ELENA SCOLARI | Una città che sceglie il teatro come mezzo per ri-pensare e ricordare cosa è stato il G8 del 2001: chapeau. Il Teatro Nazionale di Genova, diretto da Davide Livermore (qui l’intervista di PAC), ha archittettato, con la curatela del critico e studioso del teatro Andrea Porcheddu e il coordinamento di Laura Artoni, il G8 Project, un progetto impegnato e impegnativo, altamente politico, per ragionare insieme alla cittadinanza sugli sconsiderati eventi che accaddero durante il raduno degli “otto grandi” paesi del mondo, nel luglio del 2001.
Il teatro ha commissionato a nove drammaturghi dei paesi che parteciparono al summit (Germania, Canada, Italia, Francia, Russia, Gran Bretagna, Giappone e Stati Uniti, più il Belgio per l’Europa) altrettanti testi ispirati al G8 di Genova ma soprattutto a ciò che è mutato nei venti anni successivi: dall’economia all’ambiente, dallo stato della società tutta alla nuova comunicazione, a ideali e desideri.
Poche le regole d’ingaggio: durata massima un’ora, non troppi personaggi, scenografie scarne ma un grande schermo a fondo scena a disposizione di tutti i lavori. I testi sono poi stati affidati a nove registe e registi e sono diventati nove diversi spettacoli (in cartellone fino al 27 ottobre 2021), messi in scena in una sola epica giornata nell’eroica maratona teatrale che ha avuto luogo sabato 9 ottobre tra il Teatro Ivo Chiesa e il Gustavo Modena, dalle ore 14 alle 02.30. Impresa indimenticabile per gli organizzatori, per gli artisti e per il pubblico, che per più di 12 ore ha formato una comunità unita in una prova atletica e intellettuale intorno a una ferita italiana e mondiale e intorno a un’arte viva che prova a cavarne qualcosa di costruttivo.

L’aspetto più riuscito e più incisivo di questa operazione è proprio la macchina collettiva – artistica e sociale – che è stata messa in moto: l’idea di far guardare dall’estero a un fatto nefasto avvenuto in Italia ma che tutto il globo ha visto; la volontà di riunire i genovesi in una piazza culturale aperta alla memoria e alla riflessione; l’offerta di un’occasione professionale a molti giovani attori che si sono confrontati su una brutta storia che forse, per ragioni d’anagrafe, non conoscevano o sottovalutavano. E per la platea la possibilità di rinfrescare i ricordi e di ricondividere episodi vissuti raccontandoli ai vicini di posto non genovesi.
Come è capitato a me con una signora che abita in quella che fu la zona rossa e che mi ha detto come fu vivere da cittadina quei giorni, i sospetti delle ore precedenti, le segnalazioni della gente perché i black-bloc circolavano da una settimana, la tensione diffusa, poliziotti e soldati giovanissimi mandati a gestire qualcosa di cui non avevano consapevolezza, e i limoni. I limoni? Sì, perché l’allora premier Silvio Berlusconi, che si preoccupava molto dell’apparenza estetica della città – il G8 significava anche mostrare al mondo l’Italia e le sue bellezze – volle valorizzare le più belle facciate dei palazzi del centro storico mettendoci davanti filari di piante di limone (il giallo s’intona un sacco con i dipinti), peccato che i frutti di quelle piante fossero ancora acerbi e quindi verdi. Cosa t’inventa allora il Zilvio? Ordina di appendere solari limoni maturi ai rami con il filo da pesca! Tu pensa in cosa ha impegnato le persone… (Limoni è anche il titolo di un podcast di Internazionale sul G8, in 8 puntate).

Molte cose sono tornate alla mia memoria grazie a questo maxi diario di vent’anni fa, non ricordavo, per esempio, che i capi di stato si fossero riuniti a bordo di una nave (la European vision), ancorata nel porto, lontano dagli aspri scontri che si consumavano in terra ferma. A posteriori una metafora significativa. Aspramente significativa, con o senza limoni.
Non tutti gli spettacoli che hanno composto la maratona sono però cronache o memorie diaristiche di quel luglio; gli esiti migliori sono anzi i lavori che più hanno cercato di metaforizzare l’argomento, traendone e costruendo un secondo piano di riflessione. In questo articolo parleremo dei quattro visti nel primo blocco della giornata: Change le monde, trouve la guerre di Fabrice Murgia e regia di Thea Dellavalle; Our heart learn di Guillermo Verdecchia e regia di Mercedes Martini; Transcendance di Sabrina Mahfouz e regia di Serena Sinigaglia; Sherpa di Roland Schimmelpfennig e regia di Giorgina Pi.

Fabrice Murgia dal Belgio in Change le monde, trouve la guerre sceglie di mettere in scena tre personaggi, A, B e C. B e C sono due giovani che si recano a Genova per la grande manifestazione pacifica organizzata dai ragazzi no global secondo il motto ‘Un altro mondo è possibile’, il terzo personaggio è B dopo i vent’anni trascorsi da quel viaggio, A è una donna adulta che rivede i filmati di quelle ore girati con la sua videocamera e convive sul palco insieme alla se stessa ventenne.
Thea Dellavalle sottolinea il senso di questo triangolo isoscele tenendo più spesso vicini i due giovani con A che li osserva e che assomiglia a una voce fuori campo, si distingue da entrambi, non solo dalla ragazza che fu. Sullo schermo rettangolare vediamo gli occhi giganti di un super testimone e alcune immagini confuse tratte dalle riprese. L’idea principe è rivedere immagini fissate nel tempo, qualcosa che in quell’hard-disk non è mai più stato guardato ma lì è rimasto, uguale, cristallizzato, e nel contempo confrontare l’effetto che invece gli stessi vent’anni hanno fatto su A persona, sui suoi ricordi, sulla sua vita.

Più inventivo e movimentato il canadese Our heart learn, in cui Alba e Michael (fresca l’interpretazione di Martina Sammarco e raffinata quella di Matteo Sintucci), l’una combattiva e attraente attivista e l’altro un timido e problematico aspirante agricoltore si innamorano e vivono una storia d’amore e proteste che finirà per manifesta disparità di spirito idealista ma anche di censo, tutto sommato abbastanza banale. L’autore Verdecchia mette però al loro fianco un coro di tre elementi (spicca Alberto Giusta per divertito distacco), la regista Mercedes Martini li veste di nero e dipinge di bianco metà del loro volto; il coro si muove perlopiù all’unisono e contrappunta i ruoli dei due ragazzi con ironia, sbeffeggia il catalogo di attivismi protestatari (i tupamaros dell’Uruguay stravincono), prende in giro alcune ingenue contraddizioni. Il testo descrive bene l’irto processo psicologico di crescita di Michael e trova nel trio nero una soluzione per introdurre un commento senza che risulti una didascalia professorale.

Nel lavoro dell’anglo/egiziana Sabrina Mahfouz, troppo giovane per ricordarsi del G8, ci si distacca dal tema provando a dar conto di ciò che gli anni successivi hanno prodotto in chi è cresciuto dopo. Forse c’è un particolare attaccamento all’argomento “stupefacente”, nel Regno Unito (dallo scozzese Trainspotting in giù), ma sta di fatto che Transcendance si riduce a una coppia di post-yuppies in totale stile anni ’90, coca feste sesso e insoddisfazione, del tutto ignara di qualsiasi passato, concentrata solo sul riempire le voragini interiori con droghe d’ogni tipo alla ricerca di una vita, di una forza vitale, che non sanno dove prendere né come alimentare. Il tempo che passa è solo quello che passa per loro. Mi si dirà che questo è ancora ciò che i giovani affrontano? La buona vecchia ricerca del senso della vita? Benissimo, ma se devo provare a costruirci un pensiero nuovo intorno non basta proiettare (con il font courier) elenchi per punti che dovrebbero riassumere quattro lustri di storia dalle Torri gemelle all’avvento di Facebook senza correlarli con il fatto scenico. Lucia Limonta e Edoardo Roti, energici ed entusiasti ma acerbi, hanno sulle spalle un peso recitativo difficile da reggere e Serena Sinigaglia ha dato il dinamismo che poteva a un testo mediocre, poco aperto a tutto ciò che sta fuori dalla propria courtyard e senza la capacità di produrre riflessioni che portino i casi personali fuori dalla camera da letto dove i due sono costretti. Al contrario del senso del letto “universale” dal quale John Lennon e Yoko Ono chiedevano pace per il mondo intero.

Transcendance | ph. Federico Pitto

L’universalità la troviamo in Sherpa di Roland Schimmelpfennig. I tedeschi hanno saputo fare i conti la propria – difficilissima – Storia meglio di molti altri e senz’altro meglio di noi italiani. Questa capacità appare anche qui, chissà se è un caso. Il testo del drammaturgo tedesco per il G8 Project è il più riflessivo, il meglio scritto e il più poetico. Si giova poi di un cast equilibrato su un livello alto (Fabrizio Contri, Carolina Ellero, Cristina Parku, Aurora Peres, Gabriele Portoghese) e della regia pulita e ispirata di Giorgina Pi, oltre alla bella traduzione di Laura Olivi. Un allestimento finalmente molto teatrale. Luci fioche da lampadari calati dal graticcio, ogni personaggio ha la sua e raramente esce da quel cono.
In Sherpa non c’è un tempo preciso, anche questo rende tutto più incisivo e più profondo; ci sono riferimenti al summit, ai ragazzi, ai capi di governo ma il contesto è quello di un racconto che accade in un buio astorico, toccando nodi eterni di inquietudini emblematiche oltre ogni confine di stato.

Sherpa | ph. Federico Pitto

La scrittura, drammaturgica e di scena, diventa man mano sempre meno realistica e più simbolica: il portaborse di uno dei Grandi, a bordo della nave, si perde nei corridoi dei ponti, cercando una cabina che non esiste. Nel suo affanno ci sono il dubbio, lo smarrimento, il terrore di un complotto, l’agitazione inconsapevole per qualcosa che sta succedendo in quelle stesse ore, il mistero di accordi che a noi rimangono oscuri, il dilemma tra il comodo adattarsi al conformismo dei più forti o il cercare, a fatica, un’altra via, nascosta.

Come notazione generale, anche pensando agli spettacoli di cui PAC renderà conto nella prossima puntata, emergono un paio di elementi comuni: una grande paura della solitudine, affrontata formando continuamente ‘comunità’ nate intorno a somiglianze talvolta effimere talvolta durature; l’impressione che tutte queste comunità debbano andare in senso ostinato e contrario, per rimanere a Genova. Una direzione non sempre chiara, non sempre la stessa ma comunque condivisa per stringersi in caso di bisogno.

continua…

CHANGE LE MONDE, TROUVE LA GUERRE
di Fabrice Murgia (UE/Belgio)
traduzione Anna Giaufret
regia Thea Dellavalle
con Irene Petris, Emanuele Righi, Alice Torriani

OUR HEART LEARNS
di Guillermo Verdecchia (Canada)
regia Mercedes Martini
traduzione Kiara Pipino
con Rita Castaldo, Alberto Giusta, Silvia Napoletano, Martina Sammarco, Matteo Sintucci
musiche Riccardo Barbera

TRANSCENDANCE
di Sabrina Mahfouz (UK)
traduzione Monica Capuani
regia Serena Sinigaglia
con Lucia Limonta, Edoardo Roti
video Luca Scarzella
costumi Katarina Vukcevic

SHERPA
di Roland Schimmelpfennig (Germania)
regia Giorgina Pi
traduzione Laura Olivi
con Fabrizio Contri, Carolina Ellero, Cristina Parku, Aurora Peres, Gabriele Portoghese
video e luci Andrea Gallo

Tutte le produzioni sono del Teatro Nazionale di Genova