GIANNA VALENTI  |  I corpi della danza nella contemporaneità scelgono di rilasciare nel lavoro coreografico le loro personalità più profonde, danzano storie personali, condividono pubblicamente un livello di vulnerabilità molto privata, rendono visibili materiali tratti dalla loro quotidianità e collaborano con i coreografi per creare conoscenza sulla scena, portando nel lavori una loro identità coreografica e una loro presenza drammaturgica. 

Per le tecniche con cui si sono formati e per i settori culturali e i linguaggi che hanno attraversato, questi corpi sono corpi complessi, multipli e stratificati, cresciuti attraversando aree geografiche, culture e pratiche diverse. Corpi stratificati perché rivelano un’identità che nasce dall’aver incarnato una pluralità di tecniche di danza, sia teatrali che popolari, una diversità di scuole di movimento e di pratiche di consapevolezza corpo-mente. Corpi che spesso nella loro formazione hanno assimilato anche capacità vocali e testuali, così come modalità di lavoro da altri settori, come lo sport, il circo o le arti visive. 

Vi lascio tre esempi di lavori in cui risulta difficile definire cos’è danza e cosa non lo è, perché le forme tradizionalmente più riconoscibili come danza cambiano, mentre la parola, il canto e il respiro diventano danza:
Tauberbach/Alain Platel  – 2014
The Cost of Living/DV8, andando a 1’ – film 2004
Another Sleepy Dusty Delta Day-Jan Fabre  – 2008

Lloyd Newson – The cost of living

Difronte a questi corpi che incarnano una molteplicità di talenti e di possibilità espressive, ci sono stati e ci sono coreografi che hanno ricercato e sviluppato metodi per riconoscere e accogliere la ricchezza della diversità.

Tracciamo insieme qualche tappa europea di questo percorso: i miei attori e i miei danzatori, scriveva Jan Fabre alla fine degli anni 80 del secolo scorso, sono persone, “ognuna con i propri sentimenti, la propria storia, i propri limiti”. Anche Lloyd Newson, coreografo e fondatore nel 1986 dei DV8 Physical Theatre, ha sempre parlato dei suoi danzatori come persone con grande capacità di immettere nel processo di lavoro un alto livello di iniziativa personale e di condivisione di sé e della propria storia. E Alain Platel a fine anni ’90 raccontava: “I danzatori vanno costantemente oltre ciò che è ordinario, oltre la quotidianità. Tuttavia sono persone normali… sono interessato a ciò che li rende unici sia come persone che come performer”.

Basta semplicemente attraversare alcuni materiali video disponibili in rete per incontrare e riconoscere la molteplicità delle personalità e delle intelligenze fisiche dei danzatori e dei performers di Fabre, Newton e Platel.

Sfogliamo, per esempio, alcuni ritratti recenti di performer di Jan Fabre presentati nella sezione The Dancing Thoughts di Jan Fabre performing Arts su YouTube. Ogni video, potrete notare, è accompagnato da una breve biografia a sottolineare l’importanza dell’unicità di ogni percorso performativo all’interno della compagnia. Eccone alcuni: Sung Im Her – 2021 – sunset,  Antony Rizzi – 2021 air play,  Stella Höttler – 2021power.

Guardiamo il film dei DV8 The Cost of Living del 2004 e andiamo a 15’10’’ per vedere come si arriva a un a solo che poteva prendere vita solo su quel danzatore e, ancora, a 19’ per un esempio di come può nascere una coreografia di gruppo da una storia particolare e da una “fisicità diversa”.

E per dilatare lo sguardo su questa poetica della diversità e della molteplicità, questo trailer da Pitié di Platel del 2008, dove si vede un a solo costruito sull’unicità culturale e fisica del danzatore. E, ancora, Badke, di qualche anno prima, in cui alcuni danzatori di les ballets C de la B, Platel e la dramaturg della compagnia, Hildegard De Vuyst, hanno lavorato con dieci giovani performer palestinesi per costruire una coreografia che attinge tanto alle danze folkloriche quanto alla capoeira o al pop. 

Alain Platel – Badke

Hildegard De Vuyst, dance dramaturg, che ha iniziato a lavorare con Platel nel 1995, dice che nel suo lavoro “c’è molto coinvolgimento drammaturgico sin dal momento in cui si scelgono i danzatori, perché Platel fa molto affidamento su ciò che i danzatori portano nel processo di lavoro, cioè le loro storie personali. E poiché lavora con la diversità, ha bisogno di persone con nature e religioni diverse, colori diversi e background culturali diversi, perché è attraverso questa scelta che raccoglie molto materiale di lavoro.” (Dance Dramaturgy: Speculations and Reflections. Dance Theatre Journal. April 2000)

Ed è Platel che ci conduce a ritroso alla tappa che ha rivoluzionato in Europa il processo coreografico di fine Ventesimo secolo, indicandocela nel lavoro rivoluzionario di Pina Bausch che “alla fine degli anni 70 e all’inizio degli anni 80, ci ha mostrato danzatori che non erano più semplicemente delle persone con delle capacità di movimento, ma persone con una loro identità, un nome e una personalità ben riconoscibile”.

Pina Bausch – Nelken

Vi lascio tre “a solo/ritratti” di danzatori da due lavori di Pina Bausch, Walzer e Nelken del 1982: a solo da Walzer,  a solo da Nelken,  singing solo da Nelken.

È nel 1977, durante la produzione di Blaubart, ci racconta Kathleen Profeta, scrittrice, dramaturg e coreografa, che Bausch ha iniziato a fare domande ai suoi danzatori, domande a cui dovevano rispondere con i mezzi a loro disposizione, il movimento e la parola, senza nessuna separazione tra i loro corpi formati alla danza e i loro corpi quotidiani. In questo modo, continua Profeta, Bausch ha proposto un passaggio nella definizione di coreografo, da qualcuno che ha tutte le risposte a qualcuno che pone domande che sanno generare risposte.
Il cambio è dal fare una coreografia su una compagnia, al fare una coreografia con un gruppo di danzatori, dove su fa apparire la danza come qualcosa che scende dall’alto sopra il corpo dei danzatori, in un arrangiamento gerarchico dall’alto verso il basso, mentre con segnala dei processi collaborativi e non gerarchici — damaking a dance on a company” a “making a dance with a group of dancers”—(Kathleen Profeta, Dramaturgy in Motion, 2015)

Pina Bausch – Blaubart

Fare domande è un metodo collaborativo e relazionale che fa dei danzatori dei coautori nel processo coreografico. Nei metodi collaborativi, proprio perché la partitura coreografica non é predefinito dal coreografo prima di entrare in sala prove, il procedere non è lineare e segue una mappa di possibilità e di complessità che si aprono durante il processo creativo. I lavori finali rispecchiano le modalità di preparazione e può essere interessante, per cogliere le diversità di partitura e di montaggio,  riguardare The Rite of Spring di Bausch, coreografata da lei per i suoi danzatori nel 1975, e Blaubart, successivo, coreografato nel 1977 con i suoi danzatori. 

Nel nostro precedente incontro, Scatti Coreografici#1, ho raccontato come i lavori coreografici costruiti scegliendo un metodo collaborativo portino a un cambiamento delle azioni di relazioni tra corpi all’interno delle sale prove e a uno spostamento della centralità del corpo del coreografo e della verticalità del suo ruolo come autore. E sono proprio i coreografi interessati a offrire e a condividere la loro responsabilità autoriale con i danzatori ad accogliere come ricchezza drammaturgica la loro storia personale e la loro singolarità come performer.

Marianne Van Kerkhoven, la grande madre della drammaturgia della danza europea, per parlare di processo drammaturgico scriveva nel 1997: “Il tipo di drammaturgia a cui mi sento connessa e che ho cercato di applicare sia al teatro che alla danza ha una natura ‘orientata al processo’: si sceglie di lavorare con materiali di diversa origine (testi, movimenti, immagini cinematografiche, oggetti, idee…). Il ‘materiale umano’ (gli attori/danzatori) sono il materiale più importante — il fondamento della creazione sono le personalità dei performer e non le loro abilità tecniche. Il regista o il coreografo iniziano da questi materiali e durante le prove lui o lei osserva come i materiali si comportano e si sviluppano. Ed è solo alla fine di questo processo che un concetto, una struttura, una forma più o meno definita appaiono — una struttura finale che è sconosciuta all’inizio”. (Le Processus Dramaturgique. Nouvelles de Danse – Dossier Danse et Dramaturgie. Contredanse.)

Per i coreografi che incontriamo oggi, il “materiale umano” rimane al centro di ogni scelta drammaturgica e il fondamento della creazione sono le personalità dei performer, le loro storie e l’unicità del loro pensiero fisico. Ed è attraverso questa centralità dell’umano sulla scena che si spalanca una visione sulla dimensione della vulnerabilità.

Sì, perché se si lavora senza preparare in anticipo le strutture coreografiche e si accetta un percorso compositivo in “dialogo con” e “in presenza di” altri corpi, si accetta di accogliere la propria vulnerabilità come coreografi e quella dei propri danzatori, attivandosi a livello intuitivo per scegliere di momento in momento come procedere: It is precisely through the quality of the method used that the work of important artists gains its clarity, by their intuitively knowing — at every stage in the process — what the next step is. (Marianne Van Kerkhoven)

Ho avuto la fortuna di poter studiare con Van Kerkhoven nell’estate del 1994 all’università di Amsterdam (uso studiare, ma dovrei dire confrontarmi, perché per lei anche l’insegnamento era un processo in divenire) e la lezione che è sempre rimasta con me è quella dell’accettazione della condizione di vulnerabilità all’interno dei nuovi processi creativi a struttura aperta — da qui il termine open dramaturgy. L’accettazione della propria vulnerabilità come coreografi o registi, fidandosi del momento e dello stare in dialogo con ciò che accade, rinunciando a sapere sino all’ultimo momento, ma anche, e soprattutto, l’accettazione e il rispetto del materiale umano con cui si lavora, dell’estrema vulnerabilità dei corpi che creano e che danzano e della necessità e responsabilità di tutelarne l’umanità. 

È una visione, questa, che rimette l’unicità e la potenzialità della persona al centro di ogni scena. In questi lavori, la persona/danzatore, la persona/attore, la persona/performer, con la pienezza della sua presenza umana, con tutti i suoi talenti e tutte le sue abilità acquisite culturalmente e tecnicamente, ha piena possibilità di rivelarsi e di irradiare la propria luce per portarla sulla scena, al pubblico, e oltre la scena, nel mondo. Un insegnamento per la pratica coreografica e drammaturgica che può aprirsi al nostro quotidiano, offrendoci un modello per affrontare la grande instabilità delle nostre società/mondo, ritrovando una senso nell’unicità che incarniamo e in quella di ogni altro mondo/persona con cui ci relazioniamo.