LEONARDO DELFANTI | Incastonato da 37 anni nel mezzo delle colline senesi, anche quest’anno giunge a termine Radicondolifestival, guidato dal regista Massimo Luconi. Dall’8 al 31 luglio, il paesino toscano, che conta poche centinaia di abitanti, si riempie di installazioni, eventi e performance per celebrare il rito della comunità all’insegna del teatro di militanza e della multidisciplinarietà. Uno sforzo comune, premiato dal Ministero che da alcuni anni ne riconosce l’alto valore artistico con un finanziamento che vuole valorizzare un progetto capace di rinnovarsi senza mai perdere la sua forte identità territoriale.

Già presenti nel 2018 e nel 2019, quest’anno abbiamo intervistato il direttore artistico per comprenderne traiettorie e filosofia.

Da qualche anno Radicondoli Festival ha un occhio di riguardo per la sostenibilità. In che modo vi siete trasformati in un festival green?

In effetti è un festival che è molto leggero dal punto di vista dell’impatto ambientale e per attenzione al risparmio energetico. Abbiamo fatto un po’ di necessità virtù perché la svolta c’è stata, soprattutto quando sono arrivato e ho trovato una gestione che aveva centralizzato quasi tutto sulla piazza del paese, con un’installazione molto invasiva. C’era un palcoscenico con ring e tribune che piaceva poco perché ovviamente bloccavano la piazza per tanti giorni. Questo aveva dei costi di gestione molto alti che incidevano pesantemente sul bilancio finale.

E quindi, un po’ per il fatto che mi è sempre piaciuto lavorare nei luoghi veri, ma anche perché ho capito che bisognava semplificare, abbiamo deciso di dilatare il festival negli spazi di Radicondoli, che sono bellissimi dal punto storico e architettonico: la radura di un agriturismo, un boschetto di querce, una collinetta vicino al paese oppure una piccola chiesa romanica, appena fuori paese, in cui si svolge la parte principale del festival.

Inoltre, percorrere luoghi attraverso il teatro è una cosa che mi ha sempre affascinato moltissimo. È questo il caso di Secret Rooms; quattro attrici che hanno riaperto palazzi, cantine e una vecchia falegnameria sconosciuti anche ai locali per raccontare delle storie.

Qual è stata la risposta?

Il pubblico apprezza questo tipo di cambiamento verso un festival più itinerante. Questo è stato possibile perché abbiamo la fortuna di avere un posto così caratteristico. Oggettivamente, dal 2012 ad oggi abbiamo abbassato notevolmente i costi, soprattutto in allestimenti tecnici.

In effetti, il caso di Radicondoli sembra riassumere molti degli elementi cardine del modo odierno di pensare un festival: l’attenzione alla comunità, all’impatto ambientale e anche l’abbattimento dei costi vivi. Cos’è cambiato secondo te, nella tua decennale esperienza come direttore artistico?

Ma guarda, il caso Radicondoli è stato anche portato alla Bicocca qualche giorno fa; d’altro canto è curioso che un posto così piccolo abbia tenuto un festival per 37 anni. E qui va dato merito prima alle amministrazioni che si sono susseguite negli anni e poi a un gruppo di volontari che ha sempre avuto a cuore il festival. Pensa che noi abbiamo 50 abbonati fissi sui 300 abitanti di Radicondoli.

Inoltre, io vengo da esperienze molto grosse, e tutto mi sembra, non facile ma possibile. Sicuramente il nostro legame col ministero ha dato nuova linfa al progetto. Per prima cosa ci sono dei parametri da dare, da considerare, dei soldi da rendicontare attentamente, specialmente quest’anno che siamo stati premiati con un finanziamento extra perché anche durante il COVID siamo riusciti a organizzare la manifestazione.

Poi un festival, rispetto alla programmazione di un teatro, non ha tempi morti: noi tutti i giorni abbiamo due o tre eventi. Inoltre, una cosa interessante di quest’anno sono i giovani: un bel gruppo di ragazzi che gravitano intorno all’organizzazione e ci danno una mano a spostare sedie e attrezzatura sempre in movimento.

Quali sono le tematiche che avete deciso di trattare quest’anno?

Il tema sociale e politico è sempre molto forte. Quest’anno, in particolare, ci sono due blocchi esemplificativi: uno chiamato “arcipelago russo”, con progetti che parlano dei problemi del Paese ma anche della bellezza della sua letteratura, capace di raccontare l’umanità in modo straordinario. Ne è esempio lo spettacolo con Alvia Reale basato sul libro “Tutto Scorre” di Grossman, capace di indagare lo sterminio perpetrato da Stalin sui contadini russi, ma di aprire  squarci sulla gravissima bellezza dell’Uomo; l’altro, chiamato “Afrique mon Afrique”, che racconta l’Africa non solo attraverso la problematica dell’immigrazione, ma anche come un continente ricco di espressività e creatività.

Per via dei tantissimi appuntamenti, solo in un secondo momento ho realizzato che c’è una grande presenza dello sguardo femminile.  Penso a Dacia Maraini, Violeta Parra e alla presenza di tantissime opere di letteratura al femminile.

Un altro tema è anche quello del connubio, che a me piace molto, tra grandi maestri e giovani di talento che portano avanti il loro lavoro con serietà. Questo genere di incontri mi sembra molto importante.

Mi diceva una volta un artista che un’opera d’arte, è un po’ come una lasagna: è fatta da diversi strati di lettura. Volendo stare in metafora, come regista e direttore artistico, hai riscontrato anche tu questa forma di recezione trasversale?

Sì, come regista mi è successo più volte di rileggere un testo a distanza di tempo o ricevere un commento sul mio lavoro e comprenderne qualcosa di nuovo. Come in questo caso, credo che certe scelte che ho fatto non fossero troppo pensate, ma sono risultate ugualmente importanti.

Perché è così? Non penso che la regia sia un lavoro artistico, ma sicuramente è creativo. Quindi tocca più sfere, e in quella emotiva e istintiva le scelte non possono essere fatte a tavolino. Vengono e avvengono dietro convegno, una trainata dall’altra.

C’è poi il rapporto con l’arte contemporanea. Un prologo di due giorni che diventa una presenza fissa del festival. Gli artisti, anche importanti, lasciano tracce del loro passaggio. Si tratta di Paolo Fabiani, Luca Gilli e Vittorio Corsini. Quest’ultimo ha installato una scritta luminosa sulle mura del paese. Mi è piaciuta molto, è un invito del paesaggio ad abbandonarsi alle emozioni. “Nel paesaggio bisogna farsi ciechi”, non solo scattare foto o essere attratti visivamente, ma lasciarsi trasportare, entrarci dentro.

Questo risultato è dovuto anche alla sensibilità dell’amministrazione perché, se non l’avessero voluto, dopo il primo anno avremmo dovuto abbandonare questo progetto. Invece è una linea che ritengo concordata e quindi realizzata. Ovviamente non fa parte del pensiero del teatro, ma in qualche modo ne lascia delle tracce.

Sembra quasi che tu voglia strecciare la definizione di festival per poterne allargare il tempo e lo spazio sempre più intrecciandone multidisciplinarietà e comunità…

Fortunatamente, sempre più festival stanno rendendosi conto della necessità di sperimentare.

Nei festival degli anni’70 e ’80 si respirava un senso di comunità che è poi andato perdendosi a causa della crescente specificità. Credo che alcuni siano rimasti al teatro tradizionale, mentre altri hanno portato avanti un lavoro di ricerca improntato alla multidisciplinarietà. Proprio tramite quest’ultima, secondo me, si sta ritornando al modo di stare insieme del passato. C’è voglia di lasciarsi andare agli aspetti più passionali ed emotivi e a concentrarsi meno su quelli estetici.

L’estetica e la tecnologia non hanno sempre fatto bene al teatro, anche se ci sono degli esempi straordinari. Il rischio, però, è di insistere in modo quasi narcisistico sulla dimensione estetica, creando una riflessione un po’ fine a sé stessa e allontanando il pubblico. Queste scelte hanno anche portato in una nicchia di addetti ai lavori certe produzioni, certe linee che invece sono entrate poco in circolo.

Forse, tra le cose utili che ha fatto il COVID c’è quella di averci fatto pensare un po’ di più.