ELENA SCOLARI | La famiglia non ce la scegliamo. Ci scegliamo quella elettiva, formata da amici, colleghi, compagni di strada, ma i parenti capitano. I parenti più stretti, i genitori, sono le persone che ci instradano alla vita; i modelli comportamentali vorrebbero che a un certo punto (in Italia avviene più tardi che altrove) i figli si affrancassero da mamma a papà –  anche senza arrivare a uccidere i padri, dentro e fuor di metafora – per affermare se stessi non più nel cono di luce protetta di chi vuole bene ‘a prescindere’. Questo passaggio non è sempre facile, per esempio se si capita in una famiglia in cui i no li dice solo la madre e bisogna implorare il padre di ostacolare almeno un poco il figlio, ogni tanto. Fenomeno non infrequente anche fuori dalle drammaturgie teatrali.
La mamma (Simona Oppedisano) di Questa splendida non belligeranza – Una Storia così, poi così e infine così scritto e diretto da Marco Ceccotti, andato recentemente in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, le prova tutte per convincere il marito a dare un po’ di filo da torcere al loro figlio unico: “E ostacolalo ogni tanto! Non è che ti sta chiedendo chissà cosa. Mettigli dei divieti, dei paletti, rovinagli la vita. Tu gli dai troppe libertà, la troppa libertà fa male. Nelson Mandela è morto una volta libero. Mica quando era in prigione”.
In questa famiglia nessuno belligera: il figlio (Luca Di Capua, adulto) non riesce a contrapporsi al padre (Giordano Domenico Agrusta) perché il massimo che riesce a ottenere da  lui è la raccomandazione di stare attento “perché la strada è bagnata”, la madre/moglie non si oppone al marito che le regala sempre e solo libri di Stephen King e non la porta mai al ristorante cinese preferendo “un’insalatina con due gocce d’aceto, a casa”, il padre non confligge per natura e forse codardia. Ognuno però, come è prevedibile, lotta invece con se stesso, per sconfiggere insoddisfazione, salvare sogni e forse scartare da un sentiero che annoia.

ph. Claudia Pajewski

C’è molto verde, in scena. Del resto è il colore del rilassamento, dicono i cromoterapisti (ora forse superati dagli armocromisti): sul palco un divano con copertura verde, costumi verdi per i tre attori, dalle pantofole ai fermagli sui capelli (curati da Stefania Pisano), cover verdi per gli smartphones e per il pc portatile che serve a madre e figlio, sedie verdi, sacchetti verdi per i libri regalo di Stephen King. E come si fa a litigare con tutto quel verde intorno?
E infatti il padre rimane pacioso, la madre ticchetta al pc, trova posto per i nuovi libri, prepara infinite insalate con aceto mentre anela al cinese; il figlio Luigi inventa finali di libri (Bibbia compresa) diversi da quelli reali e li racconta collegato su skype a chi non ha tempo di arrivare in fondo alla lettura, nel tempo libero va a trovare un’amica molto malata in ospedale.
Il suddetto padre è un uomo che per lavoro decora i sanitari per un’azienda che li vende soprattutto ai paesi arabi e soprattutto ai dittatori. Bagni dorati per despoti. Saddam Hussein (e tutti i suoi sosia perché pure i sosia vanno in bagno, no?) è stato il loro miglior cliente ma dopo la guerra del golfo le vendite sono calate e il nostro si licenzia. Però non lo dice a casa per un mese, sempre per codardia, anche se ha trovato un nuovo lavoro al magazzino dei tabacchi.
I tre individui che compongono il nucleo familiare mantengono un equilibrio che puzza di esplosione lontano un miglio, tutta questa conflittualità repressa dovrà sfogarsi, prima o poi. E questo, di per sé, non sarebbe sorprendente. Sorprendente è invece il modo in cui Ceccotti fa deflagrare quello che gli analisti di Netflix (vedi Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti) chiamerebbero turning point: il padre scompare.
La sparizione dura cinque giorni, i familiari non sembrano particolarmente allarmati ma il vero colpo di scena è il ritorno di papà, che si presenta vestito da Saddam Hussein e come se fosse Saddam Hussein. E i suddetti analisti morettiani qui potrebbero a ragione dire What the fuck! Sono dovute sentite scuse ai lettori per la rivelazione ma non potrei proseguire l’articolo senza dirlo.

ph. Claudia Pajewski

Lo spettacolo (con la supervisione di Lucia Calamaro e Graziano Graziani) è molto divertente, è scritto con grande sense of humour, colmo di ottime battute che la recitazione antienfatica dei tre interpreti amplifica per contrasto. Lo si guarda con godimento apprezzando capacità e inventiva. La prima parte promette moltissimo, non tutto poi è mantenuto nello sviluppo complessivo di un lavoro che decide di calare l’assurdo in un contesto domestico: paradossalmente quando in scena arriva l’arma più esplosiva la scrittura sembra placarsi. Portare Saddam nella casa di famiglia è una bomba, drammaturgicamente parlando, senza contare il fatto che la sola idea di evocarlo porta con sé una quantità di sottintesi fortissima, ma da questo punto la tensione non regge la portata della scelta.
Naturalmente si può opinare che la forza sia proprio nel gettare un corpo estraneo in un contesto casalingo per potenziarne l’effetto ma invece quello che succede è il contrario: l’assurdo si addomestica e perde una buona quantità di energia propulsiva che avrebbe potuto ‘mandare in orbita’ testo e spettacolo.
Questa splendida non belligeranza è una commedia, a tutti gli effetti, e la commedia può essere uno strumento ancor più efficace del dramma per alludere a temi seri e che mettono a disagio. In questo caso sono suggeriti alcuni problemi esistenziali come l’incapacità di affermarsi, la paura del conflitto che porta alla stasi, la difficoltà di dialogo interpersonale e intergenerazionale, il senso di inferiorità dovuto all’identificazione con il proprio lavoro, il rapporto con la morte e la malattia. Mica poco. La triade di attori è perfettamente in parte: Agrusta è bravo nell’assumere sempre l’aria di uno che si sente fuori luogo, Simona Oppedisano è una donna rassegnata che si tiene in piedi (in ciabatte) grazie all’ironia, Di Capua è un giovane uomo irrisolto, che tentenna in un guado di fatti più grandi di lui.

ph. Claudia Pajewski

La graduale consapevolezza che i temi citati facciano da sottofondo a uno spettacolo apparentemente ‘leggero’ si fa strada solo sotterraneamente, perché non c’è un crescendo drammatico evidente, non c’è reale affondo e anzi la conclusione, asciutta, devia dal disegnare una curva che alzi il grado di gravità. È un po’ come se l’autore avesse avuto il timore di toccare davvero qualcosa a cui si è avvicinato per paura di farsi male, in termini di contenuti, mantenendo così un stato di non belligeranza anche con la propria opera.

In quanti abbiamo pensato, guardando film dell’orrore (o de paura, come avrebbe detto Corrado Guzzanti nei panni del regista Rocco Smitherson) o leggendo i libri di S. King, che se il protagonista va, di notte, da solo, in un bosco tetro dove si sentono rumori spaventosi allora vuol dire che se la va a cercare? Ecco, in teatro, se si riesce a entrare in quel bosco e poi a uscirne per raccontare quello che si è visto si può far ridere ma solo se riesci a non mettere a tacere del tutto i rumori.

 

QUESTA SPLENDIDA NON BELLIGERANZA
Una Storia così, poi così e infine così

scritto e diretto da Marco Ceccotti
con Giordano Domenico AgrustaLuca Di CapuaSimona Oppedisano
supervisione di Lucia Calamaro e Graziano Graziani
disegno luci Camila Chiozza
costumi Stefania Pisano
foto di scena Claudia Pajewski
prodotto da Teatro di Roma
con il rassicurante aiuto di Consorzio Altre Produzioni Indipendenti –
Carrozzerie n.o.t – Teatro San Carlino – Fortezza Est
Spettacolo vincitore del premio In-Box 2022

Teatro Franco Parenti, Milano | 20 aprile 2023