CHIARA AMATO | R.A.M. è lo spettacolo diretto da Michele Mangini andato in scena per oltre due settimane al Teatro Franco Parenti di Milano che ci trasporta in un 2121 distopico e, perché no, possibile.
Questa regia è il suo esordio nel teatro di prosa, dopo il cortometraggio Onora il Padre e la Madre e la regia dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, per la stagione 2018 del Teatro Verdi di Salerno.

La scena si presenta con uno muro metallico, formato da serbatoi posizionati in serie, costeggiato ai lati da quattro video circolari in cui sono raffigurati dei cervelli umani. Al centro, stesa su un letto ricoperto da un manto erboso, Marina Rocco (nel ruolo di Cruz) avvolta in una vestaglia. Posizionati ai lati del palco due tavoli spartani in ferro e una cassettiera da ospedale.
L’intreccio della vicenda ci viene esplicitato tramite l’escamotage della voce narrante ad inizio spettacolo: infatti Cruz, la protagonista, trova degli occhiali digitali sul suo letto che le propongono la visione di un video, che lei stessa ha registrato in passato, per autoraccontarsi che si è sottoposta ad un’operazione. Questo intervento è servito ad eliminare la memoria emotiva, in quanto troppo dolorosa: in cambio di una cospicua somma di denaro la memoria stessa è stata poi ceduta agli Aumentati, componenti della classe privilegiata e ricca, che così aumentano il proprio bagaglio emozionale.
Le tematiche riportano ad un ampio filone drammaturgico sci-fi, fra i quali si ricorderà il film Se mi lasci ti cancello, in cui spesso, proprio per superare il dolore, i protagonisti non vogliono restare ancorati al vissuto del passato per avere un nuovo slancio nel proprio futuro.
Foto di Luca del Pia
In questo suo risveglio traumatico Cruz si trova di fianco la sua domestica robotica interpretata da Gabriella Franchini, personaggio che inserisce una vena di familiarità, tenerezza e forte ironia alla vicenda con le sue frequenti battute.
Ma Cruz vuole sapere. E così con l’aiuto di un medico, interpretato da Giovanni Battista Storti, e di una chat illegale con altri personaggi che hanno vissuto la sua stessa esperienza, arriva a delle mezze verità. Mezze perché fino a conclusione lo spettatore non saprà mai se sia stata infranta la membrana che separa finzione e realtà, se questi eventi siano fatti cui Cruz vuole credere pur di ricostruirsi una storia e un vissuto, o siano davvero parti della sua precedente vita.
L’opera messa in scena da Michele Mangini è una drammaturgia di Edoardo Erba, autore molto noto al pubblico teatrale, e fra le cui creazioni di maggior successo si ricordano  Maratona di New York del 1992, che fu tradotto in 17 lingue e rappresentato in tutto il mondo, e Muratori, un  allestimento del quale fu vincitore degli Olimpici del Teatro nel 2007.
Hanno uno spazio enorme in questo spettacolo i costumi e le scenografie realizzate da Michele Iodice.
Gli oggetti di scena sono posizionati sul palco in maniera fissa per poter rappresentare, a zone, tutti i luoghi in cui la protagonista si reca durante lo svolgimento della vicenda (la sua camera da letto, la sala da pranzo, lo studio del medico e il non luogo dove si incontra con una donna della chat illegale, interpretata da Irene Vetere).
I colori accesi scelti da Iodice per i costumi risaltano su una scenografia cromaticamente piatta in cui gli unici elementi che spiccano sono il manto erboso del letto di Cruz e gli inserimenti video. Inoltre i materiali utilizzati, la plastica e i gioielli creati da SO-LE Studio arricchiscono anche i costumi più semplici per rimandare alla dimensione futuristica.
Foto di Luca Del Pia
Proprio gli elementi video, realizzati da Alessandro Papa, intervengono durante tutta la durata dello spettacolo: integrano la scenografia, come nel caso dei cervelli all’inizio ai lati del palco, le proiezioni di fasci luminosi e colorati sulla parete metallica sullo sfondo e soprattutto  l’ingresso nella vicenda di personaggi dal tratto immateriale.
Infatti, tranne la Vetere, che poi appare in scena in quanto condivide con la protagonista un flirt amoroso, per donarle dei nuovi ricordi per la sua nuova vita, Angelo Curti, Adriano Falivene e Marco Montecatino appaiono solo a distanza. Loro formano un gruppo di ascolto illegale e si confrontano sulle esperienze vissute dopo la cancellazione della memoria. In questo trio di figure molto diverse, il personaggio interpretato da Falivene conquista il pubblico con i suoi toni dissacranti circa le condizioni di vita cui si sono auto-condannati, rischiando le numerose truffe a cui si è soggetti non ricordando chi si è stati: temi che suonano grotteschi quanto attuali nel passaggio dalla società delle cose a quella delle informazioni che stiamo vivendo.
Foto di Luca del Pia
Se la drammaturgia funziona in questa tessitura empatica con la platea, in altri momenti, invero frequenti, scivola in una serie di proposizioni di sapore un pò generalista: massime sulla vita, sui sentimenti, che culminano nel monologo finale.
Soffre di questo in particolare il personaggio della Vetere che lascia un ulteriore “testamento video” alla protagonista Cruz, per dirle che ha nuovamente cancellato la sua memoria, e che “noi delle bugie abbiamo bisogno per vivere, sono le bugie che ci tengono al mondo…viviamo di storie e quelle storie le chiameremo speranza”.
Proprio sul tema della speranza, e sulle note di Don’t be scared, I love you di Bill Ryder-Jones, Cruz accetta di darsi una possibilità nella relazione con un uomo (di cui è interprete un valido Alberto Onofrietti), suo amante del passato: la donna scende in platea accarezzando volti e abbracciando una maschera del teatro, in piedi, sotto un cono di luce calda e fioca. Un passaggio che ha emozionato  il pubblico del Parenti e su cui si chiude la recita.
Lo stile recitativo che la regia chiede agli interpreti di fare propria oscilla fra due toni principali: dall’autoironia sulla propria condizione trans-umana che coinvolge tutti i personaggi, e in particolare quelli interpretati con grande precisione dalla Franchini e da Battista Storti, attraverso una marcata fisicità robotica e a scatti, al pathos rabbioso e sopra le righe di chi si è auto-privato di un bene così raro come la memoria del proprio vissuto.
Spesso i toni sono accesi, l’uso continuo di turpiloquio alimenta liti e picchi di tensione. Il sentimento predominante nei personaggi interpretati da Rocco, Vetere, Onofrietti e Falivene, è l’odio per sé stessi, riversato sul prossimo.
Il finale infatti rappresenta proprio la catarsi per la protagonista, che trasforma questa energia negativa, espressa durante l’intera rappresentazione, in dolcezza e apertura al presente: abbassa i toni, sorride, abbraccia la sua robot-cameriera che ha sempre trattato con disprezzo, fino al ricongiumento con l’altro (in questo caso interpretato in senso ampio dal pubblico), per tornare dentro una accogliente dimensione di empatia umana.
R.E.M.
drammaturgia Edoardo Erba
regia Michele Mangini
con Marina Rocco, Gabriella Franchini, Alberto Onofrietti, Giovanni Battista Storti e Irene Vetere
e in video Angelo Curti, Adriano Falivene e Marco Montecatino
scene e costumi Michele Iodice
luci Pasquale Mari
video Alessandro Papa
sound effects Lorenzo Pasquotti, Federico Casiraghi, Giovanni Sirtori
assistente alla regia Luca De Lorenzo
assistente scene e costumi Giorgia Lauro
produzione Teatro Franco Parenti / Goldenart
gioielli SO-LE Studio
Teatro Franco Parenti, Milano | 30 giugno 2022