CAMILLA TESTORI* | L’11 e il 12 ottobre scorsi è andato in scena al Teatro Astra di Torino l’ultimo spettacolo de El Conde de Torrefiel, nel contesto dell’annuale Festival delle Colline Torinesi.
Come già sperimentato in precedenti lavori (La Plaza, 2018) la compagnia, fondata nel 2010 da Pablo Gisberg e Tanya Beleyer, tende a riflettere sul concetto di realtà; secondo gli artisti questo elemento così tanto evocato è ormai sventrato e svuotato di un vero e proprio significato. Se nel teatro, infatti, tutto, scena, colori e suoni, appaiono così realistici da pensare che siano veri, come possiamo essere sicuri che quello che troviamo all’esterno non sia in fondo finzione?

El Conde de Torrefiel mira dunque a esplorare con il proprio segno scenico la cosiddetta “écriture du plateau”, ovvero riflettere sul potere del teatro in un’esistenza satura di immagini.
Attraverso il testo, portato in scena con ampio ricorso a visual art e gesto performativo, Una imagen interior traghetta lo spettatore in un viaggio ipnotico e sconcertante. La combinazione di stimoli visivi e sonori forma via via un mix straniante, contraddittorio così come è la nostra percezione del mondo, eterna lotta tra il dialogo interiore di ognuno e il mondo presente all’esterno.
Lo spettacolo si apre con un telo per terra e due tecnici che ci girano attorno, che lavorano per issarlo e stenderlo sullo sfondo. La narrazione avviene in prima persona, attraverso uno schermo sospeso dove vengono trasmesse parole, frasi, i pensieri più privati di una persona che osserva la scena e restituisce al pubblico le sue intime elucubrazioni a riguardo. Il testo, opera di Pablo Gisberg, uno ”stream of consciousness” digitale, fa emergere riflessioni, riecheggiare dubbi e sofferenze condivise, collegamenti dormienti e domande senza risposta.
Si comprende come il lavoro dei due co-fondatori si intersechi abilmente nelle loro creazioni, unendo i rispettivi background. Pablo Gisbert, laureato in Filosofia all’Università di Valencia e poi in Drammaturgia a Madrid, è un drammaturgo premiato per i suoi testi (National Accesit prize Marqués de Bradomín e Premio Sebastià Guasch de Barcelona lavorando insieme a la Veronal) e selezionato nel 2013 per la piattaforma di drammaturgia europea Fabulamundi: playwriting europe. Utilizza una complessità del linguaggio in grado di dare forma ai pensieri e alle immagini astratte, nell’ottica di esplorare le potenzialità dell’arte scenica nel rappresentare la società e la politica che la animano nelle sue continue trasformazioni. Tanya Beleyer è invece in origine attrice di teatro di prosa, orientatasi in seguito soprattutto verso danza e performance; collabora tra gli altri con La Ribot, Xavier Le Roy e Romeo Castellucci, oltre a seguire in veste di drammaturga diversi progetti di danza, tra cui quelli dell’artista Eugènie Rebetez. La sua singolare ricerca estetica è improntata alla coniugazione tra arte plastica, coreografia e letteratura, in una pozione esplosiva.

Tutto inizia di fronte a un quadro appeso, un telo di plastica bianco composto di materia pittorica disposta con schizzi colorati, casuali ma in qualche modo simmetrici. Di fronte ad esso passano i personaggi, ognuno nel suo mondo e ognuno impegnato in una conversazione ininterrotta e afona, che fa muovere loro le labbra incessantemente senza emettere suono, come a rappresentare i pensieri che, ingombranti, impegnano perennemente la nostra testa in un infinito dialogo autoreferenziale. La luce, indirizzata all’opera in mostra, la musica di sottofondo e i costumi casual degli avventori riportano all’atmosfera raccolta e sospesa tipica dei musei. Alcuni fissano il quadro per un tempo infinito, immergendocisi; altri scherzano, chiacchierano, lo sorvolano. La verità, se di verità si può parlare, è che quella non sia che una copia dell’originale, conservata in un luogo protetto. Ciononostante, è in grado di suscitare nello spettatore le stesse sensazioni, come un placebo esperienziale. A chiusura, con il palcoscenico sgombro, diversi led colorati illuminano il quadro, animadolo con effetti psichedelici al tempo stesso magnetici e difficili da sostenere per la loro intensità. La musica, coerentemente al contesto, crea un ambiente intangibile e forse un po’ opprimente.

A questa prima scena segue la seconda, ambientata in un supermercato laccato di teli di plastica rossa sullo sfondo e sui pavimenti. Qui i clienti girovagano senza meta, spersi e scollegati, indossando occhiali da sole, immersi in una musica malinconica e un po’ gracchiante, come trasmessa da altoparlanti. Nelle poche interazioni presenti, si relazionano come alieni di pianeti differenti. Un’influencer parla della sua vita, schiava delle attenzioni degli altri, per poi trasformare la sua oppressione in un urlo di dolore straziante.
L’occhio narratore riflette sulla necessità e sull’impellenza che affliggono il nostro tempo: il bisogno di riempirsi la vita, l’ansia di programmare ossessivamente ogni minuto. Tutto, alla fine dei conti, per dare una prova della nostra esistenza, per essere riconosciuti e infine tentare di sfuggire al pensiero assillante della morte.

Quest’idea di strabordanza, di sovraccarico, è resa compiutamente nella scena in cui, telecomandati, alcuni robot spuntano dalle quinte e si muovono sullo spazio. Disegnati da Josè Brotons Pla, sembrano ammassi di cordoni rosacei, masse intestinali ingarbugliate o cervella erranti nello spazio, appesantite e grevi. In questo caso lo schermo è assente, ci lascia soli con i nostri pensieri, carichi delle suggestioni delle scene precedenti, creando uno spazio per processarle.

Il cerchio si chiude con alcune immagini mistiche: un falò dark attorno ad un pannello luminoso, alcuni amici che danzano in cerchio solennemente per mano, la discesa di un oggetto ovoidale e dorato dal cielo, ricevuto come un simulacro. E infine il funerale di un ragazzo, durante il quale i suoi amici decidono di unirsi per creare qualcosa insieme. Come parte di un rito propiziatorio iniziano a spruzzare colore su un telo di plastica bianco, giocano con le tinte e la pressione sui tubetti in un climax di creatività e rapimento, fino a creare una trama casuale. Il reticolo multicolore opera di live painting, piegato in parti uguali, darà luogo al dipinto rupestre di partenza, di cui ci si chiedeve l’origine.

Al ripristino della scena di partenza con cui lo spettacolo termina quasi in un ritorno ciclico, con i tecnici e il dipinto sul pavimento, la sensazione che lascia Una imagen interior dopo la chiusura del sipario è quella di aver vissuto un sogno, un rimescolio di realtà parallele nella durata di un battito d’occhio. La scenografia surreale, le musiche che abbracciano un ventaglio sonoro che va dall’ambient al post-rock, lo stratagemma narrativo dello schermo al posto della parola -gli attori, in effetti, non proferiscono mai verbo- creano un distacco tale dalla realtà da generare una specie di risacca, dove lo spazio e il tempo sembrano fermarsi. Ed è nella capacità di creare questo spiraglio, potenza dell’opera, che il testo permette di aprire la mente dello spettatore a riflessioni e percezioni normalmente non così accessibili. Nella sensazione di sentirmi essere umano in balìa, ho infine ritrovato un’individualità consapevole.

UNA IMAGEN INTERIOR

Ideazione e creazione El Conde de Torrefiel
Con la collaborazione artistica di Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
Testo Pablo Gisbert
Interpreti Gloria March, Julian Hackenberg, Mauro Molina, David Mallols, Anais Domènech
Scene e costumi Maria Alejandre e Estel Cristia
Scultura Mireia Donat Melùs
Robot design Josè Brotons Pla
Macchinista Miguel Pellejero
Disegno luci Manoly Rubio Garcìa
Sound design Rebecca Praga, Uriel Ireland
Scenografia Diego Sànchez, Los Reyes del Mambo, Isaac Torres, Miguel Pellejero
Coordinamento tecnico Isaac Torres
Tecnico del suono Uriel Ireland
Tecnico luci tournèè Roberto Baldinelli
Traduzione Marion Cousin, Martin Orti, Nika Blazer, Alyssia Sebes
Amministrazione Haizea Arrizabalaga
Produzione esecutiva CIELO DRIVE
Distribuzione Caravan Production, Brussels

Festival delle Colline Torinesi | Teatro Astra – 12 ottobre 2022

 

* PRIMAVERA PAC è il progetto ideato da PAC Paneacquaculture in collaborazione con docenti e università italiane per permettere la formazione di nuove generazioni attive nella critica dei linguaggi dell’arte dal vivo. Il gruppo di lavoro di Pac accoglie sul sito le recensioni di questi giovani scrittori seguendone la formazione e il percorso di crescita nella pratica della scrittura critica.