ESTER FORMATO | Ne abbiamo già scritto, recensendo “La Foresta, pluripremiato spettacolo che li vede condividere la stessa scena: Ortika e i Pesci sono parte del mondo di giovani compagnie in fermento con la voglia di rivendicare il proprio modo di stare in scena. E di questo abbiamo parlato con loro – Alice Conti, Fiorenzo Madonna ed il regista Mario De Masi – cercando di comprendere come nuovi linguaggi possano farsi strada e da quali slanci e percorsi partano.

Ortika e i Pesci, due realtà con esperienze differenti e variegate. Come possono incrociarsi e funzionare insieme due eterogeneità teatrali?

FM: L’incontro è stato  molto facile, perché pur avendo visioni e percorsi differenti,  ci è parso estremamente semplice integrarci. Alice e Mario si erano già conosciuti, tra di loro vi era compatibilità e da qui tutto si è evoluto. Il modo in cui approcciare il palcoscenico ci ha avvicinati tantissimo, e con questo mi riferisco al fatto che entrambi svolgiamo un certo lavoro sulla fisicità. A ciò va aggiunta anche la medesima passione per la drammaturgia, intesa non in modo generico ma come modo di intendere la scrittura.

AC: E con questo ci riferiamo a creare storie. Sentivamo la stessa urgenza di raccontare storie attraverso una scrittura scenica con una cifra stilistica tangibile, quindi anche riconoscibile dal pubblico. Abbiamo scoperto che sia la chiave tragicomica sia il modo in cui intendere la fisicità in scena ci appartenevano allo stesso modo. Da qui siamo partiti per quest’avventura che ha poi portato a La Foresta.

MDM:   Prima di tutto, la ragione per cui ci siamo avvicinati è stato il modo di lavorare in sala.  Ho conosciuto Alice in un laboratorio e quindi prima della fase propriamente creativa, abbiamo condiviso una fase particolare del nostro mestiere che consiste nel lavoro molto concreto che nasce da un percorso laboratoriale. Questo, ancor prima di scoprire idee o aspirazioni condivise, è stato il primo presupposto.

E infatti nel vostro spettacolo molto è affidato al corpo dei due personaggi, e dunque al lavoro di Fiorenzo e Alice. Mi viene da chiedervi, in ”La Foresta”, questa fase nasce prima o dopo rispetto alla drammaturgia vera e propria?

FM: Nel processo della creazione queste due parti si influenzano a vicenda, non c’è un prima né un dopo. Al principio quello che volevamo fare era lavorare su temi, estrapolarne poi una storia, partendo da determinate atmosfere come la festa e, appunto, la foresta. Il lavoro sulla musica, perciò, ha fatto nascere anche quello corporeo. Poi tutto è diventato simultaneo: le parole scritte si associano a un corpo, a una voce oppure il contrario: una voce emersa dal lavoro in sala ispira un pezzo di scrittura.

AC: Spesso un pezzo nasce da un corpo sottoposto a determinati stimoli; si va in sala con atmosfere o suggestioni e da qui, da un’improvvisazione, nasce qualcosa che poi si trasforma in parte della drammaturgia. Tutto è parte di un lavoro complesso che inizia da piccoli spunti – nel caso de La Foresta partivamo da un episodio realmente accaduto – ma la gran parte arriva attraverso un processo creativo molto ricco.

Avrete sicuramente recepito lo sguardo delle nuove generazioni su questo spettacolo. Qual è stata la loro chiave di lettura riguardo a “La Foresta”?

AC: A prescindere  dal  target, il nostro spettacolo si basa molto su scambio e interazione con il pubblico perché c’è molta corporeità. Talvolta non accade nulla e questo ci pone ovviamente in difficoltà.

Ma forse proprio perché portate in scena approcci e linguaggi di evidente rottura con le forme più tradizionali avete questo feedback…

AC: Sì, tant’è che a Concentrica, è avvenuto proprio che i ragazzi delle scuole abbiano manifestato entusiasmo e interesse non solo per le tematiche cui alludi, quanto per i linguaggi utilizzati in scena. Probabilmente è stato sfatato quel mito che vuole il teatro come monolitico, fortemente ancorato a forme tradizionali. E ci siamo resi conto che portare uno spettacolo come il nostro può essere un buon viatico anche per chi ha una scarsa educazione teatrale.

E infatti la scrittura di questo spettacolo è prevalentemente straniante e tragicomica, e il fatto che il dialogo si svolga fra due completi sconosciuti lascia trasparire ancora di più tali caratteristiche, in bilico fra assurdo e drammaticità.  Perché avete scelto questo tipo di scrittura e quanto tale scelta contraddistingue  in generale Ortika e i Pesci?

FM: A noi interessa portare in scena un tipo di scrittura e di cifra stilistica in grado di essere comprensibili a chiunque. Certo, possiamo pensare a diversi livelli di lettura, ma fondamentalmente è necessario che ci siano alto e basso, una mescolanza di intenti e stili che allarghino la comprensione del teatro.

MDM: Secondo me uno spettacolo come  “La foresta” arriva immediatamente perché tutto si fonda sui due personaggi che hanno influenzato la scrittura, e in particolar modo la loro vivezza. Ovviamente tutto poi è affidato agli attori e alle loro sensibilità.

Ognuno di noi può dare un diverso significato alla foresta… Cosa resta di prezioso di questo luogo così simbolico che avete scelto di mettere in scena?  

AC: Noi abbiamo cercato di analizzare la dipendenza, a prescindere da chi o da cosa, ma come concetto che si applica all’esistenza. È fame di vita, di qualcosa di puro, di perfetto che poi alla fine altro non è che una ricerca generica di se stessi.

Fra l’altro è evidente che si parli più di interdipendenza fra i due personaggi a un certo punto.

AC: Certo. Il rapporto fra i due non è altro che una ricerca estrema e totalizzante che, sì, può essere uno stupefacente ma anche un metaforico camminare nel buio nel quale ci si allontana dal mondo della città, dove tutto è scandito, a vantaggio di una dimensione nuova in cui due corpi si (ri)conoscono in un modo diverso e inedito.