EUGENIO MIRONE | Un alveare è un microcosmo dominato da regole ben precise, le api, infatti, hanno un incrollabile chiarezza di scopo: l’ape regina deve garantire il futuro della specie, i fuchi hanno il compito di fecondarla mentre alle operaie compete tutto ciò che riguarda la cura dell’alveare. Nella condizione diametralmente opposta si trova l’uomo: la sua natura consiste nel non possedere una natura specifica e, dotato di libero arbitrio, vive in un universo di estensione infinita governato da leggi ancora non del tutto chiare. Per dirla con le parole di Andrei Linde, fisico dell’Università di Stanford: «La realtà esiste indipendentemente da noi e la nostra comprensione di essa non è ancora completa».
Ad ogni modo è in questa realtà che l’umanità si è sviluppata, in questa “casa” ogni giorno, sin dall’alba dei tempi, l’uomo sceglie di compiere azioni e di vivere la propria vita. È ciò che han fatto re e faraoni, è ciò che fanno influencer e impiegati, come è anche ciò che compiono Elena Lietti e Pietro Micci in Costellazioni, spettacolo in cui il regista Raphael Tobia Vogel torna a far dialogare drammaturgia e scienza dopo il convincente esperimento di Marjorie Prime. Il testo che mette in scena una storia d’amore inscritta nella fisica quantistica è l’opera che ha consacrato il successo del giovane drammaturgo inglese Nick Payne. La pièce non è adatta a chi soffre di FOBO, la paura di prendere decisioni per timore delle infinite alternative possibili.

Multiverso è il termine che gli scienziati usano per descrivere l’idea che al di là dell’universo osservabile possano esistere anche altri universi. In virtù di questa teoria – che ancora non trova tutto il mondo scientifico concorde – infinite sarebbero anche le versioni di una stessa storia. Su questo concetto affascinante si basa la drammaturgia di Costellazioni, testo che narra la storia d’amore tra un apicoltore che aspira a una vita schematica come quella delle api e una cosmologa che invece desidererebbe ottenere la libertà di decidere se porre fine alle sofferenze causate da un tumore al cervello.
La forma dello spettacolo riflette la sostanza del presupposto scientifico su cui è basato; il risultato è una struttura temporale mista fortemente debitrice  delle tecniche narrative cinematografiche per le quali è diventato famoso il regista britannico Christopher Nolan. Due sono, infatti, le direttrici della trama. Innanzitutto, bisogna fare i conti con il multiverso: ogni momento della storia che si sviluppa dall’innamoramento fino al matrimonio, una volta concluso, viene ripetuto in numerose delle possibili varianti. Possono cambiare solo sfumature oppure la situazione può essere completamente ribaltata, come nella scena del tradimento in cui in un caso tradisce lei, in un altro il fedifrago è lui.
In questa infinita galassia di avvenimenti una sequenza ristabilisce il tempo lineare, come una freccia che sottende tutta la pièce dal principio fino alla fine. Si tratta del toccante momento in cui lei sembra aver deciso di ricorrere all’eutanasia. La scena ricalca l’impostazione de “Il bacio” di Klimt: i due attori in piedi in mezzo al palco si abbracciano mentre una luce dorata dal fondo disegna i contorni delle loro sagome. Anche in questo caso due sono le particolarità nel modo di presentazione: la sequenza è frazionata in piccoli segmenti disseminati lungo lo svolgersi della storia e disposti in senso cronologico inverso, dalla fine all’inizio. In questo modo, solamente quando la scena viene presentata nella sua interezza, a conclusione dello spettacolo, è possibile riavvolgerne il nastro.
Nemmeno il tempo di fruizione è esente dalle dinamiche cronologiche, perché, una volta che il cervello dello spettatore accetta di prendere parte al gioco temporale, anche il tempo effettivo subisce delle contorsioni. Alla fine, per alcuni sembrano passate ore, per altri solo qualche decina di minuti.

L’immagine dualistica ritorna utile, due infatti soni i fuochi attorno a cui ruota l’ellisse dell’opera: la gestione dello spazio scenico e il light design curato da Paolo Casati. Nella sala A del Teatro Parenti di Milano la scenografia luminosa di Nicolas Bovey ridisegna lo spazio a pianta centrale. Al centro si trova un parallelepipedo di colore nero lucido e con il pavimento riflettente, su di esso i due attori vivono la loro storia. Gli spettatori invece sono collocati su due gradinate speculari, è un gioco di sguardi dove i punti di vista si moltiplicano.
Fasci di luce fendono lo spazio immerso nel buio e creano architetture celesti tridimensionali. Prendono così forma cattedrali luminose, pilastri e reticolati che ricreano le geometrie e le linee dell’immaginario cinematografico fantascientifico, da 2001: Odissea nello spazio a Tron.
Serratissimo è anche il ritmo dettato dalla regia di Vogel, influenzata dall’esperienza del regista nell’ottava arte. La vicenda scorre nonostante la sua cervellotica struttura anche grazie all’assenza di preziosismi superflui. In questa sala degli specchi le situazioni e i sentimenti si riflettono all’infinito.
Complicata è la prova dei due attori, Elena Lietti e Pietro Micci, chiamati a confrontarsi con le molteplici versioni dei loro personaggi. È un po’ come durante le prove, quando si lavora continuamente sulla stessa scena aggiungendo ogni volta una o più variabili alla ricerca della forma perfetta. La difficoltà consiste nel fissare le varianti che un attore, per natura, conosce solamente nel suo immaginario. A entrambi si riconosce il merito di aver saputo esplorare ogni gamma possibile della recitazione in maniera credibile, senza cedere alla tentazione di virtuosismi fini a sé stessi.

Con Costellazioni, Raphael Tobia Vogel torna a lavorare su un autore forestiero, dopo l’americano Jordan Harrison. Egli propone una riflessione su un tema suggestivo tratto di nuovo dal mondo scientifico e lo fa scegliendo un cavallo vincente della drammaturgia anglosassone, in grado di intercettare la fantasia e lo stupore del pubblico.
Come lo scienziato intransigente fa rientrare la teoria delle del multiverso nell’alveo delle elucubrazioni filosofiche al limite della pseudoscienza, così anche il critico bacchettone potrebbe accusare operazioni di tal genere di puntare esclusivamente sulla capacità del pubblico di lasciarsi impressionare. Non sta qui decidere chi abbia ragione e chi abbia torto. Ma se anche fosse, interesserebbe relativamente perché ciò che conta è qualcos’altro.
Fintanto che l’uomo continuerà a interrogarsi sul senso della sua esistenza, non smetteremo di modificare le nostre città, di scrivere libri, di tracciare segni su una tela, di rovesciare governi politici o cambiare sistemi economici. Alla fine, poco importa se «siamo solo particelle governate da leggi molto specifiche che di noi fanno un po’ quel cazzo che vogliono»; forse raccontando una storia, la nostra storia, abbiamo già abbattuto distanze siderali e messo in connessione mondi distanti. Probabilmente, però, ce ne accorgeremo soltanto se mai entreremo in contatto con altre forme di vita o quando rincontreremo noi stessi.

COSTELLAZIONI

di Nick Payne
traduzione Matteo Colombo
regia Raphael Tobia Vogel
con Elena Lietti e Pietro Micci
scene e costumi Nicolas Bovey
luci Paolo Casati
assistente alla regia Beatrice Cazzaro
macchinista Marco Pirola
fonico Martino Minzoni
scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti
produzione Teatro Franco Parenti / TPE – Teatro Piemonte Europa

Teatro Franco Parenti, Milano | 17 novembre 2022