RENZO FRANCABANDERA | Capita spesso che le dense programmazioni teatrali di fine stagione prospettino agli spettatori la possibilità di doppie visioni nella stessa sera, mettendo insieme storie e artisti diversi, spesso distanti fra loro per codice e storia.
È così che qualche giorno fa, due palchi del Teatro Arena del Sole di Bologna hanno ospitato in rapida sequenza Kassandra, riadattamento dell’omonimo testo del drammaturgo franco-uruguayano Sergio Blanco nella rilettura proposta dall’attrice e cantante Roberta Lidia De Stefano, diretta da Maria Vittoria Bellingeri, e Il paradiso perduto, nuovo spettacolo di Antonio Viganò Teatro La Ribalta, in prima nazionale, che riflette sul concetto di “bellezza” e sui limiti morali ed etici della scienza, tratto dal Frankenstein di Mary Shelley.
Questa seconda proposta, insieme allo spettacolo C’è vita su venere di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni è stato il prologo di Carne, focus dedicato alla drammaturgia fisica curato da Michela Lucenti per ERT / Teatro Nazionale.
Come capita sovente, allestimenti diversissimi a volte aiutano la generazione di pensieri che nascono proprio dalla giustapposizione.

Il lavoro di Blanco/Belligeri/De Stafano nasce dall’incontro delle due artiste italiane con il drammaturgo durante un seminario al LAC di Lugano, e dalla successiva determinazione delle due di chiedere a Blanco di poter lavorare sul suo testo per un allestimento che, pur rispettandone l’impianto, avesse qualche grado di libertà e la facoltà di adattamento della parola, ai fini di una resa scenica in linea con le intenzioni artistiche specifiche, che hanno asciugato alcune parti per porre l’enfasi su un luogo d’azione diverso da quello originariamente pensato. Blanco ha concesso questa licenza di manipolazione, considerandone la fedeltà sostanziale.
Dal buio della sala, riempita dai fumogeni, si illumina l’interno di una autovettura, che occupa il lato destro del palco, e dall’interno della quale si rivelerà, come riprendesse vita in un sussulto, il personaggio che di lì a poco diventerà protagonista della vicenda.
La reincarnazione contemporanea dell’antico mito vive una identica condizione di soggezione, si prostituisce, si esprime in un esperanto ispano-anglofono con accento est-europeo, come un po’ capita nella tratta del sesso di strada. Non parla la lingua di chi l’ascolta, ma la si capisce senza sforzo.
La Cassandra di Blanco però apprendiamo ben presto essere una amante incestuosa, con una declinazione molto personale, intensa, quasi ninfomaniaca nella sfera sessuale.

foto Serena Serrani

Arrampicata su calzature di altissimo tacco, De Stefano intesse un finto dialogo con un uditorio immaginario, al quale chiede conferma della conoscenza della sua vicenda personale, rivelandone particolari sconci senza mezzi termini. La credibilità giocosa ma assai ben interpretata con cui la donna rivive se stessa nella eiezione mitologica è talmente forte che finisce per sviluppare un involontario (ma nondimeno occorso), dialogo con gli spettatori, che seppur in modo veloce rispondono a domande in tutta evidenza retoriche presenti nella drammaturgia.
Roberta Lidia De Stefano mette al servizio di questo personaggio una serie ampia di talenti, da quello mimico a quello musicale e canoro, incanalata nel senso della misura e del gioco di scena da una regia coerente (Bellingeri disegna anche scene e costumi dello spettacolo), che aiuta l’interprete a non esorbitare, a restare in un denso al-di-qua di ogni deriva macchiettistica, sebbene il confine con la maschera sia non solo indagato, ma esplicitato nel trucco con cui il personaggio si rivela all’uditorio, bianco in volto, a dichiarare proprio l’intenzione teatrale, la distanza dall’immedesimazione e dalla sovrapposizione persona-personaggio. La rappresentazione, pur restando intorno a un tema rappresentativo unico e unitario, riesce a proporre una serie interessante di sfumature e variazioni, di slittamento fra mito e presente, così come pure il sempre possibile viaggio al contrario fra presente e mito. L’operazione vale, è assai ben pensata e altrettanto ben interpretata, un gioiellino, animato anche dal dinamico gioco di luci opera di Andrea Sanson.
Le riflessioni atterrano sul tema dell’impossibilità persino per noi stessi di credere alla verità di cui siamo portatori, iscritta nel nostro destino. Ma anche all’impossibilità di sfuggirle. Kassandra è una nomade dentro il rapporto fluido che l’umano ha con la parte della conoscenza di se stesso, costruita con le azioni individuali, che permettono di transitare fra le identità, i desideri, gli istinti, spesso riflessi in quello che gli altri chiedono a noi come proiezione di sè, la comoda verità che vogliono sentirsi raccontare, e non quella scomoda e più profonda di cui non riescono a farsi ascoltatori.
Qualcosa che forse ha a che fare anche con l’amore o il non-amore che si riceve e si intende dare.

Questo tema lega Kassandra, in fin dei conti, a Il paradiso perduto, la nuova regia di Antonio Viganò con il Teatro della Ribalta, andata in scena anche questo in prima nazionale nella stessa serata.
Come noto, Teatro La Ribalta è una comunità di danzatori e “attori-di-versi”, fondata nel 2011 a Bolzano e diretta dal coreografo e regista Antonio Viganò, cui non sono mancati negli anni i meritati riconoscimenti, come il premio Ubu 2018 – progetto speciale per Otello Circus, assegnato anche a testimonianza dell’attività ultradecennale che si distingue per originalità e inventiva, oltre che per l’impegno sociale e di coinvolgimento di attori la cui espressività si incardina anche nella fragilità, e che Viganò guida con rispetto e coinvolgimento.
Il pubblico è disposto su due gradinate nel senso della lunghezza dello spazio scenico, praticamente a ridosso del rettangolo di circa sei-sette metri destinato all’azione, ai cui lati insistono due strutture cubiche a forma di casa, che fungono anche da backstage per l’innesco delle diverse azioni. All’avvio dello spettacolo una culla con dentro una piccola bambola occupa il centro della scena. Siamo di fronte al miracolo della nascita, del cuore che inizia a pulsare.
Da questa stanza di ospedale ci si sposta poco dopo in un ambiente in cui alcune donne in costumi di campagna ottocenteschi sono intente a ricucire un corpo nelle sue diverse parti, attraversate da lunghe ferite. È la nascita della creatura del dottor Frankenstein.
Il testo della Shelley, un grande classico della letteratura, viene riadattato con cura ed efficacia da Viganò, focalizzandosi su temi quali il concetto di bellezza del corpo, i limiti etici e morali della scienza, l’idea di uomo come abitante del mondo, l’accettazione e la verità di cui siamo portatori. Questa verità viene cercata nel libro, illuminato da fiammiferi che finiscono poi spenti dentro le pagine, chiuse repentinamente per dare seguito all’azione.
La creatura nata dalla mano dello scienziato non è però come il dottore se l’era immaginata e non corrisponde al modello umano desiderato al suo tempo. Se ne fa interprete un colossale Paolo Grossi, da anni prossimo con la sua attività scenica alla sensibilità della Ribalta. Incarna in modo perfetto, a tratti davvero pauroso, la dimensione asimmetrica, deforme dell’essere umano, donando a questo personaggio un respiro contemporaneo, perfomativo.
Strabilianti al suo fianco anche le altre identità del collettivo di Viganò, che oltre ad alcuni interpreti storici come i talentuosissimi Jason De Majo, Maria Magdolna Johannes, affianca l’azione di altri interpreti di pregio, come Rocco Ventura, Michael Untertrifaller, Mirenia Lonardi, Sara Menestrina, Stefania Mazzilli Muratori Rodrigo Scaggiante.
Le vicende del libro vengono riproposte con sintetica fedeltà, l’azione è sempre corale, mai esibizione, sempre riflessione anche quando rappresenta un semplice fatto. Ne risulta una lettura capace di avvincere e fare ragionamento, in cui il gesto ha frequentemente spessore simbolico di secondo livello, frutto dell’abilità del regista di costruire ambienti teatrali abitati che sono spazi di indagine e conoscenza per chi osserva. I corpi, tutti, si muovono e vengono mossi, occupano lo spazio scenico in gruppo e come singoli con ricchezza e profondità, aiutati dal disegno sonoro di Paola Guerra che crea ritmo e tensione, dalle luci di Andrea Berselli e dai costumi di Roberto Banci. Significativo anche il contributo sui corpi in scena del trucco di Giulia De Biasi.
Siamo la verità che portiamo con noi dalla nascita, pare dirci lo spettacolo, ma anche quello che di questa verità gli altri riescono ad accettare. Tanta parte del mostro, dell’inguardabile, si crea nell’occhio di chi osserva, più che nell’innato di ciascuno. Tanta parte del mostro è il riflesso di chi osserva.
Ne fa delicato e non smaccato accenno la presenza in scena di uno specchio in cui si rimira la piccola società impaurita, quella che si vede bella, normale, che crea un suo paradigma di verità, che coincide con la normalità statistica, più che con la valorizzazione del contributo soggettivo all’evolvere del sentire umano. Ed è il motivo per cui quando questa verità ci viene rivelata, siamo assai più propensi a bastonarne il portatore, lo specchio riflesso, che ad accoglierlo.
La rivelazione è sempre traumatica.

KASSANDRA

testo di Sergio Blanco
con Roberta Lidia De Stefano
regia, scene e costumi Maria Vittoria Bellingeri
disegno luci Andrea Sanson
musiche originali Roberta Lidia De Stefano
assistente Greta Bertani
foto di Serena Serrani
produzione ERT / Teatro Nazionale
durata 70 minuti
prima nazionale

 

IL PARADISO PERDUTO

di Antonio Viganò
Teatro La Ribalta
tratto da Frankenstein di Mary Shelley
testo e regia Antonio Viganò
assistente alla drammaturgia e disegno sonoro Paola Guerra
scene e costumi Roberto Banci
luci Andrea Berselli
trucco Giulia De Biasi
distribuzione Claudio Ponzana
organizzazione Martina Zambelli
con Paolo Grossi, Rocco Ventura, Michael Untertrifaller, Jason De Majo, Maria Magdolna Johannes, Mirenia Lonardi, Sara Menestrina, Stefania Mazzilli Muratori, Rodrigo Scaggiante

una produzione Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt (Bolzano/Bozen)

durata 60 minuti
prima nazionale