GIANLUCA IOVINE | DAMS, poi studi di drammaturgia e regia alla Paolo Grassi: Riccardo Tabilio in pochi anni passa dalle riletture shakespeareane per il Teatro Carcano con Tournée da Bar a Dante 2K21. Il Ghibellin Frainteso per il Ravenna Festival 2019. Se già nel 2018 ipotizza scenari alternativi per il teatro con You are Here, è con le performances in audioguida assieme a Kepler-452 del triennio 2017-2020 che giunge a un teatro di impostazione molecolare, dove i simbolismi del rider unito al suo destinatario lungo un filo sottile ed estraneo di oggetti, parole, gesti, ci consegnano le contraddizioni di questo tempo e di chi lo abita. Lapsus Urbano. Il primo giorno possibile, chiude quel percorso che dal debutto a Bologna di un anno fa, fa affermare Tabilio sulla scena italiana. Mentre lavora a portare in scena Gli Altri, IDRA premia a sorpresa il suo Leviatano con la vittoria del Bando NdN. In una delle prove aperte di Polistena, è seduto in platea. L’autore di Riva del Garda osserva divertito gli scambi tra regista e interpreti. Confraternita del Chianti e Carmentalia sono le compagnie scelte nel X Bando NdN per portare in scena il suo testo dal network di residenze teatrali e città che ha deciso di offrire un tempo creativo di qualità alle nuove drammaturgie. Nella tappa reggina l’intenso lavoro scenico si svolge con l’aiuto di Dracma Residenze Teatrali. Poi postproduzione, debutto in Emilia e prima a Milano.

La nostra conversazione parte dal titolo, e da un certo testardo rincorrersi di anni, vicende, nomi, che venano di esoterismo le scelte autoriali.

Questa drammaturgia parte dal Leviathan di Paul Auster…                  

In realtà la drammaturgia arriva Leviathan di Auster ma non parte dal romanzo. Nelle prime stesure era molto presente un altro mito: una rilettura della storia di Davide contro Golia, che poi si è dissolta, e ha lasciato il campo ai materiali attuali. Ma è evidente che le suggestioni bibliche dovessero rientrare in qualche modo dalla finestra: nella fase finale della scrittura quando lo sguardo mi inciampa sulla costa del libro di Auster. Ok, forse così è un po’ romanzato: diciamo che mi torna alla mente questa lettura suggeritami anni fa da un’attrice – pensa un po’! – della Confraternita del Chianti, Valeria Sara Costantin, con cui allora stavo lavorando. Riprendo in mano il libro e scopro che la prima edizione italiana è del 1995, anno in cui è ambientato il mio Leviatano. E allora – oltre che per assecondare i segni del destino, che mostravano un’insistenza quasi molesta – mi viene in mente che uno dei caratteri del romanzo è la polverizzazione di un personaggio. Polverizzazione delle tracce lasciate dal protagonista e raccolte dal narratore. Benjamin Sachs, scrittore di successo, brillante intellettuale divenuto uomo in fuga, latitante, che finisce per esplodere insieme all’ordigno che ha confezionato sul ciglio di una strada, è tutto raccontato da voci altre. Non si sente mai la sua viva voce. Come il mio McArthur Wheeler. Pezzi, frammenti. Ecco: avevo trovato qualcosa.

Il testo fonde noir, musical e meccanismi della commedia europea. Ma in controluce riappare l’impostazione dei classici greci. Debito d’amore o solo suggestione?

Credo suggestione: non mi sento così esperto della materia. O meglio: parliamo di passioni anche qui, anche in Leviatano. Di rabbia, di odio, di frustrazione, e ne facciamo una disamina pubblica, come doveva forse accadere davanti al pubblico delle Grandi Dionisie. Però inquadrerei questi rilievi classici attraverso la lente di Brecht, a proposito di teatro europeo e di debiti d’amore. Uscire ed entrare nella storia raccontata, empatizzare e distaccarsi dai personaggi sono dinamiche molto presenti nel testo.

Raccontaci l’emozione per aver vinto il bando, quali sensazioni hai di questo passaggio in Residenza da Compagnia Dracma a Polistena, nella Calabria reggina?

È stata una sorpresa, e mi ha dato una gioia incredibile. Quella telefonata da parte di Edwige Paulin di IDRA non me la dimenticherò mai. Per quanto riguarda il percorso produttivo trovo molto bella questa genesi nomade di Leviatano. Compagnia Dracma – Andrea, Angelo, Mariella e tutti gli altri – e Polistena sono stati veramente preziosi nell’incubazione del lavoro: invidio gli attori che hanno potuto passare due intere settimane in un ambiente caloroso e stimolante.

Da autore come vivi il testo in scena?  Senti più lealtà o tradimento nel progetto di Confraternita del Chianti e Carmentalia?

Beh, scrivere per il teatro significa in qualche modo accettare di “vendere il bambino agli zingari” – e significa farlo recidivamente, se le cose ti vanno bene, e sempre con gente diversa. Se non metti in conto questa cosa sei perduto… A parte gli scherzi, non condivido quel modo di vedere per cui la regia è la traduzione, o peggio la ricaduta materiale, dell’idea dell’autore. Il concetto di intenzione dell’autore va quantomeno problematizzato. Credo che, dal momento in cui lo si è scritto, il testo diventi un dato a sé del quale l’autore è solo una tra le altre funzioni che lo attraversano, come possono essere il contesto di scrittura, e i riferimenti che fa ad altri testi, o film, o memi. Però devo dire che il progetto di regia di Marco di Stefano mi è parso da subito molto in ascolto delle parole di Leviatano. È il bello di avere un regista che è anche drammaturgo.

Una qualità che da autore e spettatore volentieri rapineresti ai tre interpreti e al regista.

Agli attori – Alessia Sorbello, Andrea Trovato e Giulio Forges Davanzati – la capacità di mandare a memoria i testi, che per me rimane un prodigio inspiegabile. Di assorbire le indicazioni. A Marco Di Stefano rapinerei la velocità della scrittura scenica. È una cosa che c’entra con lo sguardo, con la capacità di vedere, intravedere, prevedere.

McArthur Wheeler un folle, un solitario, forse un eroe.

In Leviatano c’è tanta di quella musica da farne una piccola opera rock… O pop?

La musica mi sta molto a cuore: però nel testo non ho inserito didascalie con i brani da eseguire, ma una specie di playlist: cose che avevo nelle orecchie in fase di lavoro. Una compilation tutt’altro che prescrittiva e in realtà molto onnivora di quegli anni, che andava da In Bloom dei Nirvana a Lemon Tree dei Fool’s Garden – altro brano del fatale 1995. Marco ha dato a Leviatano un indirizzo più specificamente grunge e New punk e rock in generale al testo. Rock o pop? È anche difficile dirlo perché quella stagione è stata una delle ultime in cui il rock è stato pop, quando le settarizzazioni vissute dal punk più intransigente da un lato, e da un certo metal virtuosistico e ricercato dall’altro erano alle spalle. Basti pensare ai Cranberries, o ai REM. Poi ti puoi ammantare d’avanguardia quanto vuoi, ma pop lo siamo tutti.

Giulio Forges Davanzati, Alessia Sorbello, Andrea Trovato

Altra cosa peculiare sono i continui rimandi a cultura e immagini degli anni Ottanta-Novanta del Novecento. Il cinema e le serie tv di oggi sono molto diversi. Ti ci ritrovi o rimpiangi le atmosfere di Twin Peaks e Back to the Future?

La mia incapacità di appassionarmi alle serie è imbarazzante. Le serie che ho iniziato e poi ho lasciato perdere non le conto nemmeno; a volo d’uccello, giusto per citare titoli degli ultimi anni considerati da binge watching: True DetectiveGame of ThronesThe Walking DeadFleabag. Tutte cominciate e lasciate a metà. Mi sono fatto un mucchio di nemici, tra i miei conoscenti, per la mia frigidità in questo campo. Ma non ho neanche rimpianti. Certo: Twin Peaks lo ho amato ma lo ho anche detestato. La seconda serie, dopo una manciata di episodi diventa intollerabile, e l’ho finita per pura abnegazione. Parlando di riferimenti al periodo però posso citare qualche film che secondo me ha influenzato la scrittura: il primo Tarantino di certo, quello di Pulp Fiction Reservoir Dogs. E i Fratelli Coen di The Big Lebowski ancora di più.

Leviatano usa bene diversi ambiti emotivi.

Leviatano si fa notare anche per una riflessione sulla stupidità. Davvero è così necessaria al progresso umano?

Che domanda difficile. Se andiamo a scomodare Darwin, la stupidità è connaturata ai tentativi di affermazione della specie in un ambiente. Qualcosa nella tua testa, un giorno, ti dice di azzardare: di avventurarti fuori dall’acqua o in cima a un albero, di provare a stare fermo invece che scappare davanti a una bestia piena di denti, di dimenarti in un certo modo per convincere un altro individuo ad accoppiarsi con te. I tentativi falliti sono evidentemente una forma di “stupidità” necessaria all’evoluzione. L’ottica di Darwin è di gruppo/specie. Dunning e Kruger, i due accademici americani che metto in scena nel testo, non parlano di stupidità in senso stretto, ma di scollamento tra competenza e percezione di competenza (quanto mi credo bravo a fare quella cosa e quanto lo sono veramente). L’ottica per loro è individuale. Il picco di percezione di competenza a bassi livelli di competenza identificato sperimentalmente da Dunning e Kruger è importante anch’esso per il progresso, perché credere di essere dei promettenti maestri quando si è solo all’inizio dell’opera dà motivazione e autostima a chi si cimenta in una certa disciplina. Permette di trovare le energie di andare avanti. Però se superiamo l’ottica della specie (ed è ora che l’essere umano si liberi di questa pulsione alla supremazia sulla natura, che è antistorica) e l’ottica dell’individuo (che è limitata) e cerchiamo invece di osservare il sistema, forse possiamo dare un nome alle forme di stupidità non necessarie, anzi ostili al progresso umano. Tipo tutta questa frenesia di liberare gas serra in atmosfera che stiamo dimostrando di avere, per fare un esempio, che non ha senso, è certamente idiota, ma che sembra inarrestabile.

McArthur Wheeler ci credeva, e per un po’ sembrava funzionare: e tu? Usi mai del “succo di limone” per scomparire agli occhi degli altri?

Sistematicamente.

La cultura sta riprendendo a vivere. Leviatano avrà un vero pubblico. Cosa resterà in futuro del vivere e fare teatro in tempo di Covid?

Parlando del fare teatro, ci sono stati molti progetti pensati per la fruizione in remoto di grande valore, anche in Italia. Alcune di queste esperienze lasceranno un segno, secondo me. Hanno aperto in qualche modo una strada. Le cose più forti sono state quelle pensate per la fruizione in remoto, le cose “device-specific” – come le chiamiamo in Kepler-452, la compagnia bolognese con cui collaboro. Studiate sul mezzo, Zoom ad esempio, e sulle sue possibilità. Lo streaming di teatro on demand – ossia le riprese audiovisive degli spettacoli classici rese disponibili online – generalmente non le trovo molto interessanti, se non a fini di studio. Diciamo che: spettacoli drammatici che già prevedono la “quarta parete”, ossia che prevedono un patto di non aggressione con il pubblico per cui platea e palcoscenico sono isolati, osservati attraverso una “quinta parete”, il vetro di un display, sono poco invitanti come esperienze, se non per documentarsi su quello che è in scena altrove, o su quello che è stato in scena. Per giunta questi prodotti hanno spesso audio scadente e camera fissa. Non sono competitivi nemmeno con la puntata peggiore della stagione più stanca della serie più cheap. Invece, parlando del vivere in tempo di Covid, io spero che ne resterà la memoria. In questo sistema socio-economico è connaturata un’abitudine sistematica alla rimozione, ma dimenticare l’orrore cui questo sistema produttivo ha costretto le nostre vite in questo tempo sarebbe sbagliato.

Nella tua scrittura il tema sociale è sempre caratterizzante. Cosa ti piacerebbe indagare, ora?

Sono molto intrigato dalle fantasie del complotto internazionali. Avevo anche iniziato a lavorare su QAnon, e sull’assalto a Capital Hill del 6 gennaio 2021, ma la fine del trumpismo ha praticamente fatto evaporare il movimento. O forse lo ha fatto sprofondare, lo ha reso sotterraneo, latente. In questo momento sono in ascolto.

La rivista che pubblicherà questo nostro scambio ha un acronimo intrigante: PAC  Ma si può vivere davvero e solo di Pane, Acqua, Culture?

Beh, di cos’altro?