MARIA FRANCESCA GERMANO | Il venti dicembre scorso sei artisti – quattro attori e due registi – per protesta e provocazione si sono rinchiusi in auto-lockdown nel Teatro Bellini di Napoli per il progetto Zona Rossa, ideato da Daniele Russo e Davide Sacco. Ripresi dalle telecamere, senza mai vedere la luce del sole, per 76 giorni hanno vissuto tra camerini e palco, realizzando due spettacoli e condividendo il loro quotidiano lavoro creativo in streaming con il pubblico a casa. Abbiamo intervistato Licia Lanera che insieme a Lorenzo Pisano ha curato la regia.

Foto Michele Amoruso

Ci siamo viste il giorno prima dell’inizio di Zona Rossa, l’ultimo giorno di libertà prima della reclusione nel teatro Bellini. Leggevi una lettera di Majakovskij in un angolo del quartiere Madonnella di Bari per la rassegna Il Peso della Farfalla. Cosa è cambiato in te da quel giorno? Com’è cambiata l’artista e la donna dopo Zona Rossa? Pensi di conoscerti meglio?

Zona Rossa è stata un’esperienza fondamentale a livello personale. Io che sono una persona che non conosce la pazienza, molto irruente, aggressiva, ho dovuto lottare con la tranquillità. Non dico che ho imparato a essere paziente – forse questo è troppo – però sicuramente non mi era mai capitato di essere così paziente nella vita. Lì o scleravi in continuazione per tutto quello che non potevi avere o non potevi fare oppure ti dovevi dare pace, e questo mi ha aiutata a riflettere su di me, sulla mia vulnerabilità. A volte veramente sbatto i piedi e faccio i capricci perché voglio una cosa subito, mi rompo in mille pezzi, divento nevrotica e invece alcune cose devono fare il loro corso. Come artista sicuramente ho avuto sempre più chiaro che voglio lavorare con le persone che amo e che mi amano, e per amore intendo non soltanto affetto personale ma soprattutto: Io ho un amore nei confronti degli attori e gli attori un amore nei confronti del mio lavoro.
Per me è fondamentale, cosa che non sempre è accaduta con tutti in Zona Rossa. L’esperienza in Zona Rossa mi ha insegnato che tutta questa situazione può portarti via le energie, può distruggere tante cose, la tournée, lo spazio, – come nel mio caso, che non ho più la sala prove – e tanto altro, ma non può e non deve distruggere la nostra integrità, sia come esseri umani sia come artisti. Io continuerò a fare o a pensare il mio modo di fare teatro, il mio teatro. Aspetterò; possono disintegrare tutto ma non quello che io sono. Il mio spirito teatrale è forte.

Foto Guido Mencari

Qual è stata la tua esperienza fisica e mentale in Zona Rossa?

Non ho vissuto benissimo la reclusione, anche perché io sono una che va sempre in giro, ho un sacco di amici, i gatti, il fidanzato, due genitori –  sono figlia unica –  che mi trattano ancora come se avessi cinque anni. In Zona Rossa mi sono sentita sola, triste, arrabbiata, ho patito molto. Però l’esercizio continuo e la disciplina teatrale come l’allenamento fisico, la concentrazione, la scrittura – ho scritto tanto, sono stata un fiume in piena – ancora una volta mi hanno insegnato che il teatro è un’ancora di salvezza.

Vivere in una bolla, con la possibilità di essere guardati da fuori nel momento intimo della creazione, può essere un’arma a doppio taglio. Senti di essere stata te stessa fino in fondo? Quale parte di te pensi di non essere riuscita a gestire o a far emergere?

Le telecamere non hanno influito in nessun modo sul mio lavoro, mi avrebbero forse messa più a disagio se avessero filmato i momenti privati, invece veniva resa soltanto la cena, tra l’altro senza audio. Negli attori sicuramente questa cosa ha fatto più effetto; loro l’hanno accusata di più, all’inizio. Poi però ce ne siamo tutti dimenticati. Ogni tanto pensavo al fatto che potessi essere vista e giudicata, però non me ne fotteva niente. Non sono una di quelle persone che si preoccupa del giudizio degli altri. Io penso all’integrità mia e del mio lavoro. Quando sono a posto con me stessa e con la mia coscienza, chiunque mi può dire qualunque cosa, non mi interessa. Ho attraversato così tante cose, così tante sofferenze, così tanti imbuti nella mia vita e nel teatro che non mi sento di dover dimostrare niente a nessuno se non a me stessa, tenendo sempre uno standard alto. Per cui mi sono sentita da subito abbastanza tranquilla.

Cosa mi dici dei rapporti con gli altri? Tu sei una persona molto schietta e istintiva; una persona vera, ti ha creato qualche problema questo nei rapporti con i tuoi colleghi all’interno di Zona Rossa? Quali sensazioni profonde hai incontrato? Quali dolori e paranoie hai toccato?

Ecco, in parte ho sofferto proprio per il non rapporto con gli altri. Poi a un certo punto si è sciolto tutto e ci siamo anche molto avvicinati, con qualcuno di più con qualcuno di meno, i rapporti hanno funzionato. In linea di massima è successo questo: noi abbiamo stipulato una sorta di guerra fredda, ci siamo imposti di non sclerare. Avevamo comunque in consegna il compito di fare uno spettacolo e quando devi lavorare con altre persone devi mantenere il controllo, per cui i nostri rapporti sono rimasti sempre molto superficiali. L’avvicinamento forte poteva comportare anche una rottura forte e noi abbiamo voluto evitarla. Passavamo molto tempo in solitudine nelle stanze. Abbiamo gozzovigliato e cazzeggiato veramente poco. Facevamo una vita monacale. L’ultimo periodo ricordo che alle 20.30/21 eravamo già nel letto. Cenavamo alle 20 e poi tutti nelle proprie camere. Forse, anche, non ci sopportavamo più. Questo abbassamento continuo dell’emotività, in favore della razionalità, dell’isolamento, della mediazione mi ha fatto soffrire. Non è nella mia natura, non sono abituata.
Lo spettacolo parla un po’ della nostra reclusione in Zona Rossa e di tutte le reclusioni in generale; io scrivevo nei testi di una reclusione anche nevrotica. Spesso mi sono scontrata con gli attori: “Questa è la tua visione, non la nostra”, per cui è stato molto difficile. Questa è stata la cosa più complicata e più dolorosa, insieme alla mancanza di alcune persone. Ho avuto un paio di scontri anche con Lorenzo Pisano che era il mio collega, regista e drammaturgo; però in realtà erano scontri a cui siamo arrivati, diciamo, durante la creazione. Io ero molto schietta, non tutti lo erano all’inizio, però alla fine c’è stata una grande sincerità da parte di tutti quanti.

Foto Michele Amoruso

In un Paese fermo alla disputa ‘direttore’ o ‘direttrice’ d’orchestra, cosa vuol dire essere regista donna?

Sai, proprio stamattina dovendo scrivere per una pubblicazione, e premesso che mi piace utilizzare il termine capocomico, riflettevo sulla questione di genere, pensavo: Capocomico o capocomica?
Penso che suoni meglio capocomico, va benissimo anche capocomica, ma alla fine non me ne frega un cazzo. L’importante è che sia chiaro che comando io. Ecco, questo è. Ed è questo quello che penso in generale del dibattito sul femminile. Non è una questione di quote a tutti i costi, di asterischi e di vocali finali che cambiano. Il problema è che questo paese non è assolutamente pronto al fatto che una donna possa occupare un ruolo di dirigenza o di comando. Le attrici sono muse, ci sono le prime attrici, ma i registi devono essere maschi, perché il regista è un ruolo di potere. Una volta, in un importante teatro, ho dovuto combattere con tecnici che mi trattavano manco fossi una cretina, l’ultima arrivata. Il che è stato veramente imbarazzante. Non ce la potevano fare a capire che stavano parlando con la regista dello spettacolo in stagione. I direttori dei teatri sono maschi, i tecnici sono maschi, tutte le maestranze sono spesso costituite da maschi, quindi l’idea che tu, giovane e donna, debba comandare è proprio faticoso da far accettare. A questo si aggiunga infatti il dato anagrafico, perché il nostro è un paese non solo maschilista ma anche gerontocratico. Abbiamo una classe politica di Tutankhamon. Quindi per me, che corrispondo a entrambe le categorie, è molto arduo far capire quale sia il mio ruolo. Il paese si cambia dalla scuola. Fin da piccoli si deve insegnare ai bambini la parità di genere che, secondo me, non è fondamentale che passi attraverso una a o un asterisco ma attraverso il pensiero.

Foto Andrea Macchia

Puoi dirci qualcosa sull’esito finale del progetto? Sei soddisfatta?

Lo spettacolo si chiama 76, sono i giorni di reclusione passati dentro Zona Rossa, con sottotitolo Il crollo dell’Impero Romano di Occidente. Sono molto contenta del risultato. Abbiamo tentato tantissime strade; quando sono entrata in Zona Rossa credevo che avrei fatto uno lavoro diverso ma, come al solito, lo spettacolo si fa da solo e alla fine non siamo riusciti a fare altro che raccontare la nostra reclusione. Una visione “endoscopica” della nostra reclusione; tutto l’interno che non si è visto attraverso le telecamere, quindi i nostri momenti di sconforto, le nostre nevrosi, le paure della dimenticanza e soprattutto il nostro rapporto tra la vita e il teatro, mai come in quel momento coincidenti. È uno spettacolo che mi rappresenta tantissimo. Anche le cose che sono più lontane dalla mia poetica, quelle che appartengono più al mondo di Lorenzo e meno al mio, in realtà mi sento di sposarle appieno; mi piace il lavoro che hanno fatto gli attori. Mi piace molto e spero possa andare in scena.

Che cosa pensi dovrebbero fare gli artisti teatrali in questo momento? Cosa faresti se avessi il potere di cambiare le cose?

Sogno un mondo in cui semplicemente chi ha qualcosa da dire abbia la possibilità di dirla, sia nel mondo che nell’arte. Quando ho iniziato non era così, io non ero nessuno, ho fatto uno spettacolo in un posto, altri l’hanno visto e l’hanno voluto, poi altri ancora lo hanno visto e voluto… Mangiami l’anima è stato così, un passaparola di gente che veniva a vedere lo spettacolo, diceva: “Cazzo che bello!” e lo comprava. Adesso questo non esiste più o quasi. Adesso le stagioni si fanno secondo altri criteri, contano i numeri. Il lavoro è totalmente svalutato: da quello delle maestranze, degli attori fino anche al nostro. Sogno un mondo di giustizia in cui il lavoro venga pagato per quello che vale, perché adesso le logiche che dominano le stagioni e le produzioni non sono certo quelle del valore del pensiero. Questo è il mio sogno: che chi ha valore possa avere il suo spazio all’interno di questo mondo.

Quale domanda ti faresti per chiudere l’intervista?

Che ne pensi della riapertura dei teatri? Questa è la domanda che mi farei. Io penso che i teatri debbano aprire subito, pur con tutti i limiti, per riabituare il pubblico, in attesa di poter tornare alla normalità. E lo dico a mio discapito, perché io non ho un teatro, però i teatri, anche con i numeri ridotti, devono aprire. Hanno il diritto di aprire ma hanno anche il dovere di aprire per venti spettatori, perché prendono soldi pubblici. Il teatro è un bene sociale troppo grande per morire così. Per cui aprite i teatri sempre e comunque, Covid o no.