RENZO FRANCABANDERA | La seconda giornata di Kilowatt festival cui prendiamo parte a Sansepolcro, quella del 13 luglio, e di cui rendiamo qui testimonianza, comincia con un monologo: ha il sapore della stand Up comedy. Suck my Iperuranio si svolge nell’oratorio della chiesa di Santa Chiara, e ne è interprete l’attore Giovanni Onorato (romano, classe 95, creatore poliedrico: nel 2022 è uscito anche un suo EP intitolato Questo poco che sono). Lo spettacolo l’anno passato è arrivato in finale al bando Direction Under30 del Teatro Sociale Gualtieri e si è aggiudicato il premio Luna Crescente

In scena oltre al fondale chiaro, c’è solo una poltrona, in fondo a destra, una poltrona di pelle color granata, una di quelle un po’ andate in cui affondare per chiacchiere al telefono. Il personaggio si sdoppia a inizio spettacolo con il protagonista che con voce nasale avvisa di questo escamotage drammaturgico volto a creare una doppiezza fra un io narrante e un protagonista, in modo tale da fugare eventuali dubbi di autobiografismo. La premessa ovviamente vale il giusto perché l’escamotage è talmente far loco da indurre poi alla riflessione conseguente che le cose narrate possano avere una qualche cifra autobiografica. Un comico è chiuso nella sua stanza dopo un fallimento amoroso e cerca di non pensarci, sforzandosi di provare i suoi sketch, che però non fanno ridere, in una scrittura originale ispirata ai racconti di Heinrich Böll.

foto di Elisa Nocentini

Il testo ha una sua gradevole argutezza, così come pure la recitazione. Si narrano turbamenti emotivi, esistenziali, creativi del giovane tardo adolescente alle prese con qualcosa che ha già il sapore del bilancio di questo tempo della vita, con la paura che si sia di fronte a un tempo inconcludente e vacuo.
Il tratto del personaggio è quello del giovane Werther, un giovane borghese con un bagaglio culturale sufficientemente ampio, tanto da guardarsi con spirito autocritico e pregare gli spettatori di risparmiarlo dall’aggettivo ‘carino’ usato a proposito dello spettacolo: “Vi prego all’uscita non dite che è un lavoro carino!”. La pièce comunque funziona. Si allunga forse un po’ nel finale, in un doppio finale, ma si fa seguire piacevolmente.

Intorno alle ore 20:00 assistiamo a Bach à la carte! il nuovo lavoro di Marco Augusto Chenevier: coreografo indipendente, danzatore, regista e attore, è direttore del Festival T*Danse che si svolge ad Aosta, e nel ultimi anni ha realizzato una serie di operazioni per la scena tra cui caratteristica centrale è di proporre progetti coreografici volutamente destrutturati, in cui l’interferenza del teatro post-drammatico e del dialogo con lo spettatore hanno lo scopo di mettere in crisi il dispositivo scenico tradizionale, per spostare il pensiero verso questioni altre, che da ancillari diventano l’oggetto stesso della riflessione creativa. Qui la squadra in scena è comporta da una violoncellista, una musicista elettronica e tre danzatori, in un’improvvisazione interattiva, in cui giocano con il pubblico alla costruzione di una coreografia.

Foto di Luca Del Pia

Qui, rispetto alle recenti regie di Chenevier, il salto è doppio perché il pubblico trova all’ingresso un menu intitolato appunto Bach a là carte, in cui vengono prospettate una decina di degustazioni aventi a tema interpretazioni coreografiche di partiture musicali del grande compositore tedesco. Quello che il pubblico ancora non sa, e che viene invece spiegato subito dai protagonisti dello spettacolo, riguarda il fatto che questo menu verrà servito effettivamente sulla base dei gusti degli spettatori. Ma come avviene questa cosa? Attraverso democraticissime votazioni: lo spettacolo è quindi sì uno spettacolo di danza, ma in realtà ciò a cui si assisterà dipenderà da ciò che deciderà il pubblico, che sceglierà chi fra i performer dovrà danzare ciascun episodio, quale temperatura luminosa e quale andamento ritmico avrà l’episodio danzato, in alcuni casi anche la musica.
Insomma, il pubblico, o meglio la maggioranza degli spettatori, decide cosa si va a vedere. Una serie di votazioni intervallano quindi i momenti danzati: ad ogni portata corrisponde una consultazione elettorale, in cui gli spettatori alzano una targhetta verde rossa o gialla a seconda delle preferenze. Fin qui è tutto abbastanza chiaro e ragionevole, visto che la possibilità che il pubblico intervenga sul plot è cosa che già accade in diverse creazioni.
La complicazione sta nel fatto che con l’andare dello spettacolo vengono introdotte modifiche al sistema elettorale, per dirla come si direbbe in parlamento. Quindi le votazioni impongono che venga raggiunta via via una maggioranza sempre più qualificata fra gli spettatori, perché l’esito delle stesse venga ritenuto valido. In sostanza perché si diano alcune scelte sull’andamento dello spettacolo, occorre che almeno la metà, il 60, o l’80% degli spettatori sia d’accordo. Ovviamente si iniziano subito a creare piccoli scompigli. Lo spettacolo si focalizza sulle storture dell’esercizio della democrazia fino alla sua attuale sua forma pornografica, fa comprendere il drammatico tema del voto utile/inutile soprattutto se il voto stesso deve essere espresso, come viene chiesto da chi decide le regole, ovvero in questo caso l’artista, che il tutto debba avvenire in 30 secondi. Quindi non c’è un reale tempo per accordarsi, per  dibattere alcunché: si capisce un po’ qual è l’andazzo della maggioranza e la minoranza, pur di non perdere lo spettacolo, si adegua. E sì, perché se entro i famosi 30 secondi non viene raggiunta un’intesa, lo spettacolo o meglio quell’episodio dello spettacolo, non viene portato in scena. La creazione quindi si trasla da un piano artistico ad uno socio-politico, perché ad un certo punto il meccanismo diventa incredibilmente dittatoriale da parte della maggioranza degli spettatori che alla fine compattano gruppi che si aggrovigliano attorno a aspettative e luoghi comuni, come quello che costringe, gli interpreti ad arrivare alla nudità, per esempio, in un caso in cui la cosa viene messa al voto. Insomma siamo ancora un popolo abituato alla prurigine, in qualche forma. E disabituato al teatro come rappresentazione dell’assurdo ad esempio: ad un certo punto, per dire, avrebbe potuto darsi finanche una combinazione in cui il pubblico poteva scegliere che non ci fosse alcun performer, alcuna musica e alcuna luce. Praticamente si sarebbe potuta dare una intervallo al buio, di pausa, in cui non succedeva nulla e si stava tutti in silenzio nell’oscurità. Sarebbe stato finanche magico. Ma forse si sarebbe trattato di un sistema di scelte effettivamente estreme e questo spiega anche come, troppo spesso, prevalga nel pubblico un gusto comune, mediano, che impedisca l’arditezza dei segni artistici. Insomma alla fine il gusto popolare atterra su un sistema di scelte che spesso non ha l’ardimento di andare verso la sperimentazione. E d’altronde è altrettanto possibile che gli artisti poi, nell’esecuzione, non rispettino effettivamente la volontà espressa dal pubblico, mostrando come non di rado il voto sia un esercizio inutile, perché poi alla fine chi decide fa quello che vuole. L’idea è interessante, il dispositivo delle votazioni e del ritmo delle stesse deve essere ancora rodato nelle repliche, in modo da snellirsi e da permettere che le scelte possibili si compattino, perché il tempo dedicato all’espressione delle preferenze da parte degli spettatori non si dilunghi troppo. Alcuni episodi danzati sono di particolare pregio e generano un ambiente mentale oltre che fisico, di impatto.

L’ultimo spettacolo della giornata è forse la vera sorpresa del festival. Si intitola Mascarades ed è opera di Betty Tchomanga, danzatrice e coreografa francese di origine camerunense, con una formazione in danza classica, modern jazz e contemporanea. Dal 2016 è entrata a far parte dell’Association Lola Gatt, compagnia nella quale lavora alle proprie creazioni.
La creazione è ispirata alla figura di Mami Wata, una dea dell’acqua, una figura proveniente dalle profondità della notte, carica di potere e sessualità.

La performer, all’arrivo del pubblico in sala, è adagiata quasi come una sirena, su un piedistallo posto al centro della scena, con una postura però guardinga, allerta. Parte del piedistallo ha una superficie riflettente che crea l’illusione dell’acqua. Non è certamente una sirena ben vestita, ha un tratto quasi da clochard, che perturba lo sguardo dello spettatore. Quello che succede di qui nei successivi 40 minuti ha però dell’incredibile perché si tratta di una performance di semplicità sconvolgente dal punto di vista dei gesti e della composizione, ma che dal punto di vista emotivo è capace di generare un impatto rarissimo, facendone una delle visioni più intense fra quelle proposte negli ultimi mesi in Italia: uno spettacolo sconvolgente, sebbene in fondo non succeda nient’altro se non che la performer si porti in postura eretta, si tolga un cappuccio dalla testa, sciolga i suoi lunghi capelli legati in trecce, continuando a saltellare sul posto in una danza tribale incessante e ossessiva, durante la quale si compiono pochi gesti di una partitura fisica e coreografica elementare ma sempre in crescendo, sviluppata in un continuo dialogo di sguardi con il pubblico che viene progressivamente incatenato dentro un rito di potenza sciamanica assoluta.

Foto di Elisa Nocentini

In quegli sguardi, in quel ritmo ossessivo in quel guardare profondamente fra ingaggio e domanda bruciante interiore, c’è davvero tutto, dalla identità culturale millenaria delle popolazioni indigene di ogni latitudine alla costrizione introdotta dal sistema capitalistico di marginalizzazione e schiavitù, dal senso di desiderio alla sua mercificazione nel mondo occidentale.
La donna è quasi costretta a saltare, incessantemente, senza avere nessuna possibilità di sfuggire a questo gioco se non in un finale in cui si libera con urla animalesche e con un testo poetico dalla cifra politica, e scendendo dal palco arriva quasi incombente, minacciosa sul pubblico, a rivendicare qualcosa in un drammatico faccia a faccia che ovviamente non si risolve in nulla, ma che genera un pathos incredibile. Si tratta di un distillato di capacità di costruzione attorale teatrale di massima potenza. In scena praticamente non c’è nulla se non l’attrice, eppure c’è tutto in questo nulla, c’è la meraviglia di un linguaggio i cui grandi interpreti riescono a creare tutto dal niente.
Quando succedono queste magie occorre inchinarsi. Chi non conosce l’artista ne recuperi la creazione. È una delle 10 cose che valeva la pena vedere quest’anno.

Foto di Elisa Nocentini

 

SUCK MY IPERURANIO
per una stand-up comedy triste, ironica, potenzialmente straziante

di e con Giovanni Onorato
musiche Adriano Mainolfi
con la collaborazione di Margherita Franceschi
aiuto drammaturgia Teodora Grano
con il sostegno di Teatro Studio Uno, Carrozzerie n.o.t

 

BACH À LA CARTE!

drammaturgia, coreografia, interpretazione Marco Augusto Chenevier
assistente alla coreografia Alessia Pinto
e con Nitsan Margaliot
musiche J. S. Bach e Pyur Sophie Schnell
musica elettronica Sophie Schnell Pyur
violoncello Serena Costenaro
scena e disegno luci Monica Bosso
luci Marco Santambrogio
produzione Cie Les 3 Plumes con il sostegno della Regione Autonoma Valle d’Aosta
coproduzione CCN Hauts-de-France – Ballet du Nord de Roubaix
sostegno in residenza Performing Lands_Ass.culturale IdeAgorà – Mirabilia Festival Europeo, Compagnia TPO – Teatro Fabbrichino – Prato
Un ringraziamento speciale all’Istitut Français di Firenze e al PARC Performing Arts Research Centre- Fabbrica Europa

 

MASCARADES

coreografia e interpretazione Betty Tchomanga
luci Eduardo Abdala
suono Stéphane Monteiro
produzione Association Lola Gatt
sguardo esterno Emma Tricard, Dalila Khatir
vocal coach Dalila Khatir
direttore di produzione Aoza – Marion Cachan
grazie a Marlene Monteiro Freitas, Gaël Sesboüé, Vincent Blouch