RENZO FRANCABANDERA | Ha fatto davvero una certa impressione, riscuotendo grande consenso, il lavoro ospitato nel weekend del 19 e 20 giugno a Mestre, all’interno della programmazione di Biennale Teatro la cui direzione è affidata a Gianni Forte e Stefano Ricci, che hanno scelto di offrire anche al pubblico italiano Anima, la creazione nata dalla collaborazione tra la regista, autrice e attrice Maëlle Poésy e l’artista Noémie Goudal, e ospitata l’anno scorso all’interno della 76esima edizione del Festival d’Avignon, dove la Poésy, attualmente direttrice del Théâtre Dijon Bourgogne, è tornata diverse volte. La Goudal (1984), invece, è autrice di illusionistiche installazioni visuali che hanno al centro il paesaggio, tra ecologia e antropologia.
E anche Anima è una riflessione che va in questa direzione concettuale, ispirandosi ad una precedente installazione di Goudal, Post-Atlantica, ma focalizzandosi ulteriormente sulla paleoclimatologia, disciplina che studia il clima nell’antichità. E a proposito di clima, il maltempo del pomeriggio a Venezia aveva creato una certa difficoltà nell’allestimento per via delle caratteristiche tecniche peculiari del materiale in scena, che avrebbe potuto essere irrimediabilmente compromesso.
L’evento è quindi iniziato con un certo ritardo rispetto all’orario programmato originariamente ovvero le 21:30. Il pubblico ha atteso fuori, nel Parco Albanese di Mestre, in un panorama caratterizzato dalla presenza di ruderi antichi, edifici post industriali e di una sorta di grande Piazza d’Armi al centro della quale è  un laghetto recintato da strutture di muratura.

All’ingresso del pubblico nello spazio della rappresentazione, nessun palcoscenico; tre grandi superfici di proiezione bianche rettangolari di cui una frontale e due leggermente oblique, ma prossime fra loro, in modo da dare una sorta di continuità visiva. Alcune grandi lampade LED a illuminare queste superfici su cui appare già subito un panorama naturale, una boscaglia submediterranea, con palme e altra vegetazione piuttosto rada. Una visione notturna, e frontalmente illuminata, come se i LED, esterni alla videoproiezione dessero la luce a queste piante.

Ci si aspetta di lì a poco l’ingresso di un qualche performer, ma in realtà appaiono, dentro lo stesso video, degli attori operai che, giocando fra illusione ottica e scomposizione dell’immagine, cominciano a fare letteralmente a strisce la visione che era sotto i nostri occhi, sovrapponendo fasce di altre immagini per il lungo e per il largo delle tre aree di proiezione, in modo da creare una scomposizione geometrica delle immagini inizialmente in leggero movimento, rivelando subito un elemento di finzione ulteriore rispetto alla presenza degli umani nel video.
In scena, se per scena si intende lo spazio antistante queste superfici, non succede nulla.
È tutto a schermo.
Il gioco prosegue così per una quindicina di minuti in un continuo crearsi e scomporsi di puzzle visivi che sovrappongono immagini naturali ad altre immagini, in modo da rendere il paesaggio artificiale, da confondere il primo con il secondo piano, fino a quando nella drammaturgia di immagini, dopo una ventina di minuti, non sopraggiunge la presenza del fuoco.
Questo elemento, interagisce ulteriormente con la questione della falsità della rappresentazione bruciando alcune ipotetiche strisce di immagini come se fossero materiche e rivelando i piani dietro queste strisce come se ci fosse una tridimensionalità che fino a quel momento l’occhio non riusciva a percepire, ostacolato dall’intreccio delle bande visive.
Il fumo avvolge queste foreste di carta, che non percepiamo più come reali, un po’ come succede nella comunicazione, quando sentiamo di migliaia di ettari di foreste amazzonica che bruciano, ma che restano semplicemente un’informazione in qualche veloce articolo sul magazine online o sui social. Nulla che ci riguardi direttamente, nulla di tangibile. Qualcosa a schermo, appunto.

Ma a questo punto il gioco cambia perché, man mano che bruciano le strisce intrecciate sui tre grandi schermi, inizia a rivelarsi un’immagine di fondo con una serie di paesaggi via via più brulli, da cui vengono fuori la nuda roccia e ambienti che ricordano il pianeta Marte: un habitat arido e privo non solo di presenza umana, ma anche di vegetazione.
A dire il vero un paio di esseri umani in carne ossa appaiono ai bordi dello schermo di sinistra, come a tirarne giù una tendina a scorrimento, portando un ulteriore paesaggio a srotolarsi, una foto di rocce spigolose e brulle.
Tutto è grigio, disabitato.
Viviamo quindi una metafora progressiva del dramma ambientale in cui il pianeta è catapultato.
Non solo.
Ad un certo punto questa stessa immagine di rocce inizia ad essere bagnata dall’alto e colate d’acqua iniziano a corroderla. Il telo di proiezione inizia a bagnarsi e a gocciolare e mentre gocciola – qui la meraviglia! – inizia a sgretolarsi, ma questa volta i pezzi di carta che vengono via non sono dentro il filmato, finti, ma veri.
Il telo di proiezione sgretola un’immagine per rivelarne sotto un’altra, come se il primo paesaggio fosse stato corroso da piogge acide.
Insomma, qui la faccenda del gioco ambientale diventa magica, pur nella sua desolante inesorabilità: assistiamo ad un paesaggio che si disfa e liquefa davanti a noi.
Un tragico gioco di prestigio davanti al quale tutti si chiedono cosa stia succedendo: come è possibile che quella che ci sembrava una proiezione di colpo diventi materia solida sotto i nostri occhi, e come arrivi a disfarsi?
Quella materia, di colpo, di punto in bianco, ci riguarda. Entra nel nostro spazio tridimensionale. Quella materia inerte si porta in vita, acquisisce concretezza reale.
Ci si chiede come finirà il gioco che tutto sommato ha acquisito via via una sua intelleggibile coerenza, orientato chiaramente sul tema della insostenibilità della vita sul pianeta come conseguenza dell’azione distruttiva dell’essere umano.

Ed è proprio qui che l’essere umano appare davvero.
Il telo centrale viene calato e rivela una struttura portante di assi di metallo che sostenevano il drappo teso. Un’ampia struttura metallica simile a quella di un cantiere, per dare un’idea dietro la quale sono visibili i ruderi abbandonati di una ex fabbrica, con gli infissi in anticorrodal in parte arrugginiti; sotto si percepiscono i riflessi di acqua che scorre.
Sulla struttura appare una donna vestita di pantaloni e di una parte superiore che ricorda una tuta smanicata.
Cammina sui tubi a diversi metri di altezza, nella parte alta dell’impalcatura: è il primo umano in carne e ossa che svolge un’azione non tecnica ma simbolico-rappresentativa dentro la creazione scenica: ha piedi nudi, mani libere e dopo alcuni istanti si appende per le mani ad uno dei tubi.
Anzi, dopo qualche istante ne molla una e resta appesa per una mano sola.
Sotto, il vuoto.


Qui la situazione diventa improvvisamente stranissima e tesa, perché questa posizione ginnica invece che durare pochi secondi inizia a prolungarsi.
Non solo.
La donna inizia, reggendosi per una mano sola a camminare come se levitasse nell’aria, come se fosse sulla superficie lunare.
Una immaginaria passeggiata leggiadra e leggera sulle macerie dell’umanità scomparsa.

Accompagnano la performance le sonorità elettroniche di Chloé Thévenin, in arte Chloé, compositrice, produttrice e DJ di musica elettronica, attiva sia in campo cinematografico che teatrale.

Con gesto ulteriormente acrobatico l’acrobata si porta in retroflessione, chiudendo le gambe dietro di sé sulla testa, come un vero ginnasta. Anzi, sicuramente da ginnasta perché nessuno senza allenamento potrebbe arrischiarsi in pochi istanti di quel genere di esercizio fisico estremo (scopriremo dopo che è Chloé Moglia (1978), fondatrice del gruppo Le Rhizome nel 2009 con cui sviluppa la sua ricerca nell’acrobatica aerea, sfidando le leggi della fisica in un misto di forza e fragilità).
La donna continua questa azione che ci appare interminabile e a cui tutto il pubblico assiste in un silenzio surreale, come se il gioco fosse finito e di colpo quella presenza umana, rivelasse la drammatica solitudine in cui ci troviamo, il senso di pazzo e giocoso squilibrio cui facciamo fronte come specie vivente, ma anche come singoli individui, ormai rassegnati ad una equilibrismo sul nulla, incuranti di tutto quello che ci accade attorno, senza poter intervenire per fermare alcunché.
Siamo appesi nel vuoto, potremmo cadere da momento all’altro.
Certo, potremmo resistere, finché ci sorreggerà la forza, finché saremo capaci di restare appesi.
Ma quanto potremmo restare appesi senza che ci manchino le forze?
Quanto potremmo restare da soli?
Ad un certo punto la performer poggia finalmente i piedi sulla struttura per terminare il faticosissimo esercizio, di cui però non rivela lo stress.
Qualcuno nel pubblico con un sospiro non nasconde il sollievo, avendo sofferto a vederla appesa per una mano per così tanto tempo, muovendosi con una leggiadria da ballerina. Qualcuno si è commosso.

Se pensiamo ai codici utilizzati nella rappresentazione, davvero a un certo punto tutto quel proiettare durato quasi quaranta minuti aveva portato dentro un immaginario abbastanza indirizzato, definito, che sembrava chiudersi con la prima magia, quella del disfacimento reale della superficie di proiezione dell’immagine.
Ma gli ultimi dieci minuti spostano completamente l’asse poetico della performance, la fanno uscire da una sorta di cono di prevedibilità, di strada concettuale indirizzata, per aprirla verso uno spazio misterioso e affidato, nel suo decodificarsi, all’occhio dello spettatore, a cui compete il ruolo di mettere insieme le parti per cercare un senso fra dolce ostentazione della forza e solitaria fragilità, fra assenza dell’umano e presenza dell’umano, fra virtuale e reale.

Ad alcuni giorni dalla visione, che resta nitida nella memoria, non ho ancora una certezza sul suo senso conturbante : resta addosso, come se fosse stato detto chissà cosa, mentre nell’ora circa di spettacolo non c’è neanche una parola.
E questo, di per sé, rivela una potenza della creazione di ordine assoluto.
Se la prima mezz’ora è statica e via via prevedibile, pur nel gioco dei video trucchi, la seconda è assolutamente imperdibile.
Porta la mente dentro uno spazio di pensieri irrazionali, come solo la grande arte sa fare.

ANIMA

di Noémie Goudal, Maëlle Poésy
ideazione, regia Noémie Goudal, Maëlle Poésy
coreografia sospensioni Chloé Moglia
con Mathilde Van Volsem
musiche originali Chloé Thévenin
scenografia Hélène Jourdan
luci Mathilde Chamoux
costumi Camille Vallat
direttore di scena Julien Poupon
fonico Samuel Babouillard
tecnico luci e video Pierre Mallaisé
assistenti Clara Labrousse, Pauline Thoër
organizzazione Miléna Noirot; assistenti: Adèle Noirot, Marie Bloquel-Perrat

Crediti del film:
realizzazione Noémie Goudal, Maëlle Poésy; assistente: Claude Guillouard
sceneggiatura Mylène Mostini
direttore della fotografia Julien Malichier
operatore e fuochista: Alexis Allemand
assistente alla macchina da presa: Julien Saez
effetti speciali: Léo Leroyer
elettricista: Adrien Chata; assistente: Telma Langui
capo arredatore: Thierry Jaulin; assistenti: Eleonore Sense e Delphine Bachelard
oggetti di scena: Thomas Piffaut
direzione di scena: Victoria Lanoy
riggers: Olivier Georges, Guillaume Morandeau e Augustin De Vaumas
post-produzione: Méchant
colour grading: Serge Antony
produzione: Clara Labrousse e Claude Guillouard; assistenti: Aménophis Boum Mak e Pauline Thoër; stagista: Salomé Fau
comparse: Alexis Allemand, Aménophis Boum Make, Georges Olivier, Claude Guillouard, Maëlle Poésy, Noémie Goudal, Thomas Piffaut, Graciela Walinsky

Una perfomance-installazione ideata e progettata da Noémie Goudal, Maëlle Poésy
tratta dalla mostra ‘Post Atlantica’ di Noémie Goudal

In collaborazione con: Comune di Venezia / Cultura Venezia / Teatro del Parco

Questo progetto: è stato realizzato con la collaborazione di Christoph Wiesner e Les Rencontres d’Arle
Produzione:Théâtre Dijon Bourgogne, CDN
Produzione e allestimento del film: Mondes nouveaux, un programma avviata dal governo francese nell’ambito di Culture de France Relance, il piano che fornisce assistenza per l’ideazione e la realizzazione di progetti artistici
Coproduzione: Compagnie Crossroad; Atelier Noémie Goudal; Espace des Arts, Scène nationale de Chalon-sur-Saône; L’Azimut – Pôle National Cirque en Île-de-France – Antony/Châtenay- Malabry
Con il supporto di: Rhizome – Chloé Moglia, FONPEPS
Nota: ANIMA è stato creato alla 76. edizione del Festival d’Avignon con il supporto di Kering Foundation e Les Rencontres d’Arles, con il supporto di Kering Foundation e Les Rencontres d’Arle