ILENA AMBROSIO | Un personaggio inconcludente e irrisolto, patologico ossimoro tra inerzia ed entusiasmo vitale, tra passione e indifferenza, dionisiaco e apollineo. Un uomo superfluo, per sé stesso, per le persone che lo circondano – salvo quando ne ferisce la sensibilità –, per la società. È questo Platonov, protagonista della prima opera di un giovanissimo Čechov: uno scritto copioso, ricco di personaggi, rifiutato, infine, dall’autore ma che contiene gli embrioni di tutta la sua successiva drammaturgia.

Un tipo umano complesso e, per questo, capace di offrire interessanti e attualissime occasioni di ripensamento e rilettura. Ispirazioni accolte con intelligenza e singolare originalità da Liv Ferracchiati nel suo La tragedia è finita, Platonov debuttato alla Biennale Teatro 2020, dove ha ricevuto la Menzione Speciale della Giuria Internazionale, e ora candidato ai Premi Ubu nella sezione miglior nuovo testo italiano e scrittura drammaturgica.
Abbiamo, allora, incontrato l’autore per approfondire con lui proprio le ragioni che l’hanno avvicinato a questo testo e le dinamiche drammaturgiche che in esso ha sviluppato.

Liv, Platonov non è tra le opere di Čechov più frequentate. Cosa ti ci ha fatto avvicinare?

Il motivo di partenza è raccontato nello spettacolo ed è prettamente autobiografico. Ho davvero letto questo testo quando avevo 27 anni, mentre ero in Accademia e una battuta in particolare per me è stata una folgorazione: «Ho ventisette anni e a trenta sarò identico, non prevedo cambiamenti». Trovai una affinità con questo personaggio e con lo stato esistenziale in cui si trovava. In più, in maniera casuale, avevo letto altri testi con protagonisti uomini superflui della letteratura russa, un prototipo letterario ricorrente; mi riferisco al Pečorin di Lermontov, a Diario di un uomo superfluo di Turgenev, all’Onegin di Puskin. Tutte queste figure che avevo incontrato in momenti diversi della vita mi avevano per qualche ragione colpito, senza sapere che fossero strettamente legate al filo che porta fino al Platonov e all’Ivanov di Čechov.
Poi, studiando il Platonov – un progetto che parte tre anni prima del debutto in termini di studio e di ricerca – ho iniziato a mettere insieme i punti. In particolare trovavo estremamente interessante questa figura di intellettuale inorganico che non riusciva a incidere sulla società. Ovviamente per lui c’era soprattutto una motivazione storica perché con l’assolutismo zarista era difficile incidere in una realtà così oscurantista.
Ma c’è stato qualcosa che mi ha riportato a me e alla nostra generazione. Una generazione “di mezzo” che non ha partecipato alle grandi mobilitazioni del ’68 ma che è diversa anche da quella che la segue. Penso a Greta Thunberg e a giovani che comunque scendono in piazza, si mobilitano, parlano ai potenti; insomma c’è un movimento che sta nascendo.
Noi invece siamo sempre stati un po’ a guardare e quindi sentivo in questo nostro essere «pietre piantate in terra», come direbbe Platonov, una somiglianza.

Hai deciso di accogliere questa somiglianza in una modalità drammaturgica molto particolare che filtra l’opera attraverso il tuo sguardo da lettore, assumendo verso il finale anche contorni pirandelliani nel rapporto con i personaggi. Cosa l’ha ispirata?

Io non mi ritengo un regista in senso canonico, che realizza una rilettura di un classico, non sono quello nella mia indole più profonda, sono più un autore che racconta tramite il suo linguaggio specifico, abituato a filtrare attraverso la mia percezione, è quello il modo per me più naturale. Così ciò che è venuto fuori è stato accostare alla drammaturgia di Čechov, in maniera modesta e un po’ sbilenca, anche una mia drammaturgia originale.

Per trasferire la mia lettura sulla scena ho allora creato il personaggio del Lettore che spesso in maniera “erronea” – ma è il gioco che metto in moto volontariamente – viene assimilato a me tout court ma in realtà quello è un personaggio con il quale gioco volentieri a prestargli la mia identità ma il fatto che venga chiamato Lettore e non Liv non è casuale. È un Lettore universale che racconta il suo rapporto con quest’opera nello specifico; ma poi il macro tema è la funzione di un’opera d’arte e la relazione che si istaura con essa come se si stesse parlando a un organismo vivente, come se si interagisse con qualcuno fatto di carne davanti a te, che entra nella tua vita e la modifica e tu in qualche modo modifichi l’opera.
C’è un’immagine molto efficace che è quella della trottola di Sartre per il quale i segni grafici di uno scritto sono morti sulla carta, sono esanimi, semplici simboli: ci vuole qualcuno che li faccia girare, proprio come una trottola che è inutile se sta ferma. Allo stesso modo le parole si animano se il lettore aggiunge la propria interpretazione, se mette il proprio gioco nell’opera d’arte. Che poi è ciò che succede a teatro, dove lo spettacolo si fa solo nell’incontro con l’altro, con lo spettatore che di fatto lo definisce. Lo spettatore deve essere cosciente che fa lo spettacolo per il solo fatto di essere lì presente, perché di sera in sera lo spettacolo dal vivo cambia e cambia anche perché cambiano gli spettatori.

A un certo punto mi hai parlato di identità. La questione dell’identità è molto presente nel tuo Platonov. Quella del protagonista ma anche delle quattro donne che lo circondano, la cui identità è quasi definita dal rapporto che hanno con lui. C’è una sfumatura di senso per la quale l’identità è qualcosa che gli individui definiscono reciprocamente in una relazione?

Certo, nelle relazioni si va a definire ciò che siamo ed è attraverso gli incontri e lo sguardo che gli atri hanno sui di noi che capiamo chi siamo e anche il tipo di sguardo che ci piace avere addosso. Quello sicuramente. Nel caso del rapporto con Platonov è fondamentale il fatto che lui non riesca a scegliere nessuna delle quattro donne con le quali interagisce, che poi sono quattro possibilità, ognuna di esse straordinaria, solo che lui non riesce a sceglierne una perché, appunto, significherebbe definirsi. Per cui nella relazione lui si compone di vari tasselli ma di fatto non riesce a scegliere perché Platonov non agisce, “viene agito” dalle donne che continuano a fargli proposte di fuga, di iniziare una «vita nuova», ma lui proprio non riesce.

Foto Luca Del Pia

Alla fine della rappresentazione dici: «All’origine di tutto c’è
la mia paura di non vivere abbastanza, di sprecarla, questa vita;
c’è il mio orrore per la noia,
per la forma vuota,
per il vivere vite che non vorremmo». Questa specie di nichilismo, di apatia, questa paura è puramente autobiografica o anche generazionale secondo te?

Di solito io dico che non c’è autobiografia e invece questa è proprio una cosa mia. Ho questa smania di vivere ma mi sembra di non fare mai abbastanza, una smania personale. Poi in qualche modo, sì, diventa generazionale perché la società in cui viviamo ci porta a sentirci così. Non credo sia un caso che questo personaggio abbia attratto anche altri della mia generazione, penso al Mulino di Amleto e al loro Platonov.
Di certo questa figura fa risuonare molto di sé in questo tempo.

C’è stata in particolare una frase del Platonov che ti ha folgorato: «Ho ventisette anni e a trenta sarò identico, non prevedo cambiamenti». Ma sono trascorsi quasi dieci anni dalla prima lettura. Alla fine sei cambiato?

Sì, nello spettacolo racconto anche della parabola del mio rapporto nei confronti di questa opera: alla fine Platonov viene ucciso. All’inizio lo fanno i personaggi come da testo, ma alla fine viene ucciso il Platonov interiore del Lettore; si tratta di un’evoluzione del rapporto con il personaggio che in realtà rispecchia la mia: se all’inizio mi folgorava questo personaggio, andando a rileggerlo dopo tanti anni non mi è sembrato poi così positivo.
Riguardo, poi, alla mia audacia nell’agire di certo qualcosa ho fatto e si è smosso nella mia vita.

Aprici una finestra sul tuo mondo creativo. Come vivi la creazione, il rapporto con la parola che diventa scritta? Cosa la sollecita e cosa provi nel momento in cui diventa teatro. La vivi come una realizzazione di ciò che scrivi o come una perdita?

Il mio rapporto con la parola è molto legato alla scena. Di recente ho scritto un romanzo che però nella sua struttura ha molto a che fare con la parola performativa. La mia parola si muove solo e soltanto per la scena. Non sono il tipo di autore che sta a casa e scrive da solo. Ci sono momenti in cui lo faccio ma sono appunti, poi è necessario prendere quelle impronte di scritture, affidarle agli attori e iniziare a lavorare con loro attraverso improvvisazioni che strutturo con l’ausilio di una dramaturg. Per me il teatro è sempre un lavoro di équipe: lavoro con una dramaturg un aiuto regista che ha una parte creativa viva oltre a quella classica. Per il Platonov Anna Zanetti è stata un occhio esterno fondamentale. Gli stessi attori diventato interpreti perché chiedo loro di portare anche materiale creativo sulla scena, non solo di eseguire ciò che gli viene detto ma di ragionare creativamente e di far muovere i personaggi secondo la loro interpretazione. Io se posso, una volta che il gioco si è stabilito, cerco di dare il minor numero di indicazioni possibile all’attore; non mi interessa dirigerlo, mi interessa che stia dentro a un sistema di segni che funzionano, che stia in un gioco di cui si conoscono le regole costruite insieme.
La mia parola è una parola che viene scritta per essere detta.