GILDA TENTORIO | Si è da poco conclusa la 26esima edizione de “L’Ultima luna d’estate” (25 agosto-3 settembre), fortunato festival curato da Teatro Invito di Lecco e diretta da Luca Radaelli. L’idea è salutare la bella stagione portando più di venti spettacoli, concerti, passeggiate letterarie in spazi aperti nel Parco regionale di Montevecchia e della Valle del Curone nel la Brianza lecchese e monzese, luoghi poco noti ma suggestivi, fra cascine, parchi, oasi verdi e giardini di ville. La formula funziona e si rafforza con il tempo: in dieci giorni, ben 2500 spettatori! Per la riuscita alchimia gli ingredienti sono almeno tre: proposte di qualità, sinergia con i Comuni e il pubblico, che risponde con entusiasmo, i fedelissimi e molti nuovi adepti.
Questa edizione è sotto il segno della citazione di Charles Evans Hughes: «Quando perdiamo il diritto di essere diversi, perdiamo il privilegio di essere liberi», un manifesto contro il pericoloso appiattimento omologante che, sotto la pseudo-categoria di ‘normalità’, disegna canoni e traccia confini, escludendo chi non si adatta.

E ciò che occorre dunque è un festival che ribadisca la necessità di essere diversi, perché questo è il compito dell’arte: sperimentare oltre i limiti e oltre il soffocante buonsenso delle convenzioni, portare alla luce temi scomodi, scavare nel buio della sofferenza. Ecco allora gli spettacoli dedicati ad artisti tormentati (Un bès. Antonio Ligabue di Mario Perrotta, 25/08 e Io, Vincent Van Gogh di Corrado D’Elia, 29/08), ma anche la necessità di cambiare sguardo sul nostro Pianeta, come nello spettacolo itinerante Abitare la terra di Silvio Castiglioni, 26/08.T

I tre spettacoli che ho seguito trovano un mirabile collante nelle gradazioni del tema scelto dal festival.

In occasione dei 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, Teatro Invito ripropone La colonna infame, che si è svolto (30/08) nella splendida cornice del Monastero della Misericordia di Missaglia, sotto archi affrescati e tetto spiovente. In mirabile sinergia, i due attori (Valerio Bongiorno e Luca Radaelli) danno voce a un racconto che ha i tratti di un legal thriller: sono narratori, diventano personaggi, entrano ed escono dai ruoli alternando timbri vocali, canti della tradizione (bellissima la ninna nanna) e schegge di dialetto lombardo. Giugno 1630: Milano è flagellata dalla peste e le autorità sono alla disperata ricerca di “colpevoli”. Nelle maglie della giustizia cade Guglielmo Piazza, denunciato come untore per certi suoi gesti incauti sfiorando un muro, e inizia allora un gioco al massacro: il suo iniziale “Mi non so niente”, si scontra con il bisturi del giudice interrogante, spietato o talvolta animato da un brio circense, quando pensa di avere gli elementi per la condanna. In questo meccanismo assurdo la verità di Guglielmo non soddisfa, “non è verisimile”, cioè non è un’evidenza palese di confessione, dunque l’imputato mente ed è pertanto legittima la tortura. La chitarra di Maurizio Aliffi crea l’atmosfera claustrofobica di irrazionalità, gemiti, urla.

Il ritmo si fa sempre più serrato. Mentre la peste infuria e “il popolo esclama”, l’urgenza è pressante: occorre trovare i colpevoli. Il Piazza farà il nome del barbiere Giangiacomo Mora e i due, stremati dalla tortura, costruiranno un castello di bugie che coinvolge vari altri personaggi, resi in scena da pupazzi appesi a un’esile corda tesa fra tre piantane. I “burattinai” sono questi poveri diavoli presi negli ingranaggi di una macchina giudiziaria che non cerca la verità ma solo capri espiatori.

La sentenza di morte per i due sarà terribile, segnata dai graffi perturbanti della chitarra di Aliffi, mentre un’altra chitarra vengono strappate le corde, un atto simbolico di forte impatto. Manzoni mostra la degenerazione feroce a cui portano la paura, l’ignoranza, l’abuso del potere e il pericolo del pensiero unico che appiattisce le opinioni, che violenta la verità e massacra gli innocenti perché deboli o poveri.

Cattivo (regia di Giuliana Musso) è un monologo tratto dal romanzo Cattivi di Maurizio Torchio e interpretato magistralmente da Tommaso Banfi. Ne abbiamo già scritto per PAC, ma come spesso succede un luogo diverso trasmette sensazioni nuove. Siamo nel Parco Verde di Lomagna (02/09), sta calando il tramonto e si sentono i primi rumori della natura notturna. Eppure anche con questo sfondo vegetale il monologo non perde potenza perché Banfi riesce a calarti nel clima claustrofobico della cella. Protagonista è un detenuto al “fine pena mai”, che è stato dimenticato nella cella d’isolamento di un carcere-isola. È mosso da un’urgenza incontenibile di parlare, dalla necessità di ascoltarsi e di provare a se stesso che è ancora vivo e uomo. Il prigioniero (captivus in latino) ti conquista, con la sua parlata un po’ strascicata, la camminata incerta di chi ha le membra rattrappite, gli attimi di poesia o di candore infantile. Ti sorprende con riflessioni profonde sul dentro e il fuori, perché il tempo immobile di chi è rinchiuso è anche un’immersione nella memoria e nell’anima. Ti turba con dettagli crudi della vita in carcere (le retate delle guardie con i manganelli) e soprattutto con la sua ambiguità: è stato a sua volta un carceriere, quando ha tenuto una donna sequestrata in una “tana” per sette mesi – di nuovo uno spazio angusto, di nuovo il tentativo di allacciare un legame. Sembra un ingenuo, finito in un piano più grande di lui, ma ecco che ti rivela che è stato un omicida – e il racconto ha la forza incalzante della disperazione, anche se pronto a cambiare di segno: forse è stato la pedina di un gioco voluto da altri? La solitudine è cifra costante della sua vita, segnalata in scena da un telo incerato che diventa mantello, riparo, rifugio, presenza amica e annullamento di sé.

E infine quella speranza assurda del “dopo”. Anche quando è lucidamente consapevole che ormai è l’ultimo abitante dimenticato del carcere, sogna un silenzio solitario e paziente fra i ghiacci del Polo o in un mitico Paese del Nord dove tutti vanno in giro nudi, senza vergogna, senza dolore, ma con dignità: “laggiù vorrò tutta la bellezza possibile”.
E su questa voracità per un dopo che spalanca i limiti e resiste, mentre il personaggio svanisce sotto il telo, suonano le campane della chiesa vicina, e quel suono imprevisto sembra scandire un orizzonte di possibilità.

Un pubblico affettuoso ha accolto nel Parco Robinson di Lesmo (02/09) Antropolaroid, lo spettacolo-manifesto di Tindaro Granata (cfr. l’intervista di PAC ). Fra il pubblico, uno stuolo di ammiratori che lo seguono ovunque e conoscono lo spettacolo a memoria, eppure eccoli ancora lì. Perché Granata ti conquista con i suoi modi timidi e delicati, quando spiega la sua genesi e l’importanza del raccontare. I cuntisti siciliani, come i narratori-pastori sardi o quelli davanti alla ‘stube’ in Trentino, non si stancano di ripetere, perché anzi l’iterazione è una delle ricette magiche dell’oralità. Mentre alle sue spalle sale la grossa luna d’agosto e i profili neri degli alberi si addolciscono d’argento, Tindaro ci porta nella sua Sicilia, che sentiremo nelle sonorità del dialetto e nelle vibrazioni emotive dei personaggi nei tanti “fotogrammi” della famiglia Granata.
Istrionico e irresistibile, Tindaro dà voce ai suoi parenti: basta capovolgere il gilet sulle spalle, ed ecco lo scialle di zia Peppina, sollevato sulla testa invece è il fazzoletto portato da nonna Concetta; con una forza metamorfica Tindaro diventa un bambino di cinque anni o un giovane aitante e sbruffone.

Ci fa respirare i ritmi di una Sicilia ancestrale, dominata dal culto della famiglia e della reputazione, fra contadini e pescatori che si arrabattano per tirare a campare anche se non sono tutti stinchi di santo. Le figure più sorprendenti sono le donne, capaci di scavalcare le convenzioni: alcune sono zitelle determinate, oppure nonne depositarie di storie antiche, giovani innamorate ribelli o ex-prostitute dal cuore d’oro.

Tutti sono profondamente legati alla terra e a quel fatalismo per cui “nasci contadino e muori contadino, nasci ricco e muori ricco”. Ma Tindaro ha detto no e ha dato scandalo: lui ha deciso di seguire il suo sogno di diventare attore, senza mai dimenticare la stella luminosa che gli ha “regalato” la nonna, che porta fortuna, bellezza e sofferenza. Perché la sofferenza è la forza per superare il dolore, che talvolta prende anche la forma del distacco necessario. Ma le radici restano.

L’ULTIMA LUNA D’ESTATE | 25 agosto – 3 settembre 2023

LA COLONNA INFAME
con Valerio Bongiorno, Luca Radaelli e Maurizio Aliffi alla chitarra
produzione Teatro Invito

CATTIVO
dal romanzo “Cattivi” di Maurizio Torchio
di e con Tommaso Banfi
dispositivo scenico Francesco Fassone
musiche Claudio Parrino
sarta Chiara Venturini
regia Giuliana Musso
produzione ariaTeatro / La Piccionaia

ANTROPOLAROID
di e con Tindaro Granata
elaborazioni musicali Daniele D’Angelo
produzione Proxima Res