ELENA SCOLARI | «Se il mostro smette di crescere, muore». Il mostro sono le banche, è “il sistema”, l’ingranaggio economico di produzione che dalla nascita dell’industria (ma forse da quella dell’agricoltura organizzata) governa noi e il mondo molto più di quanto vorremmo. Lo sviluppo dev’essere inarrestabile, costi quel che costi, altrimenti l’impalcatura crolla. Ricordate il “too big to fail” della crisi del 2009 partita dalla Lehman Brothers e cascata poi a domino? Ecco, il dominio “bancario” già si avvertiva quasi un secolo fa: John Steinbeck pubblica Furore nel 1939, titolo originale The Grapes of Wrath (trad. I grappoli dell’ira), lo scrive in cinque mesi e racconta la storia della famiglia Joad che si trasferisce attraversando gli U.S.A. dall’Oklahoma alla California perché espropriata dalle banche delle proprie fattorie: il «dust bowl» (la tempesta di polvere) aveva reso le coltivazioni poco redditizie.

Fu una popolazione intera a intraprendere questo infinito cammino, attirata da offerte di lavoro lussureggianti in una terra dove «ti basta allungare la mano dalla finestra per cogliere arance luccicanti». Una traversata in autocarro: il Texas, il New Mexico, l’Arizona… lungo la mitica Route 66. Joad padre è il Tom Joad dell’omonima canzone di Bruce Springsteen The ghost of Tom Joad, che accompagna gli applausi a fine spettacolo. Springsteen è il cantore dei proletari d’America, dei minatori del Nebraska, di praterie aride dove si sognano le highways, corse in moto e ragazze che incantano dalla porta dei ranch standing in that doorway like a dream (She’s the one).

Got a one-way ticket to the promised land
You got a hole in your belly and a gun in your hand
Sleeping on a pillow of solid rock
Bathin’ in the city aqueduct

But the highway is alive tonight
Where it’s headed everybody knows
I’m sittin’ down here in the campfire light
Waitin’ on the ghost of Tom Joad

E più che proletari sono i coltivatori di Steinbeck, sono i nuovi poveri di allora, che si affrettavano a salvare quei pochi oggetti, abiti, mobili che volevano risparmiare dalla furia delle macchine trattrici mandate a spianare e abbattere tutto, case e piantagioni.
Quella polvere, quei campi, quelle facce arse dal sole li vediamo su proiezioni giganti di bellissime foto d’epoca, spesso in bianco e nero, che abbracciano la scena e inglobano Massimo Popolizio e il musicista Giovanni Lo Cascio con le sue percussioni.
L’attore è in piedi al centro del palco, in abiti casual, dietro a un alto podio/leggìo, a sinistra Lo Cascio e a destra due postazioni illuminate da lampade color grano: una con seduta fatta di sacchi di juta e l’altra con una macchina per scrivere. Il bell’adattamento del romanzo di Steinbeck a cura di Emanuele Trevi rende Popolizio un cantore, al servizio del testo nonostante la sua cifra decisa e riconoscibilissima; la lettura si scalda, si sdegna, si ammorbidisce e si infuria seguendo la scansione per quadri che si snoda dalla Polvere alle Alluvioni passando per la Tartaruga e per l’apache Geronimo che si erge come un dio, arrivando al Latte finale. La cadenza delle parole di Popolizio viaggia accentandosi secondo la ritmica percussiva del musicista, battono insieme.

La tecnica di Popolizio, altissima, si accompagna a un modo sottile, molto peculiare, di stare sempre un poco distante rispetto all’interpretazione, pur partecipando con lucida adesione. In questa lettura, forse ancor più che nell’incarnare un personaggio, il lavoro dell’attore è – con evidenza – porgere il testo agli spettatori perchè esso gli parli.

I semi del furore, lasciati cadere lungo il viaggio accidentato verso una terra che rimarrà solo promessa, germoglieranno in rabbia e delusione: fuggiti dalla siccità, i Joad e i loro compagni in California troveranno un’inondazione. “No home no job no peace no rest”.
Il clima si accanisce. E insieme al clima che si fa beffe di un popolo cacciato e stremato, le offerte di lavoro sono altrettanto beffarde: salari indegni per lavori faticosissimi (quanta attualità, vero?). Non è possibile cogliere le prugne per quei pochi cents, il furore della protesta lascia cadere i frutti che spandono il loro olezzo dolciastro, simbolo marcescente della condizione di uomini miseri.

Non ci si distrae, si seguono le tappe del racconto, sequenze che esaltano una scrittura cinematografica, che si posa sui visi e sui corpi e sulle baracche che vediamo nelle maxi immagini come a volerli accarezzare, lenire. La voce di Popolizio diventa invece rasoio quando dice delle sventure, delle ingiustizie, del disprezzo con cui i latifondisti schiaffeggiano i loro potenziali servi.
E poi si acquieta con una chiusa asciutta e piena di rispetto per la scena finale, quel “misteriosa” detto con la curiosità umana per un’espressione e un gesto di pietà semplice ed eroica tra poveri: Rose Joad dà il latte a un vecchio quasi esanime per il digiuno, dopo aver partorito il suo bambino morto.
E il furore si placa.

Furore
dal romanzo di John Steinbeck
ideazione e voce Massimo Popolizio
adattamento Emanuele Trevi
musiche eseguite dal vivo da Giovanni Lo Cascio
produzione Compagnia Umberto Orsini/Teatro di Roma-Teatro Nazionale

Piccolo Teatro Strehler, 10 giugno 2021