CHIARA AMATO | Ferdinando è una commedia di Annibale Ruccello, che il drammaturgo napoletano scrisse a soli 28 anni, nel 1985. Fu messo in scena per la prima volta il 28 febbraio 1986 al Teatro Verdi di San Severo, diretto dall’autore  e che vide come interprete Isa Danieli – a lungo sua attrice feticcio – nel ruolo di donna Clotilde, al fianco dello stesso Ruccello nel ruolo di don Catellino. L’opera ha vinto due premi IDI: uno come testo teatrale, il secondo come miglior messinscena.
La storia si può definire un noir sentimentale, in cui i quattro protagonisti incastrano le loro vicende erotiche a quelle di interesse economico derivanti dal loro status sociale.

All’Elfo Puccini di Milano il testo di Ruccello, che ha conosciuto molti allestimenti, viene ora portato in scena con la regia di Nadia Baldi, fondatrice nel 1996 della compagnia Teatro Segreto. Regista cinematografica e teatrale, Baldi già in passato si era dedicata a testi della drammaturgia napoletana, confrontandosi con il Don Chisciotte di Ruggero Cappuccio interpretato da Lello Arena e Roberto Herlitzka.
Parlando di Ferdinando, Nadia Baldi dichiarava che “contiene notevoli elementi espressivi per una realizzazione teatrale delle emozioni umane, specchiandosi nella tagliente forza di una storia che attraverso il teatro ruoti intorno al disvelamento di segreti. Ferdinando si concentra su quello che è forse il più insondabile mistero: la mente umana”.
Dalla scenografia all’interpretazione, ogni elemento rimanda a un tempo che non c’è più, ricordando atmosfere in stile Gattopardo, il celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: la vicenda nel primo atto è incentrata sulle noiose e ripetitive giornate della baronessa Clotilde, accompagnata dalla sua cameriera Gesualda e da don Catellino, con il quale intrattiene una relazione sessuale.
Il palco è colmo di elementi di arredo che creano un’atmosfera romantica e decadente. Ci sono tendaggi e strutture in bronzo come elementi separatori, quattro sedie con le ruote, cime che scendono dall’alto collegate a vassoi, bambole fatte a pezzi e uno specchio.
I costumi, ideazione di Carlo Poggioli, già parlano dei personaggi, in particolare delle due protagoniste: Gea Martire (nella parte della baronessa) sembra quasi legata al suo letto come da radici profonde, e il suo abito è letteralmente cucito sul giaciglio; mentre Chiara Baffi (Gesualda) è ingabbiata in un abito cupo, casto come se indossasse una divisa e dovesse soffocare la sua indole trasgressiva e tenace.
Il disegno luci, realizzato da N. Baldi, sostiene con il frequente cambio di cromie e calore l’evolversi della vicenda umana, i passaggi nella trama, la transizione da uno stato d’animo a quello successivo.

La riuscita è garantita soprattutto dalle due interpretazioni femminili di Martire e Baffi che non perdono mai di intensità: esplosive, cattive e profondamente infelici. Per quanto riguarda Fulvio Cauteruccio e Francesco Roccasecca riescono a risultare quasi mefistofelici soprattutto attraverso l’utilizzo di una decisa mimica facciale, quasi deformante, che li fa diventare maschere.

Il tema che spicca in questa fase è quello della lingua sia quando le due donne leggono un testo che chiamano Pusilicchiata – incentrato sulla critica all’italiano in quanto lingua imposta e scelta da un regnante invasore – sia all’arrivo di una lettera che comunica alla protagonista di essere la tutrice di un lontano nipote Ferdinando. Qui l’alternanza tra l’italiano, lingua dell’inganno, del potere, dei notai e dei medici, e il napoletano, lingua della vita, viene scandito e masticato in maniera molto netta.

Ferdinando, interpretato da Francesco Roccasecca, arriva nelle loro vite come un’anima pudica. Durante tutto lo spettacolo i versanti caratteriali rispettivamente ingenuo ed erotico del giovane ragazzo si alternano con ambiguità.

All’apertura del sipario dopo la pausa assistiamo a un cambiamento importante della scenografia con la scomparsa del letto: la baronessa è rinata, truccata e vestita. Si è innamorata e questo è detto chiaro e forte dal cambio di interpretazione dalla Martire e dall’assenza di quell’elemento scenografico che la teneva ferma nell’aspettare solo la morte. L’interpretazione è radiosa, ha perso quella acredine del primo atto, cambia il tono di voce che diventa più morbido e amorevole. Ben presto però si svelerà l’intrigo del noir: il don, interpretato da Fulvio Cauteruccio, ha una relazione con il sagrestano e Ferdinando, a sua volta, ha relazioni con la zia e Gesualda. Le loro azioni sono motivate solo da interessi economici e i due protagonisti maschili si rivelano essere impostori.

Il sesso e l’erotismo trasudano in tutto il secondo atto in cui gli attori si toccano e si baciano in modo famelico, come se volessero mangiarsi. Ogni movimento e parola d’amore è accentuato da un’interpretazione fortemente erotica.
Qui il protagonista vero paradossalmente diventa l’amore, non la ricchezza. Della violenza dell’amore si era già anticipato in altri due momenti precedenti: la rinascita della baronessa all’inizio del secondo atto dove afferma “’a carne e nu giovane fanne buono pure a ‘na vecchia” e quando in punto di morte il don afferma che non è stato il veleno a ucciderlo ma “mi ha ucciso l’amore!”. Il riferimento alla carne viene spiegato, non è solo legato al sesso ma al contatto tangibile con un essere umano, cosa che non avveniva da anni e che riporta il pubblico a considerazioni sul vissuto pandemico, ovviamente.

L’immagine finale è enfaticamente drammatica: la baronessa, mesi dopo le vicissitudini trascorse, ancora innamorata, ride, in maniera amara, dicendo “Non si chiamava neanche Ferdinando”. In quel momento cala dall’alto nuovamente una veste da malata, e la Martire la infila come se fosse, però questa volta, un destino che sta scegliendo. Ride, consapevole dell’essersi lasciata coinvolgere. Ride come una donna che in fondo poteva accorgersi prima dell’inganno e torna volontariamente alla sua condizione iniziale.
La conclusione è di una potenza visiva fortissima: l’amore provato l’ha ricondotta alla distruzione, alla malattia, alla chiusura, all’assassinio di un uomo, alla rabbia, alla risata che precede il pianto. L’interpretazione è così dolce che commuove lo spettatore per la fragilità evocata.

Nadia Baldi gioca la sua regia con buoni ritmi, nonostante le due ore e mezza di spettacolo. Traspare volutamente nelle scelte registiche l’intento di voler anche far vivere questo tedio di giornate di una nobiltà in decadenza, tutte uguali fra loro.
Restano evidenti alcune ridondanze, che pur in un clima di ossessività ripetitiva come quello dell’atmosfera ruccelliana, suonano una nota che finisce per risultare didascalica a scapito di un ritmo che invece in alcune sequenze è un punto forte dell’allestimento.

FERDINANDO

di Annibale Ruccello
regia Nadia Baldi
con Gea Martire, Chiara Baffi, Fulvio Cauteruccio, Francesco Roccasecca
costumi Carlo Poggioli
consulenza musicale Marco Betta
aiuto regia Rossella Pugliese
progetto luci Nadia Baldi
produzione Teatro Segreto

Teatro Elfo Puccini, Milano | 13 maggio 2022