ELENA SCOLARI | Vi sarà senz’altro capitato di vedere pubblicità di prodotti insinuarsi nei vostri profili social o sulle app dopo averne parlato: chiacchiero con un’amica di un cappotto nuovo che vorrei ed eccone di mille fogge e marche comparire sul cellulare in mezzo alle previsioni del tempo; dico al mio compagno che dovremmo cambiare divano e giù sofà tra gli orari dei treni. Il mago nascosto che tiene tantissimo a esaudire i nostri desideri non dorme mai.
Il grado successivo di veggenza se lo sono immaginati i Menoventi: Odradek è una specie di Amazon che recapita a casa qualunque cosa tramite corriere, in bellissime scatole con il logo della ditta, un occhio. La particolarità è che l’oggetto arriva prima che ti serva.
La scena (di Andrea Montesi e Gianni Farina) è un soggiorno di casa, a sinistra l’ingresso, a destra un angolo cucina, al centro un divano; i locali sono delimitati da pareti di colori saturi, accesi e un po’ fiabeschi, creano un ambiente tra Edward Hopper, David Hockney e la casa dei Simpson.
Il campanello suona, l’uomo delle consegne (Francesco Pennacchia) porta un pacco non richiesto, la padrona di casa M (Consuelo Battiston) va verso la porta per aprire, camminando urta il tavolino e fa cadere il boccale di birra, che si rompe. Il corriere le dice che può aprire il pacco e decidere se tenere il contenuto facendoselo addebitare, nel pacco c’è un boccale da birra nuovo.
La cosa si ripete più volte: il campanello suona, questo provoca un cortocircuito con il televisore e il lampadario per cui M deve cambiare canale per rimettere le cose in ordine. In ordine si fa per dire, perché la suddetta lampadina parla, e non stupisce più di tanto, data la situazione che si va creando. Parla ed è pure un po’ petulante, infatti rimprovera la donna e la mette in guardia dall’uomo delle consegne Q, che senz’altro ha in mente qualcosa.
M chiacchiera al telefono con A, un’Amica virtuale che le suggerisce “Tu hai bisogno di un uomo”. Evidentemente A non è d’accordo con la lampadina.
Driiin! Riecco Q, tra i due comincia a nascere una certa confidenza e M inizia a pensare che forse… “Eh, però non mi devi entrare con le scarpe in casa. Vedi? Io ho le pantofole”. Nel pacco che Q porta, ordinato sempre da terzi, c’è proprio un paio di pantofole del numero giusto! E così l’uomo può varcare la soglia, se manca una bottiglia di vino per condividere un bicchiere arriverà, ne siamo certi.
Musiche, suoni (di Andrea Gianessi), situazioni, atteggiamenti, intreccio, insinuano pensieri niente affatto rassicuranti ma non c’è morale, c’è uno smarrimento sottile di cui non si indica la soluzione. Odradek accende l’interruttore del pensiero, senza indurre interpretazioni.


I due attori sono molto misurati, Pennacchia ha un che di sovrannaturale, tanto casalingo quanto alieno, Consuelo Battiston indossa un abito che – seppur bianco – ricorda quello di Alice nel paese delle meraviglie (costumi curati da lei con Elisa Alberghi), la ripetitività dei suoi gesti la rende precisamente irreale anche se qua e là perde quel senso di distanza da sé e un pizzico di frenesia nei movimenti la rende troppo realistica. Odradek è pieno di piccoli trucchi che sorprendono, di piccoli fatti che non si spiegano, come in fondo non si spiega il grande fatto della vita. Se per una merce indesiderata si può ‘fare il reso’ (se si ha una penna, scena esilarante che non riveliamo), così non è per quello che di spiacevole ci accade, incontri compresi.
Lo spettacolo di Menoventi tocca di striscio alcuni grandi temi: il consumismo, il bisogno indotto, l’occhio del grande fratello, la messa in dubbio del libero arbitrio, il prevalere delle macchine sull’uomo, la meccanicità che impoverisce l’esistenza. Ma, vivaddìo, non alza mai il ditino, non vuole spiegare alcunché, soltanto butta degli ami allo spettatore con una ironia acuta. I Menoventi indicano i punti, sta a noi unirli.

Continua il nostro diario dal festival Colpi di scena appena tenutosi a Forlì e Bagnacavallo, organizzato da Accademia perduta per la direzione artistitica di Claudio Casadio e Ruggero Sintoni. Proviamo a tracciare alcune linee di collegamento.
Se il mostro astratto di Odradek è l’incapacità di riprendere in mano noi stessi, i nostri gesti con tutto quello che ne consegue, il mostro Frankenstein fa molta meno paura: quell’essere frutto del montaggio di pezzi morti che grazie a una scintilla di elettricità riprende vita non è così pericoloso, più pericolosa è l’intenzione che ci sta dietro, la volontà di sostituirsi a dio e di sconfiggere il buco nero della morte. Il vero centro dello spettacolo di Elsinor però non è questo, argomento scivoloso ma dal fascino filosofico irresistibile, bensì un rovesciamento di prospettiva per cui sarebbe più interessante parlare di Mary Shelley donna e della condizione di autrice nella prima metà dell’800 che della sua opera e del senso di questa.
Il lavoro è da seguire con le cuffie indosso (tecnologia audio Binaural), in scena c’è un grande schermo sul quale vengono proiettate immagini che vanno dal doppio della protagonista (Laura Palmeri dal vivo e Giuditta Mingucci in video), in forma di ologramma, dentro una cornice dorata e in costume d’epoca, ad altre in cui quell’oggetto misterioso che viene chiamato “contemporaneo” irrompe e la Shelley sta – per esempio -, molto a lungo e sempre in abito ottocentesco, tra gli spazzoloni di un autolavaggio che si chiama Stargate con alle spalle una Mini. Non azzardiamo esegesi.


Ora, accettiamo che il romanzo sia messo ai margini, allora però dovrebbe esserci un’idea narrativo/artistico/teatrale altrettanto forte da giustificare la produzione di un lavoro che  gira intorno a un apparato tecnologico sonoro e visivo indubbiamente complesso e raffinato ma che diventa un esercizio estetizzante senz’anima. Palmeri ha una recitazione fine, è una presenza preziosa ma che perde potenziale proprio perché costretta a un dialogo posticcio con proiezioni che dovrebbero aggiungere una dimensione e che invece tendono ad appiattire il tutto in una matrice che fa di Frankenstein più un’installazione che uno spettacolo. Forse le richieste del bando europeo Play-On New Storytelling with immersive technologies cui il lavoro si richiama hanno finito per fagocitare gli elementi più vivi del progetto a vantaggio di quelli intellettualistici.
L’argomento secondo cui, ci è parso, si compie un parallelo tra “la creatura” mostro, la creatura bambina (la figlia che M. Shelley perde) e la creatura libro, potrebbe essere sviluppata indagando in modo più intelligibile le sovrapposizioni e le connessioni fra i ruoli di autrice, di costruttrice di un’idea e di donna nel mondo di due secoli fa; il lavoro invece si perde soprattutto in elucubrazioni teoriche e sensazioni sussurrate o gridate – e allora togliendo la cuffia si apprezza la voce in diretta che proviene dal palco – che alla fine lasciano indifferenti perché manca proprio quella scintilla vitale che ridesta il calore.

Molto calore c’è invece nella semplicità dell’amore omosessuale tra i due adolescenti di Io che amo che solo te di Bluestocking Società per Attori. Valentino e Niccolò sono compagni di scuola e migliori amici da sempre, dopo una festa di alcool e canne Nicco bacia l’amico, il gesto dapprima fa ritrarre Vale che poi però si abbandona a qualcosa di inaspettato ma molto naturale. Arrivano ritrosie, segreti, inquietudini, dubbi, paure, isolamento, vergogna. Così tanta vergogna da parte di Vale che addirittura picchierà il proprio innamorato per dimostrare al branco di non essere un frocio.
La storia non è originale ma è vera, rappresenta una delle tante storie che finiscono tragicamente per la buia ottusità di chi è così insicuro da aver bisogno di scagliarsi contro un nemico per rinfrancarsi. Ecco i mostri.
Lo spettacolo vive – sopra ogni cosa – della limpida vitalità dei due interpreti Riccardo D’Alessandro Andrea Lintozzi, quest’ultimo soprattutto ha una naturalezza fresca e sincera da coltivare. Il testo di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli scorre molto facilmente, la scrittura riproduce dialoghi assolutamente credibili che danno la possibilità ai due giovani attori di cucirsi addosso le battute con grande spontaneità.


La scena è essenziale: intorno a un divano che diventa letto, muretto di ritrovo con gli amici, spazio di scoperta, ruota la vicenda. Quello che eccede un po’ sopra la quota consentita per non rischiare la melassa è l’insistita tenerezza del rapporto tra i due, quasi ne fosse una giustificazione. Inutile. Si tratta di un amore adolescenziale, il fatto che si accenda tra due maschi non ha bisogno di essere mostrato in tutti quegli aspetti zuccherosi e un po’ scemi che in un amore etero si danno per scontati e vengono anzi taciuti, questa esibizione suona come una excusatio non petita. E questo può essere un problema.
Certo, poi c’è la scena “violenta” del pestaggio, che sembra più crudele anche per il miele precedente, ma anche questa è seguita da una sequela di telefonate di Niccolò agli ex amici che lo snobbano a prova ulteriore della sua emarginazione.
L’epilogo di Io che amo solo te è purtroppo la fine reale di alcune vite rese tragicamente insopportabili. È giusto che lo si ricordi, per carità, ma in teatro può essere sufficiente una parola o un gesto, un segno registico che diventa metafora più incisiva rispetto al tuffo sonoro del ragazzo che si butta dal divano tonfando sul palco.
Aprire e chiudere con Di Marco che interpreta Valentino adulto e pentito è un espediente e serve a incorniciare il flashback, è più riuscito l’attacco rispetto alla chiusa, decisamente più ‘telefonata’. Lo spettacolo ha complessivamente un bel respiro, che segue i tentennamenti e le corse in avanti dei due ragazzi.

ODRADEK

da un’idea di Consuelo Battiston e Gianni Farina
con Consuelo Battiston e Francesco Pennacchia
drammaturgia, regia e luci Gianni Farina
musiche e sound design Andrea Gianessi
scene Andrea Montesi e Gianni Farina
con la consulenza di Enrico Isola e Daniele Torcellini
costumi Consuelo Battiston Elisa Alberghi
voci Tamara Balducci, Leonardo Bianconi, Maria Donnoli, Chiara Lagani
produzione Menoventi/E ProductionRavenna FestivalAccademia Perduta/Romagna Teatri, OperaEstate Festival Veneto/CSC
in collaborazione con Masque Teatro

FRANKENSTEIN

drammaturgia e regia di Ivonne Capece
con (in scena) Laura Palmeri e (in video) Lara Di BelloGiuditta Mingucci
assistente alla regia, scenografie e costumi Micol Vighi
sound designer Simone Arganini
light designer Cristina Spelti
produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale
nell’ambito del progetto europeo Play-On New Storytelling with immersive technologies

IO CHE AMO SOLO TE

di Alessandro Di Marco e Lucilla Lupaioli
con Riccardo D’AlessandroAlessandro Di MarcoAndrea Lintozzi
scene e costumi Nicola Civinini
aiuto regia Guido Del Vento
light design Sirio Lupaioli
foto Marcella Cistola e Simona Casadei
regia Alessandro Di Marco
produzione Bluestocking Società per Attori