LAURA NOVELLI | Maglia e pantaloni neri, giacca bianca, i passi sommessi di sempre, la voce naturale ma incisiva, lo sguardo luminoso, a tratti vagamente malinconico. Saverio La Ruina arriva in scena, nella sua scena, con la levità di un fabulatore antico. Al bando maschere, artifici, travestimenti. Di fronte al commuovente racconto autobiografico messo insieme nel monologo Via del Popolo, l’attore e autore calabrese (diversi premi prestigiosi in curriculum per lavori memorabili quali, tra gli altri, Dissonorata – Delitto d’onore in Calabria, La Borto, Italianesi, Masculi e Fiàmmina) è semplicemente sé stesso. Sua è d’altronde la storia evocata qui. Suoi i ricordi, i legami affettivi, gli aneddoti, le emozioni, le parole che compongono le maglie di una scrittura viva, in costante bilico tra dialetto e italiano, dialogo e narrazione, pathos e ironia, vicenda personale e sguardo collettivo.
E non potrebbe essere diversamente visto che la Via del titolo è una strada reale, concreta, quella dove La Ruina è cresciuto, ha giocato, studiato, lavorato, vissuto. E dove vive tutt’ora. Un luogo intimo dunque. Che al contempo si impone come il cuore pulsante di una cittadina del Sud, Castrovillari, che dagli anni ’60 ad oggi ha visto la sua fisionomia trasformarsi, cambiare, morire e rinascere profondamente mutata: un’intera comunità vibra dunque in questo affondo sociale dove tutti possiamo ritrovare qualcosa di noi.

Non è un caso, d’altronde, che la pièce (vista al TeatroBasilica di Roma e ora in tournée) si apra con una passeggiata nel cimitero locale: «Con un amico d’infanzia, quando torno al paese, facciamo sempre una passeggiata al cimitero. Ci piace prendere un viottolo senza sapere chi ci trovi. Tanto, dove vai vai, in un cimitero trovi sempre qualcosa di interessante. Passando davanti alle fotografie dei morti, Tonino, ch’è una persona spiritosa, comincia: – “Guà guà, Savè, t’u ricòrdisi a quistu?”. Appena vediamo la foto di uno che conosciamo, vummm… si apre un pezzo del nostro passato. Dopo una serie di t’u ricòrdisi a quistu, Tonino si ferma davanti a una foto e senza dire niente, prende la rincorsa e puuuu, ci sputa sopra, ma una sputazzata enorme, che la foto manco si vede più. – “Ma chi cazzu fai, Tonì?”, gli dico».

Ed ecco che, come in un viaggio di foscoliana memoria, i “sepolcri” dei compaesani defunti diventano trampolini rivolti verso il passato; pretesti affettivi per ricordare e, ancor più, per raccontare. Ma il racconto, muovendo da una drammaturgia di magistrale raffinatezza tecnica, slitta continuamente da un piano all’altro, dall’allora all’oggi, dall’udito alla vista: ciò che l’attore dice – con quel suo stile semplice, persino scivoloso, eppure cadenzato e ritmico; stile che qui sembra trovare una dolcezza nuova rispetto a precedenti prove, complici la frequente “traduzione” dei dialoghi scritti in dialetto calabrese e i sorrisi che regalano levità all’ordito dell’interpretazione – diventa immagine, scena nella scena, visione quasi cinematografica capace di costruire mondi nei diversi mondi degli spettatori.

Foto di Carlo Maradei

Ogni slittamento torna poi al suo punto di partenza, intercetta la coerenza di una scrittura che dal biografico – difficile, d’altronde, non immaginare questo lavoro essenzialmente come un viaggio di formazione e di riappropriazione identitaria – curva verso una più ampia riflessione sui cambiamenti sociali di un’Italia (e di un Meridione) forse lontana ormai dallo spirito di sacrificio postbellico e dalla matrice “umanistica” del successivo boom economico ma ancora capace di tenersi strenuamente in bilico tra passato e presente.
Motivo per cui le lapidi dell’incipit, alluse scenicamente in modo molto lineare attraverso una geometrica disposizione di lumicini poggiati a terra (allestimento a cura di Giovanni Spina), segnano e demarcano questo passaggio trasformandosi esse stesse in memoria attiva, presente. La prossimità con la morte finisce così col caricarsi di suggestioni personali, ora allegre, ora dolorose, ora nostalgiche, declinate sempre con compostezza e rispetto, che trovano la loro acme emotiva nel ricordo dell’anziano padre Vincenzo, splendida figura centrale dell’intero lavoro: «Passando da un morto all’altro arriviamo… a papà. Davanti alla sua lapide ci sono sempre fiori freschi, anche quando mamma non può. Sono per le lapidi più in alto, ma siccome quella di papà è la prima in basso, pare che i fiori li abbiano portati apposta per lui. E mi ricordo il momento ch’è venuto a mancare. Qualche giorno prima gli avevo chiesto: – “Papà, cumi ti sèntisi?” E lui m’ha risposto: – “Cumi a na frunna ncapu a l’albiru”. “Come una foglia sull’albero”. – “Allura, m’agghia mitti d’accordo c’u vìantu”, gli ho detto».

Nella relazione con questo uomo dai modi severi ma dall’animo dolce e sapiente, Saverio/attore è ancora più tenero. Qualcosa di antico, di rituale, una sorta di reminiscenza verghiana lo attraversa mentre il suo amore filiale si appunta a quel dialetto vigoroso e mitologico con cui racconta episodi quali la rasatura della barba, la ricerca notturna del genitore smarritosi in campagna.
Questo padre/albero è il cuore drammaturgico del testo. Fu lui, d’altronde, a far trasferire la famiglia, su profetica insistenza del fratello Nicola, da un piccolo centro montano del Pollino a Castrovillari, una “città” – così sembrò agli occhi di Saverio bambino – animata da negozi, bar, scuole, ristoranti, botteghe artigiane e persino un cinema. Fu lui a scegliere Via del Popolo come la strada di casa e fu sempre lui ad aprire il Bar Rio su Via Roma, a cento metri di distanza dalla loro abitazione. In quel bar – il cui nome, per un paradosso del destino, richiama alla mente la Rio brasiliana dove gran parte dei La Ruina stessi erano emigrati tempo prima – l’attore ha imparato a guardare gli altri, ad osservare la vita della gente, a registrare su un quadernetto le abitudini di alcuni compaesani e, in modo quasi ossessivo, i nomi e i film dei grandi attori hollywoodiani. «Per noi montanari, Castrovillari era l’America, c’erano scuole, uffici, ospedale, tribunale, servizi, tutto. E poi dovevamo solo scendere dalla montagna. Prima sono arrivati mio padre e mio zio Nicola, e hanno comprato il Bar Rio, in via Roma, una delle due strade principali. Che poi un nome un destino, perché proprio a Rio sono emigrati tutti i fratelli di mio padre. Erano undici. Otto sono partiti e tre sono rimasti, il venti per cento. Secondo il calcolo delle probabilità, io avrei dovuto essere più a Rio de Janeiro che a Castrovillari, più sul Pan di Zucchero che sul Monte Pollino, più in Rua Marechal Hermes che in via del Popolo. Bastava che uno dei fratelli insistesse. O che zio Nicola dicesse andiamo a Rio invece che al Bar Rio. Ironia della sorte, il destino li ha avvicinati col nome, ma ci ha messo in mezzo l’oceano».

In quel bar Saverio ha conosciuto le canzoni, fil rouge sonoro dello spettacolo, premendo i tasti colorati di un juke box: «Studiavo su un tavolino attaccato al juke box. Let it be dei Beatles, Sognando la California e Io mi fermo qui dei Dik Dik e poi i New Trolls, Santo e California, Creedence Clearwater. Ma quella che mi emozionava di più era A whiter Shade of Pale dei Procol Harum, perché con quella ci ho ballato i primi lenti abbracciato alle ragazze. Che poi abbracciati tanto per dire […]». Ha confuso il gioco con il dovere, nutrito i suoi sogni più profondi, formato la sua focosa indole politica.
Sempre in quel bar ha tentato più volte di fermare il tempo, complice un cronometro regalatogli proprio da zio Nicola: «Tè, Savè”, m’ha detto, “cu quistu si patronu d’u tìampu, u poi firmà, u poi fa jì annanti e u poi fa jì arrìatu, insomma ci poi fa quiddu chi vùai».
Ma il tempo, altro tema portante del testo, non si può fermare. Tutto cambia, deperisce, cambia forma. I genitori invecchiano, avvertono che il loro, di tempo, è arrivato, e poi se ne vanno via per sempre. Le strade che abitiamo abitano esse stesse un continuo altro tempo: i vecchi negozi di alimentari ormai chiusi spariscono per lasciare spazio a centri commerciali e supermercati privi di identità.

Saverio/cantore abbraccia tuttavia tali trasformazioni, le osserva, le studia e le “canta” senza enfasi né giudizi. A tratti con un sano rammarico. A tratti, persino, con benevola ironia. Rispensando ad uno degli spettacoli più emblematici e toccanti del repertorio di La Ruina, Dissonorata (Premio Ubu nel 2007), ci tornano in mente le mani sul volto della prima scena: mani impegnate ad accarezzare incessantemente le gote come fossero angeli capaci di lenire qualsiasi dolore. Anche quello pietrificato e ancestrale che, in quello struggente monologo, muoveva dall’utero di un Sud quanto mai feroce. In Via del Popolo sembra, invece, che proprio il tempo, gli anni trascorsi e vissuti, l’esperienza umana e professionale sedimentata spingano l’attore ad un perdono pietoso; ad una comprensione più consapevole delle contraddizioni e dei cambiamenti propri di una realtà che il suo teatro ha sempre saputo raccontare con trasporto e lirismo.

Il tempo uccide e insieme cura, accompagna le nostre vite e insieme corre spietato. E allora è il caso di sorridergli in faccia. Non per niente, il Tempo stesso campeggia in scena nella riproduzione volutamente naïf che Riccardo De Leo firma del celebre dipinto La persistenza della memoria di Salvator Dalì: una sorta di distorsione ottica dove un grande orologio tondo, celeste chiaro, scivola fuori dal suo perimetro per dirci che il tempo fa il suo corso e non ascolta i nostri desideri. È un’immagine quasi infantile, ingenua, eppure puntale. Che si ricorda con estrema semplicità che quell’orologio abita dentro di noi e dentro la nostra storia. Una storia intima, solo nostra, e una storia sociale, condivisa, che è poi la storia delle nostre radici, dei luoghi – appunto – e delle persone da cui proveniamo. Una storia in cui riconoscerci come esseri umani in relazione.

Nel tenue gioco luci di Dario De Luca (con cui La Ruina ha fondato nel ‘94 la compagnia Scena Verticale e con il quale dal ‘99 dirige l’accreditato festival Primavera dei teatri) e nella sobria, lieve, regia firmata dall’interprete, questo piccolo/grande marchingegno drammaturgico riluce, insomma, di quell’onestà intellettuale e di quella straordinaria capacità che il bel teatro ha di parlarci.
Proprio a noi. E proprio di noi.

 

VIA DEL POPOLO

di e con Saverio La Ruina
disegno luci Dario De Luca
collaborazione alla regia Cecilia Foti
audio – luci Mario Giordano
allestimento Giovanni Spina
dipinto Riccardo De Leo
amministrazione Tiziana Covello
produzione Scena Verticale
organizzazione generale Settimio Pisano

TeatroBasilica, Roma
10 – 15 gennaio 2023

Dal 23 al 26 febbraio repliche in Sicilia e a Rende (Cs)