ILENA AMBROSIO | Un percorso formativo di tre anni per attori, drammaturghi e registi. Non un corso, dunque, ma una vera e propria accademia (gratuita, va sottolineato) a frequenza obbligatoria e giornaliera con una proposta formativa ampia e variegata, condotta da insegnanti scelti tra le presenze autorevoli della teatralità italiana. Non solo, un percorso professionalizzante, che ha scelto di aprirsi alle diverse figure che compongono la creazione scenica con l’obiettivo di creare un gruppo di lavoro capace di realizzare, a fine triennio, non un semplice saggio bensì spettacoli tanto validi da andare in scena, replicare e girare. 

Questa, in estrema sintesi, la mission della Bellini Teatro Factory, nata nel 1988 come Accademia di Recitazione del Teatro Bellini per volere di Tato Russo e, da allora, organismo mutevole che è stato capace di modificarsi sotto la guida dei prestigiosi direttori succedutisi negli anni. Per ultimo proprio uno dei direttori del Teatro Bellini, Gabriele Russo, cui si deve il nuovo nome della scuola e che con i giovani alunni del decimo triennio 2016/2019 ha segnato quella fondamentale svolta di affiancamento degli obiettivi didattici a concreti obiettivi creativi e e produttivi – La classe. Ritratto di uno di noi il lavoro certamente più riuscito e maturo, che calcherà di nuovo il palcoscenico del Bellini dal 22 aprile al 1 maggio. 

“L’obiettivo della Factory – ci ha raccontato Russo – è prima di tutto mantenere un polo vivo di formazione, un polmone di stimolo e anche di contatto con le nuove generazioni. Un contatto fondamentale per dare al sud Italia una vera scuola di recitazione e drammaturgia, ora assente, fatta salva quella di Palermo”.

Una scuola, si diceva, che dalla sola recitazione si è aperta anche alla drammaturgia e alla regia: “Da quando io ne ho assunto la direzione, dopo Danio Manfredini, abbiamo scelto di inserire nel percorso formativo anche tre drammaturghi/ghe e tre registi/e con lo scopo preciso di lavorare non soltanto sull’individualità ma anche molto sul lavoro collettivo per concludere il percorso con una vera e propria messa in scena”. Una scelta dettata da una forte convinzione rispetto alla necessità delle repliche nella pratica teatrale, rispetto a quella ritualità che, purtroppo, le nuove generazioni di teatranti faticano a praticare. 

Gabriele Russo

E inizia quest’anno il nuovo triennio – il dodicesimo dopo quello andato avanti a singhiozzi del 2019/2022 – per il quale è stato di recente pubblicato il bando di concorso e che vedrà Gabriele Russo passare il testimone a Mimmo Borrelli, che ha alle spalle, oltre alla nota e prestigiosa carriera di attore, regista e drammaturgo, una consolidata esperienza nella formazione e nella direzione degli attori e che già da inizio stagione è diventato parte integrante della famiglia del Bellini. 

“Ci sono storie antiche che ci legano a Mimmo – racconta Russo – e ora le strade si sono incontrate di nuovo perché abbiamo trovato un comune linguaggio e la comune esigenza di fare un lavoro anche sulla sua attività di autore e di rimettere in scena i suoi spettacoli, iniziando con La Cupa che sarà da noi per quattro settimane a inizio della prossima stagione. Così è nato un rapporto che si è arricchito sempre di nuove suggestioni: dalla Cupa siamo passati all’idea di una collaborazione più stabile per la ripresa di un suo lavoro ogni anno, dandogli a tutti gli effetti residenza al Bellini, e poi è venuta fuori l’idea di passargli la Factory. Un passaggio di testimone – continua  – che mi è costato anche un po’ di rammarico perché sono molto legato alla Factory ma ho deciso di essere lucido e, avendo l’opportunità di un dialogo con un artista che stimo tantissimo, ho pensato di garantire una pluralità di sguardi con un cambio di direzione. L’abbiamo sempre fatto perché l’accademia non sia mai una proprietà privata”.

E allora abbiamo raggiunto telefonicamente anche Mimmo Borrelli e ne è scaturito un dialogo “torrenziale”, fruttuoso proprio perché, partendo dalle premesse didattiche di questa nuova esperienza, ha scorso liberamente toccando punti importanti e fondamentali del suo modo di pensare e di fare teatro, di trasmettere la sua arte, e anche della sua profonda umanità.

Mimmo, oramai sei pratico di esperienze didattiche, ma la gestione a lungo termine di un’accademia è tutt’altra storia. Come è arrivata questa nuova sfida e cosa senti al pensiero di affrontarla?

Guarda, questa è una storia molto bella. La relazione didattica, diciamo così, con la Factory del Bellini è iniziata anni fa – era il 2011 durante la gestione Melchionna – con seminari di approccio in occasione dei quali individuai alcuni allievi di grande talento… mi fa piacere citarli: Veronica d’Elia, Renato De Simone, Riccardo Ciccarelli, Andrea Caiazzo… che poi mi sono portato dietro in altri progetti tra cui la Cupa, e Opera Pezzentella, importantissimo, molto acclamato anche se fece solo otto repliche in due anni.
Si trattò di un’iniziativa molto bella della Onlus Opera Pia Purgatorio ad Arco che mi invitò a fare una ricerca antropologica sul luogo, dalla quale creare un evento spettacolare che avesse alle spalle però anche un percorso di formazione. E per questo lavoro andai a pescare persone che avevo incontrato nei seminari del Bellini e in altre occasioni: Lucienne Perreca, Paolo Fabozzo, Mario Cangiano, Davide Mazzella, Gigi Bignone, Salvatore Scotto d’Apollonia, Sarà Guardascione, Enzo Gaito… Questi attori e questi attrici sono poi entrati nelle scuole più importanti d’Italia e lavorano tutti. Sono davvero il mio orgoglio e quella fu per me l’esperienza più importante in termini di formazione, che mi ha aperto gli occhi sulle possibilità dell’insegnamento.

Opera pezzentella

Così ho accettato con entusiasmo quando i fratelli Russo, con una certa dose di gioiosa follia, mi hanno offerto di ospitare il mio repertorio – cosa che cercavo da tempo – e insieme di essere “un faro” per la direzione artistica in generale e poi per la Factory. Certo, ora mi sto scontrando con la paura del dover decidere chi dovrà farlo perché le selezioni saranno traumatiche per me… Io non vedo mai il bicchiere mezzo pieno, vedo sempre che dovrò tagliare le gambe a una serie di sogni. 

E, inoltre, ti troverai di fronte una generazione totalmente diversa dalla tua, dalla mia; che forse concepisce il teatro in modo diverso, che di certo vive la vita e le relazioni in modo diverso. Come pensi che ti ci approccerai?

Di sicuro a quelli che saranno scelti chiarirò che fuori dalla scuola non sarà garantito il lavoro perché la situazione è davvero complessa. E allora, premesso il senso di colpa che sento nel pensare di poter illudere questi allievi, il mio intento sarà quello di avvicinarli a un processo creativo e di restituire quello che loro daranno per tre anni… perché loro daranno corpo, sangue, tempo.
I
o domanderò loro: volete fare la vita degli attori o volete essere attori? Perché nel primo caso la strada è facilissima, ma nel secondo dovranno dare tutto… Il punto sarà fare un’esperienza, il teatro deve servire a fare un’esperienza di vita, non può essere un lavoro e basta, deve essere un’esperienza anche nel sacrificio delle sofferenze, delle mancanze di rispetto e anche nello sforzo di non prendersi troppo sul serio. Perché io credo che la distruzione del teatro contemporaneo l’abbia causata proprio questa tendenza, tipica di alcuni maestri e di buona parte del teatro off, di arroccarsi nella pretesa di possedere il Vero… Se vogliamo salvare il teatro in questo momento dobbiamo essere seri sulla scena ma fuori non prenderci troppo sul serio pretendendo di sapere quale sia la verità. La nostra forza è sempre stata quella di non sapere la verità, l’umiltà di non sapere.
E allora io non vorrei creare una generazione di persone presuntuose che odiano ma di persone clementi che amano il prossimo… Dici bene, siamo di fronte a un baratro enorme, una società di gente devastata dalla mancanza di confronto, che non accetta il confronto, spesso non preparati, e che invece devono prepararsi se vogliono criticare i padri… Perché i padri sono sempre criticabili però… Io penso a mio padre, per esempio, i cui genitori hanno fatto la seconda guerra mondiale: cosa doveva fare, li doveva uccidere? E invece mio padre amava i suoi genitori mentre ora c’è rabbia verso i padri ai quali si rimprovera di averci lasciato un mondo devastato… Ma loro stessi hanno ricevuto il mondo devastato del dopoguerra e l’hanno ricomposto dalle macerie.
Penso ci sia una grave non percezione della tragedia, vediamo immagini sconvolgenti circolare on line ma non riusciamo a capire dove stia davvero il male; questa mancanza di catarsi della tragedia sarà la distruzione delle generazioni future. La civiltà dell’apparire avrà in odio il proprio nemico, ed è questo il fascismo, quello della società dell’etere di cui parlava Pasolini.

Scrivi nel comunicato del bando di concorso: il teatro resta l’unica cerimonia civile, l’unica espressione collettiva immanente, l’unico atto politico possibile da compiere, in nome e per coloro che domani non sanno neanche se sopravvivranno o meno. Lo si sente dire spesso ma tu quale valore dai all’aggettivo politico riferito sl teatro? 

Io voglio dire che in questo momento il teatro, oltre a essere davvero l’ultima occasione di rito collettivo, è anche l’ultimo luogo in cui si possono affrontare i tabù perché l’ossessione del politicamente corretto ora è una baggianata ma tra anni avremo problemi gravi nella libertà di parola. Ci viene impedito di definire le cose, questo è un grande pericolo. Il teatro allora deve essere ancora di più la roccaforte di «ciò che nessuno vorrebbe mai udire» come dice il Faust di Goethe. Ma per parlare di ciò che nessuno mai vorrebbe udire dobbiamo essere aperti, confrontarci.
La scena è il luogo del no, è il luogo dello scontro. Il teatro era, per i Greci, come lo sport delle Olimpiadi, istituite per sedare le guerre e “contenere” gli scontri nello spazio della scena. Ma per riuscire a farlo, ripeto, bisogna essere aperti, avere anche la percezione delle proprie oscurità e del proprio contrario, non si può restare chiusi nella camera “screenshottata” di un computer. E però, quando a un giovane di vent’anni fai scoprire questa possibilità, ti diventa  fedele. Bisogna allora lavorare sulla prossimità, sull’abbraccio, sull’accogliere, anche sullo schiaffeggiarsi un poco, scontrarsi sulla scena per evitare la guerra che ora dilaga. Io voglio che questi allievi riflettano sulla umanità, sull’umanità della prossimità.

La Cupa

“Non c’è un maestro se non nell’allievo stesso”, scrivi. Per restare in ambito greco, sembra che tu parli di un processo quasi maieutico. Però bisogna ammettere che il tuo io artistico è molto ben definito, impattante e hai una forte convinzione di come vuoi sia il tuo teatro. Nel momento in cui ti avvicinerai a ragazzi che, si spera, sono un tabula rasa, non hai il timore di far venire fuori dei cloni?

Questo potrebbe essere un grande guaio ma anche un vantaggio.
Di certo in Accademia ci sono tanti docenti che ho scelto di non cambiare, ciascuno con un un proprio carattere in positivo e impositivo, ben definito. Poi ho aggiunto le tecniche della Commedia dell’Arte con Boso, l’Opera dei Pupi Napoletani, ci saranno alcuni attori della mia compagnia come Maurizio Azzurro che però viene dia un percorso totalmente diverso dal mio, Gennaro di Colandrea… Insomma ci saranno tanti input diversi che bilanceranno la mia presenza…
Poi ovviamente è inevitabile che se stai a contatto tanto tempo con una persona rimane quell’imprinting. Io starò per molte ore a contatto con loro e faranno dei percorsi come Opera Pezzentella al secondo anno con il passaggio di testimoni dei quattro attori principali. Però c’è una caratteristica della mia Compagnia che è una fortuna, ossia che non sempre si lavora con me. Molti dei miei attori hanno percorsi paralleli anche televisivi, nel cinema, quindi vuol dire che devono saper fare tante altre cose, perché io faccio un lavoro base che poi l’attore deve saper sfruttare in ogni situazione. Per cui, se verrano fuori dei cloni in questo senso e cioè, che saranno efficaci e chiamati per lavorare ben venga!
Ma quello che davvero vorrò trasmettere non è tanto il quid ma la grandissima adesione alla fatica e al darsi continuamente dei perché, perché su tutto. Questo è alla base di qualsiasi tipo di disciplina ed è la base per essere veri a teatro, questo vorrei passare agli allievi.

Da quello che racconti mi sembra che il teatro per te sia qualcosa di davvero totalizzante, anche a livello esistenziale, cui dedicare tutto…

Qualcuno l’ha definito teatro totale, una definizione felice per me e che ho fatto mia perché è un melodramma e non lo è, è opera in prosa ma non del tutto, è un teatro epico scritto in versi quindi lo è; è opera e non lo è, opera danzata anche se non propriamente coreografica.
E poi è totalizzante perché, e questo cercherò di capirlo nelle persone che andrò a scegliere, nella vita o hai una dannazione vera o è meglio che il teatro non lo fai proprio. Un tempo, quando c’erano le tournée di otto mesi poteva ancora essere un mestiere ma ora non più perché è preda dei figli dei figli dei ricchi che fanno i registi senza criterio e che determinano la qualità media dei teatri nazionali. Quindi a un ragazzo che viene dalla campagna, figlio di operaio, come me, devi dirglielo che fare l’attore è una guerra e che se vuole farlo la motivazione deve essere a mille.

Una verità bella tosta da accettare. Come ti fa sentire pensare che sarai tu a svelarla?

Io, questo lo posso dire, sono una persona molto onesta, soprattutto nell’aprirmi totalmente. Sono il primo a mettermi in gioco, non starò lì a fare il professore, sono il primo ad aver paura per la responsabilità psicologica di persone che per tanto tempo crederanno in me, cercheranno in me una luce e magari non riuscirò a esserlo… Il primo ad aver paura sono io. Sono felice e grato di questa opportunità datami da un’istituzione intelligente che ha anche riconosciuto la mia voce, mentre altri non l’hanno fatto. Ma ovviamente il peso della responsabilità lo sento molto.

‘Nzularchia

Probabilmente abbracciare una responsabilità con onestà ha necessariamente come risvolto la paura e la preoccupazione di essere magari anche un po’ crudeli per contrastare la mediocrità, quella cui ci stiamo assuefacendo come le rane bollite di Chomsky.

Infatti io penso che il medio è quello che sta distruggendo l’evoluzione umana, l’evoluzione avviene attraverso la paura e l’autocostrizione a superarla. sono frasi banali, forse, ma se non ce le diciamo ogni tanto ce ne dimentichiamo e ci appiattiamo.
C’è anche da dire che la poesia in generale, non solo quella in parole, ma quella della immagini, del cinema, la poesia come concetto deve essere discriminante. Ci sono i poeti di idee e i poeti di cose, io sono un poeta di cose, che cita le cose, le nomina con violenza, benché non accada quasi nulla di esplicitamente violento nei miei lavori. Come nella Cupa in cui c’è un affondo nella perversione umana non agita ma verticalizzata attraverso la parola, io faccio dire ai personaggi una serie di cose oscene e indicibili per verticalizzare lo schifo di quei rapporti. Il luogo del non detto, dell’indicibile, della verità che non ci vogliamo dire deve essere il teatro. E io in questo vedo una speranza: per me proprio in questo momento il teatro può diventare questo luogo, però dobbiamo svegliarci. 

Di certo la tua è una parola che tenta di farlo con violenza, che violenta anche te che la dici.

Ma perché io sono il primo colpevole! Non mi pongo come detentore di verità, io non la conosco la verità, mi faccio possedere da un autore che non so in quale parte di me si trova e mi costringe a migliaia di versi, e mi sottopongo ogni sera a una precisione assoluta, mi costringo a un dolore perché sono il primo a dire che il mio mondo non va bene e lo vorrei cambiare ma insieme non ho il coraggio di farlo, non ho il coraggio di andare in guerra… Ecco io non sopporto l’artista che si pone come detentore di una verità da instillare nel pubblico, il pubblico è sacro e nel momento in cui vede un animale che soffre insieme alla comunità ti adotta.
A volte non me lo spiego nemmeno io perché il pubblico mi ama, perché, è vero, sono crudele ma lo sono con me stesso, lo sono con i miei attori che costringo ad affondare dentro cose dolorose della propria vita, a riportarle in superficie per essere veri in teatro, a fare un sacrificio che però regala bellezza. Per fare questo sacrificio si deve guardare dentro il proprio abisso terrificante, non si può prescindere dal proprio sé e questo vale per l’accademia: non dovremo annullare le personalità di questi ragazzi e ragazze ma farle emerge, anche nei loro lati oscuri; non farne burattini ma soldati, ciascuno con una divisa diversa.