ILENA AMBROSIO | Ci sono stati vari modi in cui l’arte ha affrontato le restrizioni della pandemia. Si è stati costretti a rivedere non solo gli aspetti pratici della produzione e della rappresentazione ma le istanze stesse del fare arte, del rapporto tra artisti e, soprattutto, con il pubblico.

Il Mulino di Amleto che tra i fondamenti della propria poetica pone proprio questa relazione, ha dato il via, durante i mesi più drammatici del 2020 al progetto Fahrenheit che recuperava il claim che era stato del Cantiere Ibsen #ArtNeedsTime: un’esperienza che trovava ispirazione dal celebre romanzo di Bradbury nel quale, in una dimensione apocalittica, partigiani della cultura operavano clandestinamente per salvarla dai roghi di chi tentava di annientarla.
Da quell’esperimento di lettura condivisa, nasce Dal sottosuolo – Underground – Dittico Dostoevskij, che debutta stasera nell’ambito del Torino Fringe Festival (repliche fino al 22 maggio) negli spazi di San Pietro in Vincoli Zona Teatro.

Due performance, ispirate a Delitto e Castigo e a Il grande inquisitore di Fëdor Dostoevskij: Uccideresti l’uomo grasso? e G.I. Due atti unici brevi che indagano i grandi temi dell’umanità, quali la solitudine, le scelte morali e la rinascita, rielaborati con nuovi codici espressivi da Barbara Mazzi e Francesco Gargiulo, con la supervisione di Marco Lorenzi e Alba Maria Porto e che rendono protagonisti gli spettatori, attraverso due dispositivi ludici: un gioco interattivo e un dj set tra visual art e musica elettronica.
Abbiamo incontrato virtualmente Barbara e Francesco per farci raccontare ciò che accadrà stasera.

Questo lavoro nasce senza soluzione di continuità da Fahrenheit, un progetto di salvataggio culturale iniziato nel 2020. Ci raccontate questa storia? 

BM: Fahrenheit è un progetto nato nel 2020, durante il primo lockdown perché avevamo l’esigenza di continuare a lavorare, continuare ad allenarci insieme, mantenere l’affiatamento, incontrarci, studiare. Questo non era possibile, quindi con Marco Lorenzi abbiamo pensato di lavorare su degli “assoli”, benché il monologo non sia una modalità a noi familiare. Il periodo che vivevamo ci ricordava il romanzo Fahrenheit 451 e una frase ha risuonato in noi: «Se ti chiederanno cosa facciamo tu rispondi: noi ricordiamo».
Così ognuno dei sei artisti coinvolti nella prima edizione di Fahrenheit 2020 (Francesco, Yuri, Raffaele, Roberta, Angelo ed io) ha scelto un libro da salvare, da difendere tramite la propria creazione artistica.
Non eravamo realmente soli, perché una volta a settimana ci incontravamo in remoto e clandestinamente dal vivo (“teatro corsaro” è stato definito). Poco per volta siamo arrivati alle performance finali. All’epoca potevamo incontrarci solo in remoto, pertanto abbiamo realizzato un programma televisivo “scalcinato” dal sapore underground, con sei cellulari/camere a riprendere performance in diretta e una regia live che guidava il collegamento zoom degli spettatori.
A questo nostro percorso di prove delicatamente, poco per volta si è aggiunto il pubblico. Era necessario ricostruire il tessuto culturale, ecco perché questo progetto ha sentito forte il bisogno di coinvolgere spettatori, che sono diventati partecipanti attivi, portando anche loro un libro da “salvare dal rogo”. Se l’artista poteva salvare il proprio libro con un atto creativo, lo spettatore poteva salvarlo raccontando le sue profonde motivazioni e leggendo un piccolo estratto ad alta voce.

Dopo dicembre 2020 Francesco e io, lavorando entrambi su Dostoevskij, abbiamo pensato che sarebbe stato bello farne un dittico. Ciò è rimasto nei pensieri e desideri fino a che non c’è stata l’occasione per poterlo concludere. Il Fringe Festival di Torino, che ospiterà questa seconda tappa del lavoro, il sostegno e la produzione di A.M.A. Factory (ossia una nuova struttura produttiva fondata da ACTI di Beppe Rosso e Il Mulino Di Amleto)  cui si è unito il Teatro Libero di Palermo e poi la collaborazione con la Compagnia Asterlizze: questa cordata ci ha permesso e ci permetterà di continuare il lavoro fino al 2023. A ciò si è aggiunto il bell’incontro con Ferrara Off e il Festival Bonsai, una realtà che  ci ha accolto, ancora in fase di studio.

FG: Alla domanda “quale libro salveresti?” non ho avuto dubbi. Non è vero, ero indeciso su un altro libro ma poi Delitto e Castigo mi ha chiamato. Da lì le riflessioni, poi i compiti, poi il confronto, prima con gli altri compagni di lavoro poi con gli spettatori. Poi le prime idee, il primo studio e la prima creazione. E dall’inizio della creazione il desiderio di sviluppare. Di dare forma a un qualcosa che tanto ci aveva appassionato e che non smetteva di appassionarci. Abbiamo continuato a studiare la materia. Abbiamo cercato un contesto per farlo e guidati dagli stimoli continui di Marco Lorenzi, una scelta dopo l’altro abbiamo creato Dal Sottosuolo-Underground.

Dostoevskij è narratore di grande umanità e dell’umanità. Cosa ha detto a voi di fondamentale da farvi desiderare di salvare la sua parola? 

BM: Quando ho dovuto rispondere alla domanda di Fahrenheit “quale libro salveresti dal rogo e perché?” mi sono rivolta, per motivi umani molto personali, verso Il Grande Inquisitore, capitolo quinto dei Fratelli Karamazov. Da poco era scomparso uno dei miei maestri, Bruce Myers, che ho avuto la fortuna di incontrare e seguire molto dalla Scuola dello Stabile di Torino in poi, e che ha segnato moltissimo il lavoro di Marco e del Mulino. Tutt’ora ne è punto di riferimento. Quel testo mi è arrivato come un lampo.
Ho individuato cardine del racconto la domanda “felicità o libertà?”. È una domanda che  inconsciamente mi faccio spesso: le scelte che sto facendo mi rendono più libera o più felice? Sarei in grado di scegliere diversamente?
Nel rileggere Il grande inquisitore ho trovato una grande rabbia del protagonista nei confronti di Gesù Cristo, provocata da un amore deluso. Perché Dio ha regalato all’uomo la libertà, se non è in grado usarla bene? Perché dare libertà all’uomo che sceglierà sempre il male, per sé e  per gli altri? Perché non facciamo altro che scegliere il Male?
Ecco una grande provocazione che mi smuove umanamente tutta. È una domanda, un dubbio lancinante e mi sembrava un dubbio universale; ha fatto corto circuito nel mio cuore, non potevo e non posso tenerlo dentro, deve poter uscire raffinato e sublimato. Ho pensato che potesse fare corto circuito anche negli altri. Lo penso. Lo spero. Non posso non fare di tutto per salvarlo.
Ecco perché poi ho continuato a lavorarci, a raccogliere interviste e materiale. Quindi questa performance parla di me, certo, ma parla di noi e delle scelte che spesso facciamo tra felicità e libertà senza accorgercene scegliamo una a discapito dell’altra. È un paradosso certo, ma necessario per avere consapevolezza reale della sintesi, nel senso di unione, tra felicità e libertà e al contempo della sua profonda contraddizione.

FG: Prima di tutto credo che Dostoevskij per motivi diversi abbiamo salvato me e Barbara. Quindi gli dovevamo un favore!
Dostoevskij ci accoglie. Ci parla dell’umanità come elemento capace di dare vita. Di fare esperienza di vita vera. O «vita viva» per citarlo.
Siamo in un mondo che ci rende inorriditi e forse anche un po’ indignati da un grande cinismo, un grande ego-riferimento generalizzato, una società troppo basata sul denaro e sul potere. Ne siamo dentro ma trovare un’alternativa ci ha fatto dire: raccontiamo proprio Dostoevskij.
Dostoevskij affonda nel nero. Un nero molto vicino. Una lotta continua dentro di noi tra bene e male, che tutti conosciamo. Pensieri torbidi che ci vergogniamo di aver avuto e non confesseremmo nemmeno a noi stessi. Ma è come se Dostoevskij ti dicesse: tranquillo, non sei solo. E non c’è bisogno di essere buoni o cattivi. Siamo essere umani e siamo non duali. C’è lo sprofondare e poi il rinascere. Il ritrovare la vita è una possibilità per cui lottare. O per farci uno spettacolo. O meglio uno spettacolo composto da due atti. A proposito di dualità…

Ciò che porterete in scena è qualcosa di ibrido, cui avete dato il nome “jolly” di performance. Di cosa si tratta? 

BM: Sì, la parola performance è un po’ abusata, e non si capisce mai bene che roba sia. In questo caso la usiamo un po’ per gioco e un po’ perché, essendo due atti creativi molto ibridi, che crossano  tra la musica elettronica, la prosa, la visual art, il gioco interattivo, effettivamente non sapevamo come descriverli.
Sono due esperienze artistiche, sempre in lavorazione, a cui partecipare, ecco.  È un atto creativo anni 70… no, scherzo. A volte in Italia è tutto un po’ complicato, bisogna sempre mettere un’etichetta: per una stagione, per un teatro, ma dove ti inserisco? Il pubblico che incontriamo si fa molti meno problemi di quelli che pensiamo.
Sono due atti unici brevi, fanno parte di una stesso concept, c’è una prima parte e poi una seconda parte, possono essere anche fruiti separatamente perché hanno una loro autonomia;  uniti, per noi, permettono un percorso emotivo allo spettatore.
Ecco perché il jolly della parola “performance”.

FG: Il primo atto è un gioco. Un gioco interattivo. Vecchio stile. Si procede per alzata di mano e tutti gli spettatori sono coinvolti. Ci sono premi e penitenze. Sigle e risate. Non si capisce bene se si è in teatro o da un’altra parte. Si gioca ad essere spiazzati.
Il secondo atto è un dj set di immagini, parole e musica. Con finale a sorpresa.


Il pubblico aveva una parte fondamentale nel progetto originario di Fahrenheit. Come ha segnato l’evolversi del vostro lavoro e quale ruolo gli sarà affidato durante le performance? 

Sì, ha avuto un ruolo importante perché Fahrenheit era nato come percorso anche per ricreare una comunità fondata sulla cultura, visto che la cultura sembra sempre inutile in questo paese. Era nato con quell’intento, una forte necessità interna del regista e dell’ensemble di continuare ad allenarsi, incontrarsi per parlare di cultura
Non si poteva escludere il pubblico. Ma come si ri-incontra il pubblico dopo tutto quello che è successo? Delicatamente, in modo molto intimo, ricostruendo fiducia, con piccoli appuntamenti, con poche persone che ascoltano ad alta voce, che parlano ad alta voce, che raccontano il loro libro da salvare, dunque raccontano se stessi.
Dovevamo ricreare un tessuto culturale e sociale.

A ciò si aggiunge che Francesco ed io, per i nosti lavori, avevamo bisogno di aiuto concreto e pratico perché l’atto creativo di Francesco è un gioco interattivo con una drammaturgia strutturata che coinvolge il pubblico, quindi dovevamo verificare/testare che funzionasse, necessitavamo del pubblico alle prove.
Invece il mio atto è composta da molti materiali mixati a tempo di musica elettro e post rock; tra i materiali che raccolgo ci sono alcune interviste alla cittadinanza… Il pubblico ha partecipato alle prove e lo abbiamo accolto sempre in modo molto delicato. Questa è l’eredità che abbiamo preso dal progetto Fahrenheit.

FG:Il pubblico è stato centrale dall’inizio e in modo naturale lo è rimasto anche nella forma finale delle performance. Ha stimolato il nostro lavoro, ci ha seguiti in più fasi, anche le più delicate e c’è stato un confronto costante.

Questo è un lavoro individuale, legato a quello dell’ensemble ma collaterale a esso. Cosa portate con voi del lavoro di compagnia e come la compagnia ha supportato la vostra esperienza individuale? 

BM: Entrambi siamo attori free lance quindi siamo anche coinvolti in altri progetti con colleghe, colleghi, registe o registi; frequentiamo seminari, sviluppiamo progetti altri.
Ciò detto, noi siamo stra curiosi e aperti, pronti a cambiare, a metterci in discussione, esplorare, allontanarci, tornare… dipende dal proprio percorso di vita e dalla fase che si sta vivendo, penso sia normale e sano.
Più che altro stavolta la compagnia “sostiene”, affettivamente, economicamente, con suggestioni, con consulenze… è una rete, una bella rete attivata.
In questo caso si tratta di una costola, che sta lavorando a un suo progetto coadiuvata e sostenuta dal resto della struttura. Ne siamo felici. Il lavoro di compagnia c’è, o almeno io lo sento presente, nelle scelte che facciamo, nello spiazzamento, nell’utilizzare forme che non siano fini a loro stesse, ma drammaturgicamente necessarie.

FG: Mi rendo conto che la ricerca di trasparenza e la ricerca di profondità sono due aspetti che ci portiamo dal lavoro di ensamble. Così come la fiducia nello spingersi oltre il limite. Stiamo lavorando su desideri personali ma il gruppo non lo sento lontano. Ogni tanto allontanarsi da casa stimola. 

Il nome di Dostoevskij è particolarmente significativo in questo momento storico. Sentite che la vostra scelta sia stata, con il senno di poi, anche politica? Come arriva dalle vostre performance la voce di Dostoevskij?

Eh. Dunque… se si intende “politico” per partitico, no; se si intende politico per cogliere le domande della polis, provocare la polis o interrogare la polis, fornire gli strumenti per migliorare la polis allora penso che quello sì, scorra nelle vene anche senza saperlo.
In questo caso io sono partita da una riflessione intima, personale, intorno alla felicità, alla libertà e al concetto di dolore che si è trasformata in un sentire “sociale”.
All’epoca non c’era una scelta “politica”, se non in questo senso. Attualmente ci siamo anche posti il problema se continuare il lavoro oppure no, ma non tanto per censura, quanto perché, personalmente, non cavalco le mode e non seguo il mainstream quindi tutto questo parlare intorno a Dostoevskij adesso, come se prima non esistesse, mi demoralizzava. Rischiava di ridurre tutto a polemica o moda, come spesso succede in questo paese. Rischiava di ridurre tutto all’attualità, che è fondamentale seguire e conoscere, ma non è il nostro focus. Stiamo facendo un altro percorso. Continuando a lavorare e studiare, ho creduto sempre di più nella forza di ciò che stiamo creando, anche grazie agli incontri fatti con gli spettatori che ci sono venuti a trovare o sbirciare.

Adesso c’è una direzione molto più simile al termine politico di cui parlavo prima. Non è cronaca, è condivisione umana a più livelli. Fa bene socialmente e umanamente. Ci può rendere migliori.
A volte non succede niente, esci da teatro come entri, bello, bravi… ma lo spettacolo “non passa la nottata”, come ho sentito dire proprio da alcuni spettatori. Altre volte fai un percorso: ecco io punto a quello. Posso non riuscirci, ma lavoro strenuamente per quello. Un lavoro umano. Occhi negli occhi, parola dopo parola, segno sulla scena dopo segno sulla scena.
Le parole di Dostoevskij ci sono certo, alcune, non tutte… e neppure tante, proprio perché le nostre creazioni sono forme ibride, crossano tra le arti, ma i concetti di Dostoevskij, quelli, penso proprio di poter dire che ci siano. Scavati e vissuti fino in fondo “dal sottosuolo” fino alla luce.
A una ragazza russa che è venuta proprio in questi giorni, ho chiesto se ne era rimasta delusa, perché, di fatto, ci sono poche parole di Dostoevskij; lei mi ha detto: “C’è tutto Dostoevskij e di più”. Sono stata onorata e grata e felice.
E tralascio il resto, riguardo allo stato emotivo di questo periodo storico.

FG: Inizialmente non c’era niente di politico, anche perché il progetto è iniziato nel 2020 e l’attualità era diversa.
La voce di Dostoevskij arriva in modo sorprendente. Sorprende noi per primi. Siamo partiti da un’idea centrale, una frase di Herman Hesse che dice che ascoltando le parole di Dostoevskij non siamo più semplici spettatori ma siamo fratelli capaci di cogliere la consolazione e il significato del suo mondo spaventoso e infernale.
DAL SOTTOSUOLO – UNDERGROUND

 

Dittico Dostoevskij: Atto I – Uccideresti l’uomo grasso? e Atto II – G.I.
dal progetto Fahrenheit 2020 #ArtNeedsTime ideato da Il Mulino Di Amleto
con Barbara Mazzi e Francesco Gargiulo
con la partecipazione straordinaria di Christian Di Filippo
a cura di Marco Lorenzi e Alba Maria Porto
consulenza drammaturgica Enrico Pastore
consulenza tecnica Adriano Antonucci, Giorgio Tedesco
musiche originali Elio D’Alessandro
un progetto de Il Mulino di Amleto
produzione A.M.A Factory (ACTI Teatri Indipendenti e Il Mulino di Amleto)/Teatro Libero di Palermo
in collaborazione con Asterlizze Teatro

dal 17 al 22 maggio 2022 ore 19.30
San Pietro in Vincoli Zona Teatro – Torino
Nell’ambito di Torino Fringe Festival (Torino, 7-29 Maggio 2022)