IDA BARBALINARDO* | Il primo nucleo del Teatro Koreja – formato da Salvatore Tramacere, Stefano Bove, Franca Carallo e Francesco Ferramosca – si costituisce nel 1985 e abita gli spazi del Castello Tre Masserie di Aradeo, nel profondo sud. Un sud in cui il teatro è una pratica sconosciuta se non altro perchè non se ne sente il bisogno, ci pensano le varie manifestazioni della tradizione popolare a riempire il vuoto.
In questo contesto, il gruppo originario di Koreja cerca di dare vita a un teatro particolare, un teatro connotato dall’interesse per la ricerca, per la sperimentazione e proiettato verso l’incontro come motivo di arricchimento. Sulla base di questi presupposti e in seguito al trasferimento a Lecce nel 1998, all’interno di un’ex fabbrica di mattoni, totalmente ristrutturata a proprie spese e sita nel quartiere Borgo Pace, si delinea sempre più chiaramente l’identità di Koreja: una realtà che, seppur aperta alle influenze provenienti dalla relazione con l’altro, mantiene una forte impronta personale ravvisabile nella spiccata artigianalità e nella fede per la “pratica in cerca di teoria”.
In occasione del 37° anniversario della fondazione, abbiamo intervistato Salvatore Tramacere, direttore artistico di Koreja:

A quando risale il suo primo incontro con il teatro e cosa l’ha spinta a continuare su questa strada?

In tutte le circostanze della vita, secondo me, c’è qualcosa che scegli e qualcosa dal quale vieni scelto. Per quel che mi riguarda, posso persino dire che il teatro mi è capitato, considerando che volevo fare tutt’altro nella vita. Però stiamo parlando dei primi anni ’80, un periodo storico in cui in Salento la parola “teatro” era una parola lontana, sconosciuta. Nonostante tale contesto ho avuto la fortuna di incontrare persone straordinarie. Una di queste persone (César Brie) proprio in questi giorni è in scena presso Koreja sia con un suo lavoro (Boccascena, la cui regia Brie ha condiviso con Antonio Attisani), che con La riparazione, uno spettacolo che ha scritto e diretto per noi.
Il punto di svolta è stato probabilmente questo: la coincidenza del desiderio di andare via con l’incontro con il teatro, che in questo senso equivale alla più piena realizzazione di quella volontà di fuga ed evasione.
Da qui in poi è stato fondamentale cercare di costruire una casa fin da subito, un luogo dove potersi sentire protetti, da una parte, e dove avere la possibilità di ospitare e incontrare persone, dall’altra.
Come Koreja – che ha una storia collettiva, non abbraccia solo il mio percorso – abbiamo così incontrato figure fondamentali della storia del teatro in un territorio in cui quest’ultimo era ancora qualcosa da inventare, trascorrendo gli anni della nostra iniziazione e della nostra formazione in una masseria.

A cosa attribuisce la mancanza di teatro al sud in quegli anni nonostante esistesse un immaginario nutrito della tradizione popolare?

Credo non se ne sentisse granchè il bisogno perchè, a sud in genere ma nel Salento in particolare, quello spazio vuoto era riempito appunto dalla tradizione. Penso ad esempio alla dimensione delle feste paesane, dietro le quale vi è un grande lavoro: festa vuol dire struttura, non è mai improvvisazione. È chiaro però che in questo caso stiamo parlando di spettacolarizzazione, passare al teatro è un’altra cosa. Lo studio del folklore e dell’antropologia è stato importantissimo per me perchè, pur non avendo una formazione teatrale vera e propria, scolastica, disponevo di un mio background che mi nutriva e mi arricchiva tantissimo.
Poi ripeto, passare al teatro è un altro discorso e dipende anche dal lavoro che si vuole fare: i nostri progetti erano legati all’idea di un teatro particolare, un teatro delle relazioni, dei rapporti, della ricerca e questo ci ha portato a confrontarci con varie figure.
Questa è l’impostazione che ha fatto sì che non fossimo dei “poveracci” quando abbiamo incontrato il teatro, eravamo già in un certo senso figli di qualcuno, mi permetto di dire.

Nell’ambito del vostro gruppo originario, vi capitava di preoccuparvi di non essere accolti proprio per la vostra idea particolare di teatro e della scarsa familiarità del sud con la pratica teatrale?

Il nostro primo spettacolo – con la regia di César Brie – si chiamava  Dovevamo vincere e, nel corso della messinscena, cantavamo canzoni grike e in dialetto salentino. Ricordo che a metà degli anni ’80, a Santarcangelo di Romagna, gran parte del pubblico rimase disorientato nel vederlo; solo una persona, Thierry Salmon, comprese le origini della storia che stavamo raccontando.
Culturalmente quindi ci sentivamo fragili, un po’ minoritari ma non deboli e ancora adesso siamo così: questa fragilità in qualche modo ci appartiene.
Tale disposizione d’animo ha fatto sì che, nel corso del tempo, siamo sempre andati in cerca di altre realtà marginali, minoritarie, soprattutto per quel che riguarda il lavoro che abbiamo fatto all’estero (che credo abbia coinvolto 44 Paesi del mondo); non lo abbiamo fatto con una reale consapevolezza, abbiamo più che altro trovato nostri simili in altri posti del mondo.
Ne consegue che la nostra identità, che si costruisce giorno dopo giorno e spero non si esaurisca mai, sia fatta anche di questi piccoli dubbi, di questi momenti in cui metti in discussione quello che stai facendo per poi procedere con un approccio migliore.

E sempre nell’ottica di questa dimensione dell’incontro, quanto dello sguardo delle grandi personalità con cui vi siete relazionati è stato poi mutuato nell’esperienza di Koreja?

Io credo che la cosa più bella degli incontri non sia l’idea di portarsi via un pezzo di quella persona ma sapere che tu appartieni a quell’esperienza umana, che deve però essere contestualizzata in quel determinato periodo storico. Gli incontri non rimangono uguali a se stessi nel corso del tempo: io e César, ad esempio,  non siamo più gli stessi di tanti anni fa, siamo, spero, evoluti e ritrovarci ancora qui significa che c’è una sorta di appartenenza, di riconoscimento di un percorso. Così vale per Eugenio Barba, che è stato qui a novembre, e per le altre persone che sono state importanti per il nostro cammino, per il nostro sviluppo.
È quindi giusto che la poetica si arricchisca e cambi man mano che si va avanti: nella pittura i pittori peggiori sono stati quelli che hanno iniziato e finito nello stesso modo. Questo per dire quanto gli incontri segnino la tua vita e quanto sia importante definire i periodi, sapere che fino a un dato momento ti sei rispecchiato in qualcosa e, successivamente, ti apparterrà qualcos’altro. Ed è bello: non vuol dire perdere d’identità, ma rafforzarla.
Poi è chiaro che delle relazioni rimane spesso traccia in quello che si fa e un esempio in tal senso è il fatto che Koreja, a livello architettonico, non c’entra niente con il sud, le origini, la festa ma in qualche modo rimanda a Berlino, a Oslo.

In Koreja si percepisce una forte impronta di artigianalità legata alla ricerca e anche all’incontro con l’altro, con l’uomo. Questo aspetto si riversa poi nella vostra linea di condotta, la “pratica in cerca di teoria”, anch’essa forse collegabile alla componente dell’artigianalità.

Sì, abbiamo sempre pensato che il fare venisse prima del pensare, che non vuol dire fare quello che si vuole senza criterio ma cercare di utilizzare l’esperienza per risolvere un problema. Il teatro è fatto di problemi, non di domande. Le domande bisogna porsele prima e, una volta trovate le soluzioni, possono nascere le forme che rappresentano l’opportunità di dare concretezza a un’idea. La nostra pratica consiste nell’avere il coraggio di cambiare, a volte anche subito, senza aspettare troppo: è un atteggiamento che deriva dal nostro essere sempre stati molto concreti e pratici, cercando di dare titolo e definizione a quello che facciamo solo in secondo momento.

Come si riesce a conciliare l’artigianalità, la propensione all’incontro – le quali richiedono lentezza e approfondimento – con i ritmi che la contemporaneità impone (essere costantemente presenti, performanti, produttivi)?

Si fa che se prima si faceva dell’incontro la sola possibilità di esistere, oggi, di opportunità del genere, bisogna crearsene venti. Questo vuol dire sviluppare la capacità di realizzare più cose in più direzioni, cercando di mantenere quell’artigianalità di cui stiamo parlando: è chiaro che dedicarsi a un solo progetto richiede lentezza e ricercatezza, economicamente deficitarie. Se invece contemporaneamente t’impegni su dieci fronti, questo ti porta a una complessità e anche a una ricchezza economica che ti permette di continuare. Non è facile. Quello che voglio dire è che Koreja è un’azienda in cui un gruppo di persone che sono state formate nel tempo compiono un lavoro quotidiano in più sensi, cercando di mantenere in tutti una certa qualità. Siamo, questo è poco ma sicuro, un’impresa culturale all’interno della quale 18 persone lavorano, percepiscono stipendi, contributi etc. Questo è il minimo, per non dire poi tutto quello che c’è intorno.

Per chiudere, guardando a questi 37 anni trascorsi, cosa non vi aspettavate e vi è stato dato dall’esperienza di Koreja? Penso anche all’impatto con la pandemia.

Il nostro primo spettacolo – Dovevamo vincere – secondo me era già un programma poetico di Koreja e, nel bene e nel male, questo concetto è rimasto, non nel senso che abbiamo perso ma che, come in passato, continuiamo ad impiegare tutte le nostre forze e capacità in quello che facciamo, mantenendo la passione e la propensione alla cura.
Questa pandemia credo che più di altri ci abbia trovati attenti, pronti: non voglio nella maniera più assoluta pensare che siamo meglio o peggio di altre realtà, però questa situazione non ci ha trovato spiazzati, senza strumenti sia da un punto di vista economico sia del confronto. Abbiamo dovuto sottostare a tutta una serie di regole, ma il modo in cui affrontare questa condizione in un certo senso lo conoscevamo già. La “pratica in cerca di teoria” ci è stata molto utile in questo senso. Quello che abbiamo fatto è stato cercare di portarci sempre avanti, anche su questioni che magari non erano ancora emerse da un punto di vista ufficiale.
Lo slogan della crisi in cui possono nascere cose nuove si realizza se tu sei pronto: ecco, per me questa è una parola chiave. Alessandro Leogrande è stato per noi un maestro in questo senso, perchè era realmente portatore di questo tipo di cultura secondo cui non basta la passione, servono gli strumenti.

________________________________________________________________________

* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.