggio di antichi miti e il nostro essere in una modernità che è comunque sempre proiettata al futuro?

Hai colto proprio la questione, perché uno dei miei desideri era di rappresentare la nascita di un mito. La costruzione della performance segue quella che Nick Land chiama iperstizione: un futuro che proietta nel presente i germi perché esso accada, un futuro che si autoavvera. Come nei racconti distopici che si spingono in un futuro immaginabile a cui poi piano piano il presente si accorda.
Così è la storia che ho voluto raccontare e che mi sembra verosimile, quella della nascita di Mr. Balut: un essere che perpetua per l’eternità la sua immagine pur consapevole che è un’immagine decapitata, monca della sua forma di vita; ci sono altre modalità, altre forme di vita che lui tenta di accudire, che cadono e che lui tenta di seppellire, eppure lui resta in questo ciclo infinito incastrandosi in un loop.
E la domanda che mi hai fatto trova risposta in questo: volevo creare un mito contemporaneo, per cui le connotazioni mitiche stridono con l’assenza di una tradizione.

Tutto questo, però, non è esplicito o, quanto meno, non si compone di una lettura imposta al pubblico. Scegliendo questa strada non senti il rischio che il senso resti bloccato nel tuo “laboratorio”?

Assolutamente sì. Vivere nell’idiosincrasia, nell’incomunicabilità: lo sento come rischio ma credo valga la pena correrlo anche per rispetto al pubblico, in onore di un pubblico che mi auguro produttore di senso. È un rischio altissimo quello della solitudine, ma mi piace giocarci.

Per concludere, ti senti di dare, più che delle indicazioni, un consiglio di approccio a questo lavoro?

È una bella domanda. Non sono bravo a dare consigli ma potrei invitare a non aspettarsi nulla, nel senso di non aspettarsi un capitale immaginativo, di significato, da mettere a frutto. Non c’è nulla da capitalizzare, non c’è una teoria illuminate, un’epifania, nessun climax da aspettarsi. C’è uno spazio di meditazione.
Se ripeti Nanaminagura crei uno spazio di meditazione. Non tutti abbiamo la pazienza o l’attitudine allo stare.
Sembra contraddittorio, all’inizio parlavo di un agire della percezione e ora parlo di stare, ma agire non vuol dire solo entrare nella realtà con il piccone; agire significa anche accogliere la realtà per quella che è, stare in essa, come in un campo da gioco per sperimentare movimenti insoliti, nuove attitudini, a seconda del terreno a disposizione. Ecco, il mio consiglio, guardando Nanaminagura, è quello di stare.


NANAMINAGURA

ideazione, regia, scenografia, costumi: Antonio Ianniello
suono James Ferraro
performer Gianmaria Borzillo
sculture in scena Plastikart Studio, Istvan Zimmermann & Giovanna Amoroso
luci Giulia Pastore
grafica Superness.info
Produzione Casa del Contemporaneo – Tradizione e Turismo

Biennale Teatro Venezia
19 settembre 2020
prima assoluta