RENZO FRANCABANDERA | Di grande interesse il tuffo dentro ZED – Festival internazionale di videodanza, diretto da Mario Coccetti e organizzato da Compagnia della Quarta a Bologna nell’ultima settimana di settembre.
Si tratta di un festival tematico, giunto quest’anno alla sua terza edizione, e che ha accolto creazioni performative e progetti legati alla videodanza e alla multidisciplinarità, con particolare attenzione alle tecnologie di realtà virtuale a 360° e realtà aumentata.
Lo fa in collaborazioni con importanti partner come il messicano Agite y Sirva – Festival Itinerante de Videodanza, COORPI, organizzazione dedita allo sviluppo di forme artistiche ed espressive crossdisciplinari, Cro.me – Cronaca e memoria dello spettacolo, archivio di videodanza, il festival di videodanza Fiver di Madrid e Vitruvio Virtual Reality, impresa dedita allo sviluppo delle tecnologie virtuali.
Nelle realizzazioni artistiche proposte lo spettatore è sempre più di rado, se non mai, seduto in platea, ma spesso al centro dell’opera, sperimentando l’esperienza della danza da punti di vista privilegiati e insoliti.
A contrappunto degli incontri con l’arte, c’è poi un calendario di appuntamenti tematici, che anno dopo anno si arricchiscono di collaborazioni con personalità del mondo universitario, della danza, della critica e della storiografia.

Commentiamo qui due video installazioni digitali proposte dal Festival, e fruite con il visore negli spazi appositamente allestiti all’interno del DAMSLab (Piazzetta Pasolini).

Partiamo da WHIST, degli inglesi Aoi Nagamura ed Esteban Lecoq (AΦE Dance Company).

Il foyer dello spazio d’arte è occupato nella parte in fondo da una serie di installazioni scultoree in tecnica mista (legno dipinto, vetro, plastica, metalli) che coniugano la geometria e il frattale, il caos e l’ordine. Ce ne sono di varie dimensioni e richiamano tutte una certa coincidenza degli opposti, una dimensione allo stesso tempo concava e convessa nella struttura. Indossiamo il visore 3D e ci viene detto che vedremo man mano degli oggetti proiettati in virtuale che coincidono con le sculture presenti nella realtà. Dovremo cercarle, muovendoci nello spazio, far coincidere l’immagine del visore con quella dell’oggetto reale: a quel punto sarebbero partiti i relativi filmati, abbinati a ciascun totem scultoreo. Partito il video, ci si poteva guardare attorno in ogni direzione, girare su se stessi, ma non camminare. Sbattendo dolcemente ad uno spigolo di una delle installazioni durante un filmato, lo spettatore malaccorto capisce subito che è meglio accettare l’indicazione di immobilità.
Per lo spettatore, l’opera è un film di arte coreografata di cifra surreal-inquietante, in un percorso labirintico che attraversa la videodanza, l’installazione d’arte, la realtà aumentata e la realtà virtuale. Ci si trova così dentro una serie di ambienti insoliti, abitati da tre personaggi che nell’intenzione dei suoi creatori diventano archetipi-raffigurazione dell’Io, l’Es e il Super-Io teorizzati da Sigmund Freud.
Le immagini portano dentro interni totalmente immaginari, onirici, costituiti da visioni surreali, fra quadri che si animano, pavimenti che si spalancano sotto i nostri piedi facendo piombare parti intere della stanza ai quattro angoli dell’universo, performer che eseguono azioni strane, apparentemente sconnesse e in alcuni casi disturbanti, in abiti ottocenteschi su divani e poltrone sdrucite, vicino a caminetti spenti: stanze disabitate, pareti scrostante, enormi librerie che sovrastano gli interpreti-performer mentre inscenano (senza mai superare la soglia dell’allusione) relazioni fisiche dal tratto conturbante, paragonabile per certi versi agli ambienti teatrali della compagnia Peeping Tom, soprattutto quella dei primi spettacoli.

Non sveleremo qui l’interessante costrutto che dà vita a una creazione che muta con le indicazioni fornite dallo stesso spettatore, passibile di una serie di permutazioni in base alle quali lo egli arriva a vedere, se non un film unico e girato ad personam, qualcosa che gli si avvicina e che evolve dinamicamente con l’andare del fruitore nello spazio virtuale.
Una visione che, oltre che curata nell’impianto e nelle scelte registiche, lascia con molti interrogativi sul ruolo dell’arte e della tecnologia, sulle possibilità ma anche sui rischi del nostro rapporto con le macchine. La tecnologia pare suggerire che siamo prevedibili finanche nell’inconscio. Questa notevole e straniante creazione a suo modo ce lo conferma. Esperienza suggerita.

Lo spazio del Teatro DAMSLAB ha ospitato invece Re-Flow di Chrysanthi Badeka, coreografa, videographer, danzatrice, videomaker greca e direttore artistico di MØZ e Project Manager di mAPs – Migrating Artists Project in Grecia. I suoi studi si sono indirizzati alla coreografia per la macchina da presa, dedicati alla promozione e allo sviluppo della videodanza. Ha co-diretto anche AVDP – International Dance Film Festival (2010-2020). La sua personale ricerca sulla danza si sviluppa quindi in una cornice transmediale, dove si mira a fondere il corpo umano con le potenzialità espressive ed esperienziali collegate all’uso delle nuove tecnologie.

Le due installazioni in pochissime parole: la prima consta di un serie di schermi televisivi disposti in modo tale da definire uno spazio circolare piuttosto ampio del diametro di quattro, cinque metri. Qui arrivano gli spettatori per assistere a una video installazione sonora,che racconta, in uno stile d’immagine rallentato, alla maniera di Bill Viola, alcune immagini di una azione danzata che si determinò quale esito di un laboratorio condotto dalla coreografa negli spazi della Lavanderia a Vapore, all’interno di un progetto di COORPI.Le immagini girano di schermo in schermo, costringendo chi assiste a muoversi nello spazio, interagendo con la modalità fruitiva altrui, che a ben vedere diventa anche condizionante del modo in cui si orienta lo sguardo. Forse questa la considerazione più interessante che emerge dalla creazione, arricchita peraltro da una installazione di luci laser che ricorda la marea e che pure si proietta sul corpo degli spettatori, cambiando a seconda della loro posizione nello spazio. Lo spettatore diventa quindi involontaria superficie coreografica, corpo in movimento.

La seconda componente dell’ambiente Re-Flow, invece, abita lo stesso luogo ma non è un continuum, neanche dal punto di vista concettuale, rispetto al primo: sono a conti fatti due installazioni performative distinte, essendo questa una installazione 3D fruibile con visore ambientata dentro paesaggi sintetici.

L’interazione fisica immediata e un diretto coinvolgimento del corpo e della macchina raggiungono qui l’obiettivo di portare lo spettatore, che di solito fruisce l’installazione in coppia, dentro uno spazio completamente digitale, che non ha pretesa di sembrare vero. È un ghiacciaio digitale, che si spacca per lasciarci su un iceberg e sprofondare nel mare, per finire poi in un desolantissimo deserto, immobile e frustato dal vento. Il progetto trae ispirazione da un grafico digitale che mostra il flusso, nel tempo, dei richiedenti asilo verso i paesi europei.
Ci muoviamo dentro lo spazio, che possiamo fruire con libertà, me entro un certo limite che viene segnalato dal visore, oltre il quale questo mondo svanisce. È un ambiente vuoto. Siamo in un vuoto che possiamo abitare per quanto tempo vogliamo, dentro il quale sappiamo di essere con un’altra persona ma che non vediamo nel visore. Quindi esiste nello spazio reale, ma non in quello virtuale. Di tanto in tanto una mano ci sfiora, un corpo ci tocca.
Re-flow si propone qui di esplorare il modo in cui le nuove tecnologie influenzano la percezione umana, il movimento e il processo decisionale all’interno di un contesto performativo. I flussi di dati e gli algoritmi diventeranno poi interessante oggetto di conversazione con la coreografa, che al termine del tempo che si trascorre con i visori, conversa piacevolmente sulle implicazioni concettuali ed artistiche della creazione. Una parte assai interessante per maturare idee e convinzioni sulla propria emotività dentro l’ambiente digitale. Un’idea assolutamente felice, quest’ultima, che svela peraltro alcune intenzioni dell’atto artistico di cui lo spettatore resta volutamente all’oscuro ma che, rilette ex post, lasciano profonda impressione sul senso e il modo con sui si permane in questi due spazi, peraltro a loro modo desolati, in cui la nozione di tempo si perde, come quella di contatto con la realtà, generando, in questa come nella precedente, una involontaria ma non casuale coreografia sociale, che ex ante non vediamo, ma su cui, una volta che siamo chiamati a riflettere, siamo portati a fare considerazioni di senso.

 

WHIST

artistic directors Esteban Lecoq, Aoi Nakamura
technology partner Happy Finish
set designer James Shaw
3D Sound designer Oliver Kadel
dramaturg Amanda Fromell
psicanalista Emilia Raczkowska (Freud Museum London)
producer JiaXuan Hon
co-prodotto da Gulbenkian Canterbury and tanzhaus nrw Düsseldorf
con il supporto di Arts Council England and South East Dance

RE-FLOW

direzione artistica – coreografia Chrysanti Badeka
visual – set design Rajan Craveri
sound design Alberto Barberis – Lambros Pigounis
VR digital artist Andrej Boleslavský
visual artist e digital creator Constantine Nisidis
digital artist e sound programmer Yannis Kranidiotis
Un progetto di COORPI con il sostegno di Fondazione Compagnia San Paolo, MiBACT e SIAE
Con il contributo di: Regione Piemonte, TAP – Torino Arti Performative, Fondazione Piemonte dal Vivo