GILDA TENTORIO | Volge al termine la ricca programmazione del festival L’ultima Luna d’Estate (26 agosto – 5 settembre, promosso dal Consorzio Brianteo), che ha l’obiettivo di “illuminare” di teatro luoghi incantevoli immersi nel verde nelle province di Lecco e Monza Brianza: cascine, parchi, ville del Parco Regionale di Montevecchia e della Valle del Curone. Perché il teatro ama viaggiare e attraversare i boschi della fantasia. E oggi, mentre siamo ancora in bilico fra gli spettri della pandemia e l’incertezza del futuro, più che mai dinamismo e poesia paiono cifre indispensabili per andare oltre, come ha sottolineato il direttore artistico del festival, Luca Radaelli.

Necessariamente il Festival quest’anno è dedicato alla figura gigantesca del Maestro Giuliano Scabia, scomparso lo scorso maggio (qui un commosso addio di PAC), pioniere di un’espressività nuova e itinerante, un narrare fantastico nel connubio di teatro e poesia. Una poesia leggera ma terrigna e radicata nelle viscere popolari, fragile ma attiva e combattente.

L’offerta del Festival è assai variegata: le voci di Didone (Maddalena Crippa) e Antigone (Debora Benincasa), omaggi a Scabia, Dante e a Shakespeare, ma anche a Pulcinella, Bukowski, Pasolini, musica e caccia al tesoro poetico… E il pubblico ha risposto con grandi numeri di affluenza.
Il 3 settembre l’appuntamento è al cimitero di Sirtori per Dormono sulla collina…, una “narrazione itinerante” (produzione Teatro degli Acerbi) che si ispira all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, adattata in veste langarolo-astigiana (testi di Pietro Giovannini) e con le musiche dello straordinario album di Fabrizio De André Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971).
Tre orari per tre atmosfere suggestive diverse. C’è il gruppo degli spettatori romantici, che sceglie l’ora del crepuscolo; poi quando sul camposanto comincia a calare il buio, ecco la squadra degli spavaldi curiosi; l’ultima replica alle 22:30 è per la compagnia dei temerari, che ama il brivido delle atmosfere gotiche. Ma forse non sarà così. Questi orari un po’ inconsueti ci invitano a esplorare uno spazio ordinario con un’altra ottica.

Di cimiteri ne esistono tanti: abbarbicati su un fazzoletto di terra a strapiombo sul mare, immersi in parchi con alberi secolari e panchine, adagiati fra le campagne. Ciascuno ha la sua identità e viene “vissuto” in forme diverse: la distesa di croci bianche tutte uguali nei cimiteri militari conserva un respiro poetico, come pure l’affollamento colorato e festante dei camposanti messicani. Quale sarà la veste cangiante del cimitero di Sirtori, comune di duemila anime a venti chilometri da Lecco? L’idea di questa performance ha creato scompiglio nella piccola comunità, qualcuno ha gridato addirittura alla profanazione e allo scandalo, pensando forse a un cabaret di funamboli e ballerine; o forse in periodo pre-elettorale gli animi si accendono con più facilità. Ma, fortunatamente per noi, l’evento ha avuto luogo.
Mentre passeggiavo con gli altri spettatori fra le lapidi, ho ricordato che il filosofo Michel Foucault definisce il cimitero come eterotopia, cioè uno spazio altro, circoscritto e separato da quello ordinario, che ci accoglie con altre regole, ritmi, tempi e, pur non cessando di essere reale, tuttavia racchiude uno spazio che si dilata verso un oltre metafisico, instaurando una «corrispondenza d’amorosi sensi» fra vivi e trapassati. Che cosa succederà ora?

Due figure vestite di nero ci guidano per i sentieri del cimitero e ci invitano alla sosta. Quattro attori e un musicista appaiono e scompaiono fra le tombe. Osservo gli altri spettatori. Cessato il chiacchiericcio, c’è chi si ferma su una fotografia o una lapide, chi ritrova un amico, chi osserva statue e cappelle, chi cammina in punta di piedi. Il cimitero è piccolo ma tenuto bene, con grandi cappelle signorili, loculi, tombe semplici o pretenziose, un ricordo di un paesano morto a Mathausen e le recenti vittime di Covid-19. Intanto il cielo al tramonto comincia a tingersi di rosso e si alza una brezza leggera.

Non importa se la Spoon River ricreata non ha i nomi inglesi. Si crea una sorta di filtro di familiarità: le figurine di Masters ora hanno i nomi di Fermo, Giuan, Cecco, Ada, gli abitanti defunti di Rocca Rotonda, paese immaginario del Piemonte, che ci raccontano poeticamente le loro storie. Ci sono il dottore, il giudice, la sarta, la prostituta, il matto, la poetessa, il predicatore, mariti e mogli. Bravi e sciolti gli attori nelle continue metamorfosi: basta un cappello, un mantello o un palloncino, un cambio di voce o espressione, ed ecco un nuovo personaggio. Questi “ritratti” di parole vanno in qualche modo a sovrapporsi alle nostre lapidi, anche se i cognomi di qui sono Riva, Limonta, Maggioni, Sesana, e avrebbero storie simili da raccontare. Si ha come l’impressione che anch’essi siano in ascolto.

Nulla di macabro. La morte viene descritta come un incidente, e con una buona dose di ironia, oppure come un buio sipario che non ha permesso di realizzare molti sogni. Nulla di tragico. Si respira un velo di malinconia, ma non mancano i toni forti della recriminazione, del pettegolezzo, della malizia, passioni e vizi per nulla offuscati nell’aldilà.

Mentre cammini fra le lapidi, senti che in fondo non sei estraneo a questa città dei morti né a quella che ascolti, perché tutti siamo accomunati dagli stessi palpiti e slanci. Noi e loro, una sola umanità, separati solo da una differenza temporale. Come dice a conclusione il regista Fabio Fassio, gradatamente si crea una comunità verticale, che affonda le radici nel tempo.

In effetti, più che ragionare sul mistero della morte, attraverso questo campionario di esperienze si riflette sulla mutevolezza della vita e in definitiva sulla poeticità dell’esistere. E intanto la scenografia paesaggistica cambia. Il sole declina, si alzano in volo gli uccelli, una timida farfalla volteggia intorno ai fiori… Ciò che si apprezza di più negli attori, impegnati come Virgilio a guidarci in questo rituale di immersione e di ascolto, è la delicatezza, nei gesti, negli sguardi, nei toni, in un profondo rispetto per il luogo e le storie, anche per quelle che resteranno questa sera mute.

Ben riuscita anche l’idea di alternare le tappe narrative alle canzoni di De André, che funzionano da cerniere di accesso o di commento, accompagnate dalle belle voci degli attori (fra tutti, notevole Patrizia Camatel) e chitarra e clarinetto. Intorno a due canzoni in particolare si è sentita vibrare la magia. Appena fuori dal cancello del cimitero si apre uno slargo incolto, circondato da alberi e cespugli, orlato di una vite. In questa piccola oasi extra-moenia, inondata dalla luce mielata del tramonto, viene intonata la canzone Il blasfemo, la storia di un tale che urla la sua rabbia contro Dio che «ci costringe a sognare in un giardino incantato», e l’abbinamento è perfetto. Come pure il commiato, affidato alla lancinante canzone del Malato di cuore che lascia la vita sulle labbra dell’amata e canta la gioia di aver vissuto pienamente, almeno per pochi istanti. Anche Fabrizio, ascoltato qui, ha un altro effetto.

Rimango a guardare il cimitero che si svuota mentre cala la sera e viene allestita la scenografia per il secondo gruppo. Perché il percorso, le fermate, i passi sui sentieri, sono stati studiati anche in funzione di un “palcoscenico” speciale e in divenire.
La porpora in cielo tende al viola, si sono accesi i lumini nel cimitero e altri verranno accesi dagli attori, che più tardi dovranno recitare con lanterne che manderanno solo un fascio di luce intorno. Ma nessuno avrà paura: il calore e la delicatezza avranno semplicemente una voce più soffusa, e sotto le stelle ci si sentirà più vicini.

 

DORMONO… SULLE COLLINE
narrazione itinerante di poesia e canti ispirati all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters

regia Fabio Fassio
con Patrizia Camatel, Matteo Campagnoli, Fabio Fassio, Elena Romano
musiche dal vivo Tiziano Villata 
ideazione, selezione e adattamento testi Pietro Giovannini 
produzione Teatro degli Acerbi

Festival L’ultima Luna d’Estate
Cimitero di Sirtori (LC) 03 settembre 2021