LAURA BEVIONE | È partita il 28 novembre e si concluderà domenica 6 dicembre la VI edizione della rassegna internazionale di danza Resistere e Creare, curata dalla Fondazione Teatro della Tosse insieme a Balletto Civile, con la direzione artistica di Michela Lucenti e Marina Petrillo. La chiusura dei teatri dovuta alla recrudescenza della pandemia ha costretto a ridisegnare il cartellone, rinunciando certo ad alcuni appuntamenti che erano programmati in presenza di pubblico ma non abbandonando motivi e significato dell’edizione di quest’anno, ispirata a una poesia di Walt Whitman,  il cui primo verso recita: «Io canto il corpo elettrico».

Ecco, dunque, la formulazione di una rassegna, totalmente in streaming, stimolante e composita: progetti, residenze, percorsi, studi,  eventi conclusivi, esperimenti, incontri e, anche, due progetti finalisti al Premio Rete Critica 2020, Il Museo Antropologico del Danzatore M.A.D. di Balletto Civile e appunto CORPI ELETTRICI, del collettivo M.I.N.E.

Michela Lucenti e Marina Petrillo ci hanno raccontato meglio presupposti, obiettivi e sentimenti che le hanno guidate nel pensare e nel ri-costruire la rassegna.

Malgrado la chiusura dei teatri, la VI edizione di Resistere e Creare ci sarà. In che modo avete riformulato la rassegna alla luce dell’emergenza pandemica?

ML: In questa VI edizione, nonostante l’impossibilita di aprire al pubblico, abbiamo pensato di dover dare un segno senza rimandare ancora.
La rassegna sarà interamente in streaming, concepita come un continuo tavolo di visione partecipata e poi di discussione e confronto.
Come ho detto alla conferenza stampa di presentazione, io, che sono totalmente un animale da palcoscenico e che amo il lavoro in scena, immagino questa rassegna come una videochiamata che si fa alle persone che amiamo e che sono distanti. Una videochiamata non può essere sostitutiva della presenza della persona amata ma può affievolire una distanza, ci fa raccontare ed essere curiosi, può arrivare a farci commuovere vedere i volti amati anche solo in video. Ed è di grande conforto.
Sicuramente per me rimane una situazione temporanea. Tutti, quando amiamo qualcuno, vogliamo tornare a vederlo: se la lontananza ci rende più liberi e ci fa stare meglio ben presto capiremo che non si trattava di vero amore.

MP: Abbiamo iniziato a lavorare alla programmazione di questa edizione di Resistere e Creare con la consapevolezza della possibilità di un secondo lockdown e questa consapevolezza ci ha “sospese” a lungo, rallentandoci nei processi decisionali, ma nello stesso tempo ci ha spinte a cercare un’integrazione tra quello che era o sarebbe stato possibile e quale segno avremmo voluto che Corpi Elettrici lasciasse nel racconto della sospensione e dell’incertezza di questi lunghi mesi di distanziamento sociale.
Abbiamo quindi dall’inizio mescolato eventi in presenza e progetti digitali e da subito, grazie anche alle Residenze Digitali della Danza e a un’idea di Elisa Sirianni, abbiamo ragionato sulla necessità di confrontare la nostra esperienza con le esperienze di altri e di metterci attorno a un tavolo per discuterle.

Le Stanze che si aprono in questi giorni di rassegna su Zoom e su Facebook sono stanze in cui poter osservare corpi reali che danzano o in cui poter entrare nel percorso creativo che fa nascere una nuova opera, che sia essa digitale, virtuale o reale; in ogni caso spazi/stanze in cui condividere parte della propria esperienza mettendosi in gioco con strumenti di cui riconosciamo la potenza e la possibilità, conservando però la naturale diffidenza che si prova nei momenti della storia in cui le grandi invenzioni intervengono nella vita quotidiana, innescando cambiamenti di cui non riusciamo a vedere i confini con precisione.
Quello di cui siamo certe è che dall’arte e dagli artisti può arrivare un’intenzione, un desiderio, una narrazione che diano significato e indirizzino il cambiamento, ed è questo il nostro suggerimento di lavoro per i tempi a venire.

Foto Davide Colagiacomo

Avete scelto quale titolo di questa edizione quello di una poesia di Walt Whitman: in che senso, oggi, ci stiamo trasformando in “corpi elettrici”?

ML: Per me il significato più profondo di questo termine sta nell’idea di corpi che fremono dal desiderio in questa immobilità forzata, corpi che sono carichi di energia vitale, piena, gioiosa.
Per chi lavora dal vivo l’atto creativo è niente senza condivisione: dobbiamo trasformare la nostra carica di volontà in una meditazione profonda e rigeneratrice, caricarci di energia vitale pulita, pronta a esplodere.

MP: Ricostruendo la genesi di questo titolo la suggestione è arrivata dalla lettura di un saggio di Jennifer Guerra, Il corpo elettrico, il desiderio nel femminismo che verrà, che inevitabilmente ci ha riportato a Whitman, a cui Guerra si ispira, e alla sua visione dell’essere umano come inizio e limite di ogni nostra azione, un corpo attraversato dall’elettricità, elettrico, che conserva però un segreto non quantificabile, non misurabile e, per quanto ne sappiamo a oggi, non replicabile, in ciò che alcuni definiscono anima, altri intenzione.

Come Bradbury, che si ispirò a Whitman per dare il titolo a un suo libro di racconti, anche noi abbiamo trovato in Io canto il corpo elettrico lo spunto per aprire la discussione attorno alle nuove tecnologie e alle visioni o agli incubi che la società tecnologica crea. E, come sempre nei momenti in cui più forze si concentrano su tematiche comuni, abbiamo scoperto che Corpi Elettrici era anche il titolo del progetto firmato da Collettivo M_I_N_E e Gender Bender e li abbiamo immediatamente coinvolti.

Ma, per rispondere alla domanda iniziale: siamo corpi elettrici, lo dice la fisiologia. Oggi la scienza e la tecnologia lavorano sulla rappresentazione elettronica dei nostri corpi, non solo in termini di forma e aspetto ma nella profondità dello studio dei processi che attraversano il corpo e a cui il cervello partecipa rielaborando e indirizzando.

Questi corpi “elettronici” che riproducono i corpi “elettrici” saranno i corpi di un futuro digitale, di cui la fantascienza è ricca di spunti,  in cui le pandemie renderanno impossibile per sempre il contatto? O saranno gli abiti (i device, i media, ecc)  che potremo indossare per entrare in relazione profonda con chi è lontano, lontanissimo da noi, ma che non sostituiranno la nostra necessità fisica di condivisione nella realtà? Nella nostra visione, come dice Michela, questi sono i corpi elettrici: traduttori di distanze, strumenti a cui fare ricorso nei momenti di necessità, che ci permettono di affievolire il dolore dato dalla lontananza della persona amata.

Quali sono i “formati” degli appuntamenti che contrassegnano il cartellone della rassegna?

Il cartellone di quest’anno avrà una forma ibrida tra spettacoli in presenza e supporti digitali, opere-testimonianza e nuovi lavori video, commissionati dal festival per avere un ulteriore sguardo sul proprio lavoro.
Ogni giornata sarà divisa in una stanza tematica che, come abbiamo già detto, sarà argomento di discussione e confronto tra agenti, esperti del settore e spettatori.

Foto Andrea Luporini

Come immaginate la danza contemporanea nel post-pandemia: si modificheranno pratiche e stilemi? E gli spettatori?

ML: Non so dire come cambierà il nostro fare danza dopo tutto questo, noi artisti saremo sicuramente cambiati, così come lo saranno ogni uomo e ogni donna che hanno vissuto tutto questo.
Credo che rimarrà intatta la voglia di condividere, si saranno fortificate le scelte di chi sente l’urgenza attraverso la sua arte di veicolare un messaggio. Qualcuno che già vacillava forse si fermerà; è probabile che questo momento gli possa aver dato il colpo di grazia. E poi qualcuno tra gli artisti e tra gli spettatori “sordo” prima della pandemia rimarrà “sordo” anche dopo.

In qualche modo sarà come invecchiare: chi lo fa in modo ottuso e chi con saggezza.
Per artisti e spettatori che avranno visto la morte da vicino sarà come ricominciare.
Il mio è un pensiero non rivolto solo alla danza contemporanea ma in generale a tutte le forme di teatro in senso largo in cui la musica, la danza, la prosa, il circo, le performing art sono tutte rappresentate in quanto “arti dal vivo”.

MP: È una domanda interessante a cui rispondere, osservando anche il passato per ricordare momenti della storia, ancora più dolorosi di questo che stiamo attraversando, in cui alcune forme di espressione artistica sono state costrette ad una pausa forzata.

La domanda che mi faccio, da “non” artista, è: dall’oppressione alla libertà, quali energie si mettono in campo? E, come Michela, mi rispondo che probabilmente in alcuni casi si fortificheranno scelte e saranno più nitide le intenzioni mentre in altri si assisterà al progressivo declino e alla scomparsa.

Eppure credo, visionaria come sempre, che da questo periodo brutale, violento e incerto,  nascerà negli artisti  e negli spettatori il desiderio di condivisione che nel rito del teatro si fa carne e questo desiderio spingerà tutti verso forme e linguaggi immediati e comprensibili, spogliandosi di quegli  “stilemi” che moltiplicano la distanza tra chi agisce e chi guarda e che svuotano i teatri di significato rendendoli freddi palazzi abitati da ombre.