MATTEO BRIGHENTI | Il cortile è un luogo aperto e protetto: custodisce in uno spazio pubblico l’intimità dell’incontro. A Palazzo Strozzi, il dinamico centro culturale internazionale di Firenze, la storica corte interna rinascimentale dialoga e si specchia dal 3 dicembre e fino al 7 febbraio con We Rise by Lifting Others (Ci eleviamo sollevando gli altri), l’installazione di Marinella Senatore a cura di Arturo Galansino, il direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi. Una luminaria alta oltre dieci metri e costituita da centinaia di Led, che accoglie e raduna attorno a sé la luce di una narrazione condivisa per riscoprirci comunità, in un tempo in cui il distanziamento fisico sta condizionando il nostro quotidiano. Un “faro” di pace, conforto e anche gioia. «L’arte ha un ruolo sociale fondamentale – dichiara Senatore a Pac – credo sia importante che gli artisti si interroghino sul qui e ora, soprattutto in un momento come questo. Personalmente immagino le mie opere come contenitori fluidi concepiti tenendo conto dello specifico ambiente in cui si sviluppano e basati su un’inclusione potenzialmente infinita degli elementi in gioco».
Tra le artiste italiane più note al mondo, ha realizzato dipinti, collage, installazioni, video, fotografie e performance intorno a tematiche sociali e questioni urbane, come l’emancipazione e l’uguaglianza, i sistemi di aggregazione e le condizioni dei lavoratori. Nel 2013 ha fondato la School of Narrative Dance, un progetto didattico incentrato sull’inclusione e sulla crescita personale.

Marinella Senatore e Arturo Galansino. Foto di OKNO studio

I visitatori possono leggere We Rise by Lifting Others sia frontalmente che su un fianco. Il suo significato risiede nella somma degli sguardi come nell’intersezione dei punti cardinali. Il movimento suggerito è circolare al pari dei due rosoni che si intersecano al centro, e democratico quanto il respiro richiamato nella frase in alto, Breathe, You are Enough (Respira, tu sei abbastanza), che si accompagna ad altre due: quella del titolo e The World Community Feels Good (La comunità del mondo si sente bene).
«Il mio background è multidisciplinare – spiega l’artista nata a Cava de’ Tirreni nel 1977 – come il lavoro che faccio. Ho studiato e lavorato sia a teatro che nel cinema come direttore della fotografia. Una certa sensibilità per la luce e le sue possibilità narrative è cresciuta con me. L’illuminotecnica è una mia grandissima inclinazione e passione».
Nel suo caso la partecipazione non è solo una metodologia di lavoro: è la lente con cui guarda e interroga il mondo. Così, insieme a We Rise by Lifting Others Marinella Senatore e un gruppo di sue collaboratrici hanno creato un programma di workshop online incentrati sull’idea di attivazione sociale e di costruzione di comunità attraverso la pratica performativa.

Che cosa significa portare avanti un’arte partecipata? Come si lega a We Rise by Lifting Others?

Mi piace pensarmi come un attivatore di processi, non necessariamente come un autore. A volte, addirittura, faccio un passo indietro in favore di un’autorialità condivisa. Nell’azione partecipativa le persone sono una parte insostituibile, definiscono decisamente, in una maniera o nell’altra, il risultato finale dell’opera. È tutta un’altra storia rispetto all’arte relazionale storicamente intesa. A Palazzo Strozzi uno dei problemi principali da risolvere è stato che We Rise by Lifting Others catalizzasse attorno a sé la comunità, che fosse fruibile e generasse un senso di appartenenza, pur nelle restrizioni doverose del momento.

Nel suo cortile i “pieni” dell’architettura sembrano domandare e rispondere ai “vuoti” della luce: è un dialogo di compenetrazione?

C’è una responsabilità dell’artista nel momento in cui la sua opera viene inserita in uno spazio. Se non ne tiene conto, il suo ruolo è da abusivo, non importa che tale luogo sia fisico o sia sociale. Chi fa arte ha sempre davanti a sé una simile responsabilità, importante e pure interessante. Non scelgo mai la strada dell’imposizione, ma quella dell’interazione, dell’intersecazione degli elementi, sia emotivi e intellettuali, che fisici ed estetici. Il cortile mi è piaciuto molto, perché mi ha dato l’opportunità, riallacciandomi alla domanda precedente, di poter risolvere il problema della fruizione, nonostante il periodo storico che viviamo, quindi a fronte delle dovute misure restrittive per il contenimento del Covid-19. E poi il cortile si collega perfettamente con l’idea di una piazza universale che a me interessa tanto. La luminaria è un’architettura che, pur essendo effimera, leggera, temporanea, definisce uno spazio di socializzazione dove le cose possono accadere.

Foto di Renato Esposito

Le luminarie, prodotte in collaborazione con artigiani pugliesi e caratteristiche della sua pratica artistica, sono quasi un’esclusiva delle cittadine del Sud Italia e vengono installate nelle strade e nelle piazze in occasione di ricorrenze oppure di feste patronali. Hanno i colori più accesi per rendere la gioia e l’allegria di un’intera comunità. Quale “santo patrono” intende celebrare We Rise by Lifting Others? Dove possiamo trovare gioia e allegria in questi tempi così bui?

È un errore pensare che le luminarie siano legate soltanto alle celebrazioni dei santi. Certo, sono fortemente connotate, ma non sono esclusivo appannaggio dei riti religiosi. Non mi interessano perché sono nata nel Sud Italia e quindi mi ricordano la mia tradizione: guardo a usi e costumi anche di paesi, dove magari ho avuto modo di fare ricerca, ben lontani dalla mia terra. Credo che la Tradizione con la T maiuscola appartenga a tutti, non sia esclusiva di nessuno. Mi riferisco alle persone, al loro empowering, alla loro fioritura, alla loro emancipazione. Nel momento in cui le persone danno il meglio di sé, celebrano cose importanti della propria comunità, trascendono non soltanto i tempi bui e i problemi di tipo pratico di ogni giorno, ma anche le miserie dello spirito, della vita quando si perde l’idea di che cosa sia la cittadinanza, di che cosa sia lo stare insieme, il coesistere, il coabitare con altri esseri umani. Ci sono riflessioni molto importanti da fare, soprattutto bisogna capire che tipo di persone vogliamo essere, a che tipo di energie vogliamo attingere. Intendo celebrare le buone decisioni e le energie che gli esseri umani da sempre, anche in ben più orribili situazioni, dimostrano di saper trovare. E, guarda caso, ci riescono proprio quando si stringono gli altri con gli altri e si fanno forti di questo sodalizio.

“We Rise by Lifting Others” è un motto di Robert Green Ingersoll, politico statunitense di fine Ottocento, tra i più grandi oratori della sua epoca, soprannominato “Il grande agnostico”. Come ha scelto questa e le altre frasi che compongono l’opera? Le parole sono una guida alla visione o, piuttosto, una sua espansione?

I testi sono molto presenti nelle mie opere, non solo in questa installazione. Non sono né di sostegno o supporto, né di spiegazione, né tantomeno un orpello: utilizzo il testo come il colore o qualsiasi altro elemento compositivo. La fonte raramente è mia personale. Non conoscevo quella frase, sono arrivata a Ingersoll in un secondo momento. L’ho vista in una foto del mio archivio, che è veramente molto grande ed è composto da scatti che raccolgo io stessa oppure che mi vengono consegnati da altri oppure ancora da ricerche iconografiche (faccio studi lunghi anche mesi quando devo approcciare nuove realtà). In particolare, nell’immagine di una manifestazione pacifista negli anni Settanta a New York c’era un manifestante che indossava una t-shirt con quella frase. Mi è sembrata perfetta, di quelle che attivano pensieri, energie, processi di empowering, e quindi l’ho scelta. “Breathe, You Are Enough” è dello stesso segno. “The World Community Feels Good”, invece, è una citazione di Zygmunt Bauman, i cui scritti amo molto.

Foto di Renato Esposito

Perché ha sentito l’esigenza di proseguire l’installazione nelle case di ciascuno attraverso un programma di workshop online? È possibile fare arte e creare comunità stando dietro allo schermo di un computer?

Sì, le assicuro di sì. So da una quindicina d’anni che è possibile farlo. Si fa arte pure con chi sta dietro le sbarre di un carcere, come con chi risiede nelle RSA ed è dimenticato da tutti. Ho citato due dei principali gruppi che stanno facendo i workshop con noi e le assicuro che sono loro a dare tantissimo a noi, non il contrario. Non è vero che lo schermo è freddo, ci permette invece di creare un’orizzontalità difficile altrimenti. Le persone possono essere messe in connessione le une con altre e non dover spiegare da dove si stanno collegando. È bellissimo, perché puoi coinvolgere un tipo partecipanti che in presenza non avresti. E poi, conosciamo molto bene le piattaforme online, sappiamo come sfruttare al meglio tutte le componenti anche linguistiche che ci offrono. Il risultato sono centinaia di persone felici: sono loro la cartina di tornasole che il lavoro funziona. Perciò, non si è trattato di proseguire We Rise by Lifting Others, l’installazione è una parte e il lavoro con le persone è un’altra parte. In realtà, volendo essere precisi esiste una parte ulteriore, la sorpresa finale dei prossimi giorni: una sorta di restituzione pubblica sul web di contenuti creati in base alle esperienze di cui l’installazione è stata l’attivatrice.

Siamo di fronte a una piattaforma di collegamento tra individui, in presenza e a distanza? Più livelli di visione, ascolto e interazione si ampliano e si sovrappongono attraverso una pratica di cura delle persone verso se stesse e lo spazio che vivono?

Nei workshop siamo partiti dalle frasi dall’installazione per una riflessione sulla relazione tra linguaggio verbale e non verbale, in una sinergia tra letteratura, movimento e corpo. La luminaria è un po’ come il centro propulsore dell’energia di tutti, il monumento che celebra pure i nostri partecipanti. È stato importantissimo avere questa grande presenza che ricordasse loro che erano un gruppo, che avevano un valore e che erano in connessione con tutte le persone che la fotografavano (ha fatto il giro dei social in maniera incredibile), che dicevano che era bella e che dava loro tanta gioia, tanta pace, tanto conforto.

In definitiva, attraverso il suo progetto che cosa possiamo vedere o capire (di noi stessi, del mondo) che prima riuscivamo magari solo a intravedere o intuire?

Ho sempre molta paura degli artisti che hanno in tasca delle verità assolute. Quindi, a una domanda del genere, che è molto bella, mi limito a rispondere che spero che sia utile, perché a me interessa che l’arte sia utile. So che molti colleghi non sono d’accordo con questa affermazione, io invece amo molto l’idea che la mia arte possa servire alle persone, fosse pure solo per un momento.

Foto di Renato Esposito