ESTER FORMATO |   Sarà in scena al Piccolo Teatro di Milano dal 25 al 27 settembre, lo spettacolo Caravansaray Selinunte/San Siro, per il quale da Piazzale Segesta partiranno i bus per gli abitanti che sono stati materia primaria di un lavoro con una lunghissima gestazione. Avvenuto in uno dei quartieri più fragili di Milano, il progetto ha come asse portante il lavoro drammaturgico di cinque autori a cui danno voce in scena attori e rapper professionisti. Un’opera rap, fiaba nera di periferia in cui gli orli identitari dei personaggi sono in dissolvenza, stagliati nel quartiere dal quale Milano sembra un miraggio, una roba lontana rispetto alla quale rivendicare una propria identità. Non ne traspare un comune afflato, tuttavia sul palcoscenico si tenta di mettere accanto le sofferenze e le attese, le nostalgie e le speranze di tutti coloro che tra loro non si parlano, ma che abitano su uno stesso fazzoletto. Il risultato è un poetico e testoriano affresco di Milano che, respingendo il suo centro, brulica di anima e di vita.

Colpiti da ciò che può nascere da un contesto di una città così complessa, abbiamo ascoltato chi ha guidato e coordinato questo progetto così particolare, Benedetto Sicca, che ne cura la regia, e Fabrizio Sinisi che ne ha eseguito il coordinamento drammaturgico.

Caravansaray Selinunte/San Siro è, credo, la narrazione di un processo, una gestazione ricca di relazioni con un luogo ben preciso, più che uno spettacolo teatrale e basta. La prima domanda che vorrei farvi è perché proprio quel quartiere?

FS:Tutto è nato da OUTIS, il centro di drammaturgia che ha partorito questo progetto. Il quartiere di San Siro è un chiaro esempio di come sono le periferie delle grandi città e come sono mutate nel corso dei decenni. Questa zona è stata una delle prime a Milano a registrare una fortissima presenza di stranieri i quali però convivono con altre tipologie di abitanti; anziani autoctoni ad esempio, oppure immigrati del sud e le relative nuove generazioni, molto spesso in forte disarmonia fra di loro. In passato San Siro era una roccaforte comunista, ma tale identità storica che lo rendeva quartiere fortemente operaio, è andata ormai perduta, a vantaggio di una situazione altamente multietnica ricca di  contraddizioni. Un luogo quindi fertile per la pratica teatrale che ha in seno la capacità di mettere in connessione e costruire, quindi, relazioni.

BS: Quella zona di San Siro riunisce persone molto fragili; l’assegnazione delle case popolari, ad esempio, avviene secondo un sistema di punteggio che esclude qualunque fascia intermedia e favorisce svariate categorie a forte rischio di emarginazione. Si è venuto a creare così un quadrilatero entro il quale tante fragilità entrano spesso in conflitto fra loro. Ed ecco che entra in campo la sfida della drammaturgia che è quella di favorire la comunicazione fra abitanti.

La pratica dell’arte partecipata può essere una nuova frontiera identitaria e di cittadinanza nei nostri contesti urbani?

BS: Credo di sì, a patto di non chiudere questo concetto in un format che parta dal basso, inteso come unica caratteristica possibile di questo processo. Ci possono essere molte forme diverse: ascoltare un territorio, ma anche focalizzarsi su a chi una determinata opera è indirizzata può essere una forma di arte partecipata.

FS: Prima di tutto, questo è un tipo di lavoro fatto poco perché richiede un tempo di gestazione lungo e difficile. Ma  ha i suoi benefici perché crea un rapporto concreto con la realtà che spesso i teatranti  non hanno. Quella del teatro è una comunità chiusa entro la propria autoreferenzialità e per la maggior parte dei casi gli artisti prendono le loro idee dal teatro stesso, creando un circuito chiuso. Un’esperienza del genere invece, permette ai teatranti di aprirsi all’esterno che spesso non guardano. E paradossalmente si verifica la stessa cosa per chi vive all’interno di un quartiere senza avere alcuna comunicazione con le altre parti della città. È un processo di apertura reciproca che pone, ovviamente, un problema di natura politica e cioè quello della fruizione culturale che quasi sempre è appannaggio del centro e non delle periferie.

Come si è svolta concretamente la residenza in San Siro? Da quali obiettivi siete  partiti e nel corso di quest’esperienza sono mutati?

FS: Dopo che Outis ha individuato le reti presenti sul territorio e con le quali ci hanno messo in contatto, abbiamo cominciato a conoscere, a parlare con tutti per lungo tempo partecipando agli eventi più svariati; feste di quartiere, riunioni, compleanni…
Poi, ogni drammaturgo ha trovato una strada di approfondimento a seconda delle proprie inclinazioni. Ad esempio la scuola di Alfabeti rivolta alle donne arabe ha incontrato la sensibilità delle drammaturghe Anna Serlenga e Bruna Bonanno, io e Angela Demattè ci siamo avvicinati ai pensionati e agli uomini che frequentano scuola di italiano la sera; Diamante che è un rapper, ha ovviamente frequentato i giovani che sono più interessati al suo linguaggio. Ognuno ha seguito quindi la propria strada all’interno di un’esperienza di convivenza con gli abitanti del quartiere con i quali si sono instaurati rapporti umani e di amicizia.

BS: Per quello riguarda la parte registica, colgo la domanda dei cambiamenti di obiettivi. Nel momento in cui è subentrato il periodo delle prove che sono state fatte all’interno di questo cortile del quartiere, ho sperimentato una continua osmosi con gli abitanti che ha continuamente spostato il mio punto di vista di regista. Poi è arrivata la pandemia, fortunatamente gran parte del lavoro era già avvenuto ma, nonostante tutto, è stato un ulteriore fattore che ha ripetutamente modificato il mio lavoro, arrivando a un punto finale senza dubbio differente da come potevo immaginato in partenza.

Cosa significa per un abitante veder in qualche modo prendere corpo la propria storia attraverso la scena?

BS: Gli abitanti non sono stati messi in scena così come sono, ma trasformati in una forma poetica e fiabesca per evitare qualunque idea documentaristica. La regia ha portato a un ulteriore grado di deformazione, eliminando ogni forma di identificazione o di appropriazione culturale. Ne è risultato un gioco teatrale e di specchi estranianti rispetto alla realtà.

FS: Ma nonostante sia un gioco di specchi, si è fatto in modo che nessuno troverà in scena sé stesso, ma tracce un po’ ovunque che sono comunitarie e non individuali. La messa in scena di Benedetto è ricca di ironia e di tenerezza che permeano la nostra scrittura.

Vi siete avvalsi della collaborazione di vari enti (Politecnico, Politiche Sociali del Comune di Milano, Associazione Cadorna e Alfabeti) ramificando dunque una rete solida ed efficace. Può essere quest’esperienza globalmente esportabile ad altri territori, oppure il progettare un processo così complesso non è replicabile nelle stesse modalità in un contesto differente?

BS: Credo che siano esperienze non esportabili tout court, ma è chiaro che gli strumenti e il know-how che se ne acquisiscono possono sicuramente servire per nuove situazioni di  questo tipo.

FS: L’esperienza in sé non è replicabile perché ogni comunità è specifica, ma valgono per ogni contesto la possibilità e il dovere di entrare in un quartiere, privandosi di uno sguardo calato dall’alto che genererebbe un approccio banale e superfluo. È indispensabile provare a inserirsi in un contesto, comprendendo con profondità le sue caratteristiche e componenti, facendosi guidare e accompagnare da chi il luogo lo conosce e agisce su di esso attivamente.

Di quali prospettive e di quali idee Caravansaray Selinunte/ San Siro arricchisce una identità artistica consolidata come la vostra?

B.S. Prima di tutto è un’esperienza umana, è per questo un arricchimento inevitabile. Non è comune avere a che fare con processi di tale portata.

F.S. Io sono un autore molto letterario, per cui mi sono sempre documentato in maniera culturale e libresca prima di scrivere. Invece, in questo caso ho imparato quanto può venire da un’osservazione diretta viva e quindi imprevedibile. Seppure questo ti metta in difficoltà, un lavoro del genere ti porta a elaborare strumenti che agiscono sugli schemi mentali di partenza, mutandoli e conducendoti anche a nuove strade espressive in cui prima non ti eri cimentato. Come in questo caso: il mio testo è una favola contemporanea che non avevo mai scritto, ma che istintivamente è riuscita a venir fuori.


CARAVANSARAY SELINUNTE SAN SIRO
Un progetto di drammaturgia partecipata per la rigenerazione di spazi urbani periferici.

testi di Bruna Bonanno, Angela Demattè, Anna Serlenga, Fabrizio Sinisi, Daniele Vitrone in arte Diamante
coordinamento drammaturgico Fabrizio Sinisi
regia Benedetto Sicca
in scena Francesco Aricò, Emanuele D’Errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca e con i rapper Diamante, Flo’w, Scock e Anima VDP
aiuto regia Marialuisa Bosso
scene Luigi Ferrigno e Rosita Vallefuoco
costumi Giuseppe Avallone e Mariacarmen Falanga
light designer Giuliano Almerighi
sarta di scena Maria Laracca
musiche di Damekuta e Diamante
testi canzoni rap di Diamante, Flo’w, Scock e Anima VDP
con il contributo di Fondazione di Comunità e Creative Living Lab | Direzione Generale Creatività Contemporanea Mibact
collaborazione alla produzione con il Teatro Sannazaro di Napoli

Dal 25 al 27 settembre

venerdì 25 ore 20.30 | sabato 26 ore 19.30 | domenica 27 ore 16.00