ELENA SCOLARI | Il teatro borghese si svolge nei salotti. Borghesi anch’essi, ça va sans dire. Si fa molto salotto perché poco altro avevano da fare i personaggi o comunque lo facevano fuori scena. Camere da letto e cucine sono a volte nominate, ma non sono gli ambienti che abitano teatralmente le figure, sempre irrisolte, spesso inani, a volte ignave e irrimediabilmente infelici che ciondolano tra divani, poltrone e scrittoi, occupando il proprio tempo ad avvolgersi in spirali d’aria viziata che – puntualmente – porteranno a peggiorare la situazione.
Il salotto in cui Liv Ferracchiati colloca HEDDA. GABLER. come una pistola carica è fatto di cartone (bella scenografia di Giuseppe Stellato), un po’ come le poltrone del talk show Dimartedì condotto da Giovanni Floris. Azzardiamo qualche interpretazione che vada oltre il design cool perché fatto di materiali poveri: il primo livello ci mostra che il cartone ha un colore caldo, rende gli arredi giocosi e antirealistici; il secondo livello ci dice che si è voluto spogliare la mobilia della pesantezza intrinseca a legni e velluti (quindi via quello strato di polvere borghese), e soprattutto ci svela la caducità delle situazioni: il cartone brucia in un attimo, in un attimo il benessere sparisce e la finzione distrutta svela il vuoto sostenuto da complementi effimeri.

Lo spettacolo inizia con un (finto) prologo in cui Ferracchiati – quasi sempre sospeso e tentennante –  si presenta come Ejlert Løvborg, cittadino di Oslo nel 1890, anni 33, e dichiara che applicherà il metodo dell’autofinzione. Ahia. Sì, perché anche se immediatamente cerca di auto-prendersi in giro, dicendo che ormai l’autofinzione la usano tutti (chi scrive ha già espresso le proprie perplessità in merito, soprattutto in riferimento a Sergio Blanco, che se ne proclama surrettiziamente l’inventore), prosegue su questa strada costruendo un macchinoso e stucchevole ingranaggio in cui non solo i personaggi entrano ed escono dalle maglie della trama ibseniana, ma – continuamente – lo dicono e (esattamente come avveniva in Zoo di Blanco) ne discettano a beneficio della platea. Che sonno.

Hedda Gabler foto ©Masiar Pasquali

I costumi di Gianluca Sbicca sono belli, soprattutto quelli femminili che ricordano l’epoca discretamente e con eleganza; si mescola il registro moderno con le Adidas ai piedi.

Il punto dell’autore, che ha inteso riscrivere Hedda Gabler (da valutare se ce ne fosse il bisogno), è indagare la relazione tra arte e vita e interrogarsi sulle lotta alle convenzioni sociali – borghesi o meno – che ancora anestetizzano la natura umana e condizionano chi cerca di combatterle. E chi cerca di combatterle? Anche Ferracchiati stesso che impersona l’accademico Ejlert Løvborg (vero protagonista) e riscrive il brillante manoscritto che nell’opera originale avrebbe potuto dare la gloria all’intellettuale norvegese. Lo stralcio del manoscritto che viene letto è una dissertazione autoelogiativa della propria capacità di scrittura incentrata sul concetto di identità, manco a dirlo. Ferracchiati ha percorso una strada di transizione di genere e a questo piega il fulcro del lavoro: «Io mi colloco sull’orlo e sono il mostro. O tutti abbiamo un’identità oppure non esiste nessuna identità».
Quando si guarda dentro un cannocchiale messo al contrario si vede il mondo piccino piccino e se qualcuno si metterà all’altro capo vedrà invece te ingigantito e unico occupante dello spazio visivo. Quel qualcuno allora ti deve dire di rigirare il cannocchiale, altrimenti ti si rovinerà la vista.
E invece, tutti i personaggi sguazzano in questa idea e propongono al regista/autore – nel fuori dal dramma – di inserire linee narrative ognuno sul proprio personaggio introducendo elementi autobiografici degli attori.
L’effetto di tutto questo entrare e uscire, molto meglio gestito in Platonov, la tragedia è finita, risulta complessivamente lezioso, ottenendo di ottundere la leggibilità della struttura dello spettacolo. Con la scusa di raccontare qualcosa di vero, si monta un meccano più artificioso della “semplice” finzione teatrale.
Si creano anche situazioni divertenti che il pubblico mostra di gradire, è vero, perché non manca l’ironia sull’ingovernabilità degli attori/personaggi e sull’imbarazzo del regista che li deve riportare alla linea estetica scelta.

Hedda Gabler foto ©Masiar Pasquali

Hedda Gabler (Petra Valentini, coerentemente decisa, ma un poco troppo insolente) è una donna atipica, anticonformista nell’animo benché – come molte altre figure femminili teatrali e letterarie – abbia deciso di sposare un uomo che non ama per convenienza economica, Jørgen Tesman (Francesco Alberici), cui è stata promessa una cattedra che, invece, si troverà a dover contendere proprio con il geniale Løvborg, amico intimo della donna negli anni di gioventù.
La questione del manoscritto di cui sopra diventa centrale quando lo stesso (steso in un’unica copia) verrà smarrito dall’autore durante una notte di bagordi, Tesman lo ritrova e lo consegna alla moglie. Løvborg è ignaro del ritrovamento e viene sostenuto da Hedda nel proposito di suicidio manifestato, la donna gli regala infatti una delle sue pistole (che fatalmente verrà utilizzata) e nel frattempo brucerà lo scritto nella stufa. L’accademico muore, ma non pone fine ai suoi giorni con un glorioso gesto di libertà, bensì per un probabile incidente tutt’altro che onorevole. Qui si inserisce un aspetto “giuridico” meschino perché il giudice Brack (un efficace e sarcastico Antonio Zavatteri) che frequentava casa Tesman con intenti seduttivi nei confronti di Hedda, paventa lo scandalo, minacciando di spifferare che l’arma del suicidio era stata da lei fornita, e così sarà la fatale Gabler a compiere il gesto coraggioso e definitivo di uccidersi.
Questo è il finale di Ibsen, ma non è il finale di Ferracchiati, che chiude il suo lavoro uscendo un’ultima volta dall’opera per parlare con Valentini, dopo aver osservato l’andamento dei fatti, allontanatisi da lui anche fisicamente, perché la scena mobile è indietreggiata, spostandosi dal centro verso il fondo dell’arena del Teatro Studio.

Hedda Gabler foto ©Masiar Pasquali

Il sottotitolo come una pistola carica, oltre che alle armi vere e propriesi riferisce allo stato permanente “in potenza” dei personaggi: tutti si lasciano sfuggire via la vita, Hedda la ha attraversata solo per un po’ – «Ho ballato troppo e ho finto per stancarmi» – e per il resto si sta annoiando «fino a consumare la vita»; la convincente Julle Tesman di Renata Palminiello, zia di Jørgen, non ha altro piacere se non «spianare la strada al nipote»; Alice Spisa interpreta Thea Elvsted, invaghita di Løvborg e sua assistente nella stesura del testo capolavoro, non ha un vero profilo personale e rimane sempre “accessoria”; il Tesman di Alberici è un po’ succube di zia e non arriva a definirsi, nemmeno nello stile recitativo; ambiziosa e poco incisiva la scelta di inserire Irene, personaggio di un altro testo di Ibsen (Quando noi morti ci destiamo), interpretata da Giulia Mazzarino che, senza colpa, si trova in un ruolo che abbisognerebbe una maggior maturità recitativa.
La coppia Ferracchiati/Valentini – Løvborg/Gabler rappresenta il binomio arte/vita declinato anche secondo la relazione regista/attrice, passando per il rapporto complice tra lo studioso e la signora che fanno la stessa fine, drammaturgicamente parlando.

In fondo la stufa di ghisa nera accoglie la morte più significativa di tutto lo spettacolo, quella dell’opera: l’arte soccombe all’artefatto, come l’agire in potenza dei personaggi perde contro l’atto, mancato.

 

HEDDA.
GABLER.
come una pistola carica

uno spettacolo di Liv Ferracchiati, con scene tratte da Hedda Gabler di Henrik Ibsen
traduzione Andrea Meregalli
dramaturg di scena Piera Mungiguerra
aiuto regia Anna Zanetti
scene Giuseppe Stellato
costumi Gianluca Sbicca
luci Emiliano Austeri
suono spallarossa
consulenza letteraria Andrea Meregalli
lettore collaboratore Emilia Soldati
con (in ordine alfabetico) Francesco Alberici, Liv Ferracchiati, Giulia Mazzarino, Renata Palminiello, Alice Spisa, Petra Valentini, Antonio Zavatteri
foto di scena Masiar Pasquali
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

17 dicembre 2022
Teatro Studio Melato, Milano