ENRICO PASTORE e RENZO FRANCABANDERA | Dentro un’edizione 23 di Biennale Danza ricca di visioni interessanti e artisti internazionali, è stato sicuramente grande il successo di pubblico e critica ottenuto da Mám di Micheal Keegan-Dolan, coreografo irlandese con una lunga e brillante carriera, prima con la Compagnia Fabolous Beast e ora con Teaċ Daṁsa.

La coreografia ci conduce sulla vetta di una montagna incantata, quella del Cnoc Bréanainn, il monte sacro del Kerry Gaeltacht, in Irlanda, su cui si dice abbia meditato San Brentano, il mistico viaggiatore medioevale. Mám in gaelico significa “passo di montagna”, ma possiede una seconda valenza semantica: l’essere sotto il gioco del peccato. Il monte diventa dunque un luogo di passaggio e di incontro, un ambiente in cui sperimentare e giocare con il mondo, passando attraverso vari strati di coscienza e facendo collidere diverse realtà possibili, pure e peccaminose, limpide ed equivoche, meravigliose e terrificanti. Micheal Keegan-Dolan fa parte di quella discendenza artistica di stampo britannico in cui la ricerca si coniuga con la tradizione. È una lunga genealogia che potremmo far cominiciare arbitrariamente con Henry Irving e Ellen Terry, per proseguire con Edith Craig e Haley Grenville-Barker, fino a Peter Brook e ora Akram Khan e Keegan-Doolan. Quest’ultimo si è confrontato, fin dall’inizio della sua carriera, con i classici del balletto fornendone una versione moderna, rivisitata, in cui gioca con gli stilemi del balletto, senza rifiutarli, ma ibridandoli con il contemporaneo in chiave pop. Ripercorrendo a ritroso i suoi lavori troviamo Il lago dei cigni (2017), Giulio Cesare di Haendel (2012), The rite of spring (2009), Giselle (2003). Il tema del confronto con la tradizione, il suo rifiuto o integrazione, è un tema ancora scottante. Ne tratta anche Milo Rau nel suo Manifesto di Gent. In Italia sembra che tale confronto sia ancora manicheo: o per la tradizione o per l’innovazione. Sembra non possa esistere compromesso. Si guarda alle mescolanze e alle coniugazioni con sospetto, quasi che venire incontro al pubblico rendendosi riconoscibili sia un tradimento. Si dimentica sempre il terzo attore della questione, il pubblico, il cui sguardo crea la realtà dello spettacolo. Non quello del critico, né quello dell’operatore o dello studioso. È lo spettatore che riempie o meno i teatri e decreta il successo o meno di un’operazione.

RF: Sicuramente il tema riguarda una forma spettacolare che in Italia immotivatamente fatica a trovare interpreti all’altezza. Se si considerano ad esempio le proposte avanzate nell’ultimo quindicennio da Alan Platel con la sua compagnia, e ampiamente circuitate in Italia in festival e stagioni, ma anche alle proposte più recenti di collettivi come Peeping Tom, questa nuova versione ibrida del teatro danza che si unisce alla creazione musicale dal vivo, in fondo non è altro che una versione aggiornata di un codice che in Europa è antichissimo, quello del cabaret con musica, arricchito o quasi del tutto spostato proprio sul codice coreografico, che in queste declinazioni assume sempre un peculiare tratto a suo modo espressionista, che contiene sia un ritratto della società che un rimando all’archetipo, al mito. E chi osserva porta in vita tutto questo.

EP: È l’antico gioco tra Persefone/Kore e Ade. Kore, la pupilla, nel guardare Ade e incontrando il suo sguardo, rende reale e possibile il rapimento, che, nascosto dall’occhio che guarda, non solo non sarebbe possibile ma non esisterebbe nemmeno. La bambina vestita di bianco con cui lo spettacolo di Keegan-Dolan si apre, distesa sul tavolo al centro del palco, novella Persefone, scatena l’azione, nel momento in cui, attratta da un suono, volge il capo e incontra il nero capro armato di concertina (il meraviglioso musicista Cormac Begley, accompagnato dall’ensemble jazz sperimentale berlinese Stargaze).

RF: Dal punto di vista della geografia del palcoscenico, lo spettacolo si svolge su diversi piani di azione, sia nel senso della verticalità, sia nel senso del disvelamento nella profondità. Il piano della musica sovrasta quello dell’azione danzata: il musicista è su una pedana sopraelevata, mentre i danzatori agiscono sul piano del palcoscenico. Il capro sovrasta la bambina, pur stesa su un tavolo che poi verrà issato da un gruppo di figure dal significato ambiguo.
Il primo quadro, infatti, si completa con l’apparizione, dietro la bambina e il diabolico caprone nero armato di fisarmonica, di una serie di inquietanti figure incappucciate che hanno a che fare proprio con l’iconografia angelico-diabolica delle entità ultra terrene. Tali inquietanti apparizioni si muovono sincroniche, quasi complici del capro musicante. Il tutto prosegue fino a quando la bambina non tira fuori un pacco di patatine e in modo un po’ dissacrante si pone davanti alla creazione con l’intento proprio di guardare e divertirsi, un po’ come a cinema. Segue una prima serie di coreografie ispirate al ballo tradizionale di derivazione irlandese, che la bambina guarda con distaccata curiosità.

Progressivamente arriva a porsi centrale il tema dello sguardo cui si faceva cenno: è lo sguardo che scopre e via via indaga un livello successivo, quando la tenda sul fondo dietro l’armonicista rivelerà un secondo piano musicale, occupato dall’orchestra berlinese; a tale disvelamento fa seguito la seconda parte dello spettacolo, in cui musicalmente il tema tradizionale viene ibridato da interferenze musicali in chiave jazz e orchestrale contemporanea. In questi ambienti sonori prende vita una vera e propria festa di paese danzata, con tanto di sedie, lampadine, balli, feste, prossimità, sia un ritratto delle dinamiche relazionali che si danno nelle comunità, e quindi anche di iniziazione sociale della bambina spettatrice. La circostanza del ballo come luogo di accesso al ruolo sociale d’altronde è molto presente nelle tradizioni se si pensa ad esempio al ballo delle debuttanti, all’inserimento dei bambini dentro i rituali adulti. A me è parsa senza dubbio un danza che racconta l’umano, ne parlavamo all’uscita del teatro Malibran. Che dici Enrico?

EP: Mám è una danza-mondo in cui stati di guerra, lotta, amore, malinconia, trasmutano uno nell’altro in un caleidoscopio di visioni ed emozioni tali da coinvolgere lo spettatore, nel processo creativo.

Mam di Micheal Keegan-Dolan @LaBiennale di Venezia

La visione nel gioco compositivo di Micheal Keegan-Dolan diviene il motore mobile della trasformazione che avviene sul palco e nella platea. I danzatori agiscono e si osservano, lo sguardo dello spettatore a sua volta danza sul palco e nel guardare si trasforma con la scena. Lo sguardo innesca il movimento e le apparizioni. Lo sguardo termina questo sogno ad occhi aperti, quando la bambina fissa e indica la platea. La realtà a cui abbiamo assistito è esistita solo nella relazione degli sguardi, distolti i quali tutto svanisce in uno sbuffo di fumo, confermando l’assunto di Oscar Wilde, in apertura al Ritratto di Dorian Gray: «l’arte in verità non rispecchia la vita, ma lo spettatore»

RF: Resta solo da decifrare la apocalittica scena finale (scenografia di Sabine Dargent) in cui la bambina è issata nuovamente sul tavolino, ma questa volta più in alto di tutti: inizia a dirigere il coro dei performer che sono sotto di lei in vocalismi monotóni. Questa scena però si conclude con un esito assai ambiguo, incerto, con i fumogeni che iniziano a soffiare potenti e tre gigantesche ventole poste sul fondo della scena a girare vorticose, spingendo tutto il fumo nella sala, mentre si spengono le luci e resta acceso solo il controluce che volge al nero la sagoma della bambina e di tutti gli altri artisti che occupano la scena in un silenzio surreale. È un presagio funesto? La premonizione di una catastrofe che si sta per abbattere sull’umanità? L’auspicio di un passaggio di potere verso le nuove generazioni, che devono educare quelle passate ad un nuovo vocabolario della vita?

La natura che prende il sopravvento proprio mentre si cerca il nuovo orizzonte futuro? Proprio l’ambiguità del finale lascia il pubblico così tanto perturbato dopo la energica performance, che la reazione è una standing ovation con un lunghissimo applauso che omaggia gli artisti e il regista.
Uno spettacolo energico e potente nella visione. Come se ne vedono pochi.

 

MÁM

Creato da: Michael Keegan-Dolan
In collaborazione con: Teaċ Daṁsa
Musica: Cormac Begley, s t a r g a z e
Con: Imogen Alvares, Cormac Begley, Beatriz C. Bidault, Romain Bly, Kim Ceysens, Marlies van Gangelen, Caimin Gilmore, James O’Hara, Aki Iwamoto, Zen Jefferson, Mayah Kadish, Timon Koomen, Maaike van der Linde, Amit Noy, Keir Patrick, Rachel Poirier, Ellie Poirier-Dolan, Connor Scott, David Six, James Southward, Latisha Sparks, Carys Staton
Scenografia: Sabine Dargent
Luci: Adam Silverman
Costumi: Hyemi Shin
Sound design dal vivo: Sandra Ní Mhathúna
Sound design originale: Helen Atkinson
Sound design aggiuntivo: Romain Bly, Jelle Roozenburg
Coordinamento musicale: Romain Bly
Direzione prove in tournée: Mani Obeya
Produzione: Dawn Prentice
Gestione generale: Áine Ní Éalaí
Gestione di produzione: Michael Lonergan
Direttrice di scena: Marina Dunford
Vicedirettrice di scena: Sinéad Cormack
Assistente alla direzione di scena: Iain Synnott
Direttore tecnico di scena: Danny Hones
Gestione costumi: Amanda Donovan
Tecnici del suono: Daragh Murphy, Ber Quinn
Gestione luci: Dónal McNinch
Co-prodotto da: Dublin Theatre Festival, Sadler’s Wells (London), New Zealand Festival of the Arts
Con il supporto di: NASC & Nomad touring networks
Tournée internazionale supportata da: Culture Ireland
Produzione finanziata da: Open Call award, the Arts Council of Ireland
In collaborazione con: Fondazione Teatro La Fenice
Anno/Durata: 2019, 80’ (prima italiana)