RENZO FRANCABANDERA | Ha avuto il suo debutto il 22 giugno a Parma, con repliche fino al 30 giugno, Apocalisse, nuova creazione di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, produzione internazionale e allestimento site-specific per l’area Workout Pasubio_Padiglione Nervi, un complesso di origine industriale restituito alla città grazie a un importante progetto di riqualificazione e di rigenerazione urbana nella periferia storica di Parma, in un’area prossima alla stazione ferroviaria: pur a suo modo centrale, la zona è divenuta periferica in ragione delle destinazioni d’uso accordate nel secolo scorso e dell’insorgere di un’edilizia popolare e di quel generale sentimento di periferia che comprende il classico melting urbano di immigrazione non regolare, malavita, disagio. Da sempre il duo composto da Pititto e Maestri ha praticato le arti sceniche in spazi non convenzionali, e nel tempo ha scelto di radicare la proposta culturale nella città di Parma a cui ha votato tutta la propria esperienza di vita.

Con questo atto, la riflessione estetica quadriennale di Maestri e Pititto sulle letterature del sacro giunge, dopo La Creazione (2021) e Numeri (2022), alla terza realizzazione spettacolare, proseguendo nella riflessione sull’essere umano nella sua crisi contemporanea.

Lo spettacolo si svolge all’interno dell’area ex-industriale nella struttura architettonica composta non dal caratteristico unico ambiente a forma di parallelepipedo ma da una serie di spazi di cui il primo, quello maggiore, a pianta rettangolare, è di assai ampie dimensioni; segue uno spazio intermedio più piccolo che dà accesso poi all’ultimo grande ambiente bipartito che completa la struttura.
L’esterno, la facciata e in particolar modo le vetrate e la volta del primo ambiente rivelano in modo inequivocabile la cifra dell’architetto Nervi, che i due creatori dello spettacolo utilizzano per dividere gli stimoli visivi fra quelli agiti al pianterreno da attori e le proiezioni video a soffitto.  Queste ultime comprendono una serie di segni iconografici ispirati tanto all’elemento simbolico dell’agnello quanto a San Giovanni, con un riferimento a un’altra importante opera pittorica presente in città, ovvero la decorazione della cupola dell’abbazia di San Giovanni Evangelista, un ciclo di affreschi del Correggio databili tra il 1520 e il 1524 circa: al Cristo si sovrappongono immagini video di paesaggi montani dove pascolano libere pecore e agnelli, estrazioni dal lavoro della documentarista Anna Kauber e riprese realizzate da Julius Muchai dell’Associazione Amici di Kibiko nello slum di Nairobi Dandora / Korogocho, discarica a cielo aperto ritenuta l’area più inquinata del pianeta.


Lo spazio scenico occupa per il lungo la parte centrale del primo colossale ambiente sulla cui volta scorrono i video. Ci sono sei capitelli sul lato sinistro e sei sul lato destro, in fila nel senso della profondità, a delimitare un rettangolo, al centro del quale è posta una scultura in gesso di un’aquila, ulteriore rimando all’evangelista.
Ai piedi della scultura una figura vestita in abito nero con una camicia bianca.
Entreranno progressivamente in scena dalla porta in fondo gli altri performer (Fabrizio Croci, C.L. Grugher, Boris Kadin, Sandra Soncini, Tiziana Cappella e il soprano Victoria Vasquez Jurado), tutti vestiti in ricercati abiti d’epoca, di altissima fattura sartoriale, che mescolando drammaturgia e lacerti sonori della Messa da requiem. Un verbale composito che, grazie ai performer arriva a definire l’ambiente emotivo tipico delle creazioni di Lenz, fatto di luoghi e parole fuori dal tempo, che cercano di definirsi in un poetico assoluto.
Si tratta di figure che incarnano forme di potere e di altre che soggiacciono nutrendosi di algida asperità, le cui vessazioni si condensano nell’epifania di un’ultima presenza, ricoperta di un vello, incarnazione dell’agnello. L’interprete femminile dell’agnello sacrificale si muoverà poi nelle scene successive incedendo carponi di stanza in stanza, come a voler portare con sé l’occhio pietoso dello spettatore sulla tragica vicenda dell’innocenza senza speranza in quest’epoca; epifania che non può che rimandare davvero alle profezie apocalittiche.

Disegno live Renzo Francabandera

La profondità di scelte compositive e registiche, intense e coerenti, continua nel secondo ambiente in cui il pubblico osserva una scena dinamica e che si muove anche in questo caso non solo in orizzontale, fra mezzi busti in gesso di età classica, ma anche in verticale con un attore che arriva a recitare in cima a una scala di ferro, mentre dal lato opposto dello spazio un altro dispone con lentezza su un banco quasi scolastico alcune statuine a forma di agnello, poi fatte cadere proprio dalla donna animale che, in chiusura di questa scena, entrerà nello spazio per andare a prendere il posto delle statuine sul banco, incarnazione dell’icona.
Una videoproiezione sul fondale, fissa, riporta ancora la figura ovina, qui in una  riproduzione pittorica nei toni del bianco e nero, cifra cromatica e ambientale che rimanda a La classe morta di Kantor, cui va il pensiero dell’appassionato teatrale non solo per la presenza del piccolo banco ma anche per le figure attorali vestite di scuro.
Grovigli umani e sofferenza si muovono labirinticamente nello spazio fra i mezzi busti (copie di opere di epoche diverse) sul pavimento, algidi e ordinatissimi, quasi a contrastare, nella loro millenaria forza di sopravvivenza, l’infelice destino umano, così legato al drammatico contingente.

Disegno live Renzo Francabandera

La bellezza delle creazioni scultoree dei grandi artisti della storia dell’arte continua anche nell’ambiente successivo e diventa un motivo iconico di confronto fra la perfezione irraggiungibile e la carnale decadenza dell’umano: il David di Michelangelo e altre sculture di altezza pari quasi a quella degli spettatori che fra esse si aggirano, opposte ai corpi nudi degli attori, intenti, in ambienti separati e illuminati di un blu che vira alla tonalità fredda del Klein, a una faticosa doccia, con l’acqua erogata da piccoli serbatoi di plastica, mentre una grande videoproiezione racconta con crudezza estrema e senza alcuna indulgenza per lo sguardo di chi vi assiste, il sacrificio di un agnello sgozzato.
È un filmato che riporta proprio l’uccisione di una piccola pecora: il sangue sgorga a fiumi dalla trachea recisa. Il pastore le tiene il muso fermo.
Assistiamo agli ultimi interminabili istanti, sparpagliati fra le statue, e abbiamo ancora negli occhi la scena, mentre due figure sollevano un tronco bianco e ci portano concettualmente nell’ultimo ambiente, in cui sono immanentemente presenti i resti in metallo della vecchia catena di montaggio e sei colonne di gesso a sezione quadrata: gigantesche, pendono dal soffitto, in dialogo con carrelli, ganci e meccaniche dell’architettura industriale che fu.
Qui i poveri individui, seduti vicini e piccolissimi davanti alle macchine e alle architetture di cui l’ingegno umano è capace, si nutrono affannosi, cercano un sostentamento che dovrebbe derivare dalla natura, che però non è presente. Il tronco dell’ambiente precedente, con il fusto dipinto di bianco, viene issato come una colonna.
Non c’è natura viva in nessuno di questi spazi.
Tutto sembra inerte.
Gli umani si aggirano con movimenti algidi, ieratici, privi di compassione se non nell’ultima scena in cui un uomo allatta l’agnellino-attrice, giunto anche in questo caso a chiudere la scena: l’accudimento finirà in modo doloroso, trasmettendo un drammatico senso di impotenza che coinvolge il pubblico, seduto a guardare gesti inesorabili, movimenti che fanno da contrappunto a parole drammatiche, a lordure pulite da mezzi meccanici, per non lasciare traccia.

Torniamo verso la sala Nervi per l’ultima epifania, umana e sonora, affidata al soprano Victoria Vasquez Jurado, la cui voce riecheggia nel grande ambiente prima che la rappresentazione si spenga.

Si tratta di una creazione rara e maestosa nella sua portata, una sfida davvero incredibile considerando che l’ambiente è occupato quotidianamente anche dal cantiere di restauro e con cui, durante le prove, gli artisti hanno dovuto alternarsi in un tentativo di insinuare l’arte in un contesto davvero complesso. Ecco quindi che la creazione, nella sua assoluta limpidezza, nella coerenza che contraddistingue l’opera di Lenz, potremmo dire quasi le ossessioni formali dei due registi, si eleva a un livello artistico notevole.
Apocalisse è certamente operazione del portato intellettuale complesso, con piani di lettura e di interpretazione molteplici, che affondano sia nelle suggestioni bibliche che nelle altre letture, più filosofiche e contemporanee, sul destino dell’umanità.
All’altissima fattura collaborano non solo gli ottimi interpreti, alcuni dei quali interni al percorso decennale sulle identità sensibili cui Lenz ha dedicato una cura continuata, ma anche tutte le maestranze coinvolte, per uno di quegli atti creativi che ormai è quasi impossibile vedere a teatro.
La questione cruciale dell’opera di Lenz risiede nel tenace tentativo di non rassegnarsi al banale, mantenendo una complessità semiotica la cui leggibilità istintiva è possibile sicuramente per tutti, ma che racchiude talune intensità che l’analfabetismo tragico e preapocalittico del nostro tempo rischia quasi di non riuscire più a decodificare.
È forse questo uno degli elementi che attraversa l’opera e la poetica: la nostalgia di un bello, di un’Arcadia, di un luogo dello spirito, da cui siamo ormai inesorabilmente distanti o cacciati fuori, proprio come i nostri antichissimi progenitori biblici.
L’essere umano è causa e al contempo vittima di un destino ineluttabile, connaturato alla propria indole? Quale che sia la risposta, risulta di tutta evidenza che la misteriosa comparsa della vita nell’universo è comunque un’esperienza che, in un futuro siderale, si annienterà in un buco nero, che fra miliardi di anni inghiottirà ogni traccia di vita, destini e memorie. L’Apocalisse dunque, umani a prescindere, è inevitabile, esattamente come la morte.
L’uomo può solo viverla come esperienza filosofica, come concetto legato al proprio essere venuto in vita.

[ APOCALISSE ]

Progetto Sacre Scritture

Creazione di Maria Federica Maestri e Francesco Pititto
Drammaturgia, imagoturgia | Francesco Pititto
Composizione, installazione, involucri | Maria Federica Maestri
Musica | Andrea Azzali
Interpreti | Fabrizio Croci, C.L. Grugher, Boris Kadin, Sandra Soncini
Estrazioni documentarie | Anna Kauber
Riprese video | Julius Muchai // Associazione Amici di Kibiko ODV
Produzione | Lenz Fondazione

Padiglione Nervi _ Area WOPA, Via Palermo 6