RENZO FRANCABANDERA | Debutta al Teatro Alighieri di Ravenna il prossimo 29 giugno, alle ore 21, all’interno della programmazione di Ravenna Festival, “Marat/Sade. Le due rivoluzioni”, uno spettacolo di Nerval Teatro con il gruppo di attrici e attori diversamente abili del progetto Il teatro è differenza.

In scena, accanto a loro, Maurizio Lupinelli ed Elisa Pol di Nerval Teatro, Marco Cavalcoli (già Premio Ubu 2022 come Miglior Attore), Carlo Garavini e Miriam Russo. La regia dello spettacolo è di Maurizio Lupinelli, che porta a compimento un percorso pluriennale di laboratorio con un grande spettacolo corale, che giunge all’indomani dei molti lavori realizzati con il parallelo Laboratorio Permanente di Rosignano Marittimo (tra cui Sinfonia beckettiana, Attraversamenti e Amleto. L’incontro mancato).

Il laboratorio Il teatro è differenza è un progetto di inclusione sociale attraverso il teatro, esportato a Ravenna nel 2019 sulla falsariga del Laboratorio Permanente toscano attivo dal 2007. L’esperienza romagnola si svolge in stretta collaborazione con il Comune di Ravenna (Assessorato alle Politiche Sociali) e coinvolge gli utenti di tre cooperative sociali cittadine: La Pieve, San Vitale e Selenia.

Abbiamo intervistato Maurizio “Lupo” Lupinelli.

Lupo, il tuo è un progetto artistico di lungo termine che ha intrecciato tanti codici, tante forme, tante persone, tenute assieme dalla tua passione. Da questo punto di vista che passaggio è il Marat/Sade?

Questa esperienza parte da molto lontano, è iniziata nel 2007 ad Armunia, a Castiglioncello, con il gruppo del Laboratorio Permanente e dove negli anni abbiamo realizzato varie produzioni. Esperienza che si aprì proprio nel 2007 con il Marat-Sade con i ragazzi diversamente abili, appena conosciuti, di Castiglioncello e con l’esperienza dei ragazzi di La Spezia, precisamente di San Terenzo, con cui lavoravo da circa quattro anni.

Massimo Paganelli, allora direttore di Armunia, vide il lavoro e mi chiese di iniziare un progetto per il territorio di Castiglioncello. Misi così insieme i due gruppi e nacqueun’esperienza molto forte. E poi il Marat/Sade, un testo che rientra nel percorso artistico della mia Compagnia in cui, insieme ad Elisa Pol, ha attraversato gli autori tedeschi, da Schwab a chner, da Fassbinder a Weiss. Il testo è sempre stato per me focalizzato. Il grande lavoro di Peter Brook lo vidi solo in seguito. È un’opera molto complessa, Marat/Sade. Il percorso con i ragazzi di Castiglioncello e di La Spezia era iniziato da poco per cui avevo approfondito solo la parte più vicina a loro, il discorso del più debole contro il più forte. Ero in una fase iniziale in cui stavo in scena e allo stesso tempo guidavo il gruppo di ragazzi, il Coro. Quell’allestimento era quindi foriero di un’esperienza appena nata. Marat/Sade è un testo che mi rimane sempre per le tematiche politiche e sociali che tocca ma la cosa che mi ha sempre più colpito, al di là dei livelli di lettura, è il fatto di mettere in risalto un mondo particolare, quello degli esclusi, che in qualche modo prendono voce. È ciò che ho cercato di fare nel percorso futuro che si è trasformato via via nel tempo dandomi la possibilità di sondare sempre più il lavoro con queste persone straordinarie. Tanto che nel 2011/2012 andai in crisi, avevo dei dubbi, decisi di smettere.Ad un certo punto decisi di fermarmi per portare avanti l’esperienza senza per forza arrivare a realizzare lo spettacolo.

Perché proprio questo testo? Come si lega, se si lega, alle esperienze precedenti?

Dal 2008 in poi, negli anni, ho cominciato a pensare soprattutto per loro e ho iniziato a mettermi da parte come artista. Molti si caricano su di sè la cosa e ne fanno un manifesto. Io ho deciso di lavorare per loro, fare un percorso per scoprire insieme delle cose durante i lavori. Ho cercato di stare nelle pratiche, attraversare queste esperienze tanto è vero che dal 2007 lavorammo su Marat/Sade, poi su Amleto! Ovvero l’incontro mancato con i ragazzi di Castiglioncello e del Paolo Pini di Olinda.Abbiamo fatto Appassionatamente, che era un omaggio a Schwab, con in scena attori professionisti e quattro attori diversamente abili. Poi, Cosa sono le nuvole di Pasolini dove per la prima volta erano in scena da soli senza educatori. Questa era la fase, durata sino al 2012, in cui ogni anno realizzavamo uno spettacolo. Dal 2012 ho deciso di azzerare tutto e di fare un lavoro artigianale, per praticare il teatro per loro, per sondare delle situazioni senza avere l’assillo di mettere in scena niente. Di avere anche il lusso di non essere obbligato alla messainscena finale. Il primo passaggio fondamentale è stato fatto per quattro anni con il lavoro su Beckett dove ho raccontato loro alcune parti dei testi, abbiamo preso cose che hanno percepito e capito, ad esempio, abbiamo lavorato sul silenzio; lavoravamo in spazi piccoli, magari dove c’era un oggetto e dovevano inventarsi delle cose. Ne è nato il grande progetto su Beckett Attraversamenti che diede alla luce nel 2018 allo spettacolo Sinfonia Beckettiana. E lì è successo quello che non mi aspettavo, che in questi quattro anni di lavoro, in cui dovevo far emergere il loro materiale, tenerlo ordinato e dare consigli, abbiamo scoperto che erano personaggi perfetti del mondo beckettiano. Abbiamo lavorato su Giorni felici, Aspettando Godot e Finale di partita e nella possibilità di cimentarci su questi, loro potevano essere veramente liberi.

Nello stesso tempo sono trascorsi tutti questi anni e ad un certo punto, quando è nato il percorso a Ravenna, il Comune, dopo due anni di lavoro con un gruppo di ragazzi del territorio ravennate, mi ha chiesto di preparare unospettacolo e ho dovuto spiegare che in genere, negli ultimi anni, per farne uno ce ne impiego quattro. Mi hanno convinto e ho deciso di mettere in scena un testo che amo ovvero il Marat/Sade e di cimentarmi con questo testo ancora più a fondo ormai a sedici anni dal primo allestimento. Abbiamo così iniziato a lavorare con questo gruppo in maniera completamente diversa rispetto al 2007. La differenza ora è anche che lavoriamo con un gruppomolto numeroso di ragazzi diversamente abili, i giovaniattori della non-scuola del Teatro delle Albe, cinque attori professionisti, tra cui, oltre a me, Elisa Pol, la mia compagna che con me ha creato l’esperienza, e gli attori professionisti Marco Cavalcoli, Miriam Russo e Carlo Garavini.

Il Marat/Sade rappresenta un testo che amo e conosco molto bene insieme alla voglia di fare un passo ulteriore rispetto al 2007, dando una profondità maggiore ai livelli di lettura e alle modalità di lavoro con le persone. Mi ha dato la possibilità di capire molto di più il lavoro che sto facendo con loro. Dopo il debutto ravennate saremo a Castiglioncello dove metterò insieme i ragazzi di Ravennacon quelli di Castiglioncello; da fine settembre quando lo porteremo a Milano e a Bergamo nella squadra dei pazienti del manicomio di Charenton, ci saranno oltre ai ragazzi di Ravenna anche quelli del Laboratorio Permanente toscano.

Dire Marat/Sade per quelli della generazione nata culturalmente con le radici nel secolo scorso significa senza dubbio potersi riferire non solo a Weiss ma anche a Peter Brook. Ti ha dato qualche suggestione questa cosa? E se sì in che termini.

Il mio primo incontro è avvenuto proprio con il testo di Peter Weiss. Non ho mai visto il Marat/Sade di Punzo e solo qualche anno fa vidi il film di Brook. La suggestione a me arriva dal testo di Weiss e dai corpi di questi splendidi interpreti. Qui ci siamo divertiti, nel senso vero del termine, anche a far esplodere delle cadute in cui ad un certo punto i pazienti prendono parola. Ma per me rimane sempre centrale la scrittura di Weiss. Non è un caso che venga scritto negli anni ’60, in un momento in cui in Europa anche rispetto al mondo manicomiale, fautore di tanta rivoluzione politica e sociale di quel periodo. Arriviamo nel’68 e subito dopo abbiamo avuto la lotta fatta da Basaglia in Italia.

Che specificità avrà la replica ravennate e in che termini è (o non è) ripetibile, ammesso che la ripetibilità sia un concetto che ha a che fare con il teatro?

La replica di Ravenna è lo spettacolo. Con le repliche di Milano e Bergamo cercheremo di ricreare tutte le volte questo mondo. Il lavoro che facciamo è di cercare di fissare nella loro libertà. Li chiamiamo attraversamenti. Non è un caso che negli ultimi anni i ragazzi stiano incontrando anche altri artisti, danzatori, attori. Da Silvia Gribaudi, a Roberto Latini, da Paola Bianchi alla Raffaello Sanzio e al Teatro delle Albe. Sono ragazzi molto aperti e assetati di stare lì: diamo loro la possibilità di incontrare altre persone e altri modi. La bellezza è che per loro sia ripetibile nella libertà. A volte si vedono lavori di questo tipo di esperienza ma con poca libertà. Qui ce l’hanno. Noi dobbiamo essere bravi a rendere drammaturgica la loro libertà che a volte possono ripetere in situazioni diverse ma la questione rimane quella. Allora sì che possiamo parlare di ripetibilità.

Quanto costa in termini economici e umani un teatro che accoglie e favorisce la partecipazione inclusiva? È ancora possibile che questi spettacoli circuitino? 

In termini economici un’operazione come questa è complicata. Siamo 60 persone. Portarlo in giro non è facile ma qualche data la farà. Non è un caso che debuttiamo in un festival multidisciplinare come Ravenna Festival.

Sono d’accordo ci sia la possibilità di farli girare, se lo spettacolo vale. È un‘opera d’arte. Cerchiamo nella libertà ma il risultato deve essere buono. Abbiamo vinto il bando dell’accessibilità ministeriale e faremo uno spettacolo tratto da Giorni felici con il quale gireremo di più perché le dimensioni sono più piccole, con date e debutti. È nella nostra logica negli anni pensare all’impatto inclusivo socialmente e lavorativamente. Non voglio addentrarmi sulla questione del teatro sociale o non sociale, certi lavori siamo riusciti a farli girare, i progetti ora si stanno sempre più allargando e trovando collaborazioni con artisti. Dueanni fa abbiamo vinto il Premio Ubu per il Miglior Spettacolo di Danza con la compagnia Abbondanza/Bertoni con DOPPELGÄNGER/Chi incontra il suo doppio muore che aveva in scena l’attore diversamente abile Francesco Mastrocinque e il danzatore Filippo Porro.

Io e Elisa cerchiamo che i ragazzi impiegati siano anche pagati, non solo per un fatto culturale ma per loro stessi e le loro famiglie. Per coerenza e rispetto per il lavoro.

Quando hai iniziato a pensare a questo allestimento, che immagine ti è venuta in mente per prima?

La prima immagine che mi porto dietro da sempre sono gli occhi di queste persone. Nel Marat/Sade metterò queste presenze per cinque minuti che ci guardano dall’alto del palco. Qualsiasi cosa facciano, è vera. Anche solo guardarli mentre purtroppo ora non siamo nemmeno più in grado di guardare negli occhi le persone e farci attraversare.