EUGENIO MIRONE | Si avvicina sempre di più l’inizio della Settimana delle Residenze Digitali, in calendario dal 22 al 26 novembre. L’evento, giunto alla sua quarta edizione (che abbiamo presentato qui su PAC), prevede la restituzione, sia live che online, dei quattro lavori selezionati dai referenti delle nove realtà culturali coinvolte patrocinate dal Centro di Residenza della Toscana (Armunia – CapoTrave/Kilowatt), con cui abbiamo avuto modo di conversare (qui l’intervista per PAC).
Il progetto della durata di un anno offre agli artisti la possibilità di sviluppare un’idea drammaturgica, pensata specificamente per abitare lo spazio digitale, attraverso un percorso di residenza che prevede anche il prezioso affiancamento di tre tutor esperti nell’ambito della creazione digitale. Per l’occasione abbiamo dialogato con le figure che da quattro anni svolgono il ruolo di tutoraggio, Laura Gemini, Anna Maria Monteverdi e Federica Patti, e che ci hanno aiutato a delineare i contorni di questa figura nonché a collocarla all’interno del processo lavorativo di Residenze Digitali.

Laura Gemini
Anna Maria Monteverdi

Quarto anno di Residenze Digitali: come sta andando e quale progetto avete seguito?

AM: Quest’anno sono stati premiati quattro progetti e non più sei, quindi abbiamo pensato di seguirli tutti; io ho passato più tempo con Simone Verduci /Ariella Vidach, avendola seguita nelle tappe ufficiali di avvicinamento alla restituzione finale, ma anche in incontri pubblici e di un workshop a Castiglioncello in cui la compagnia metteva il suo dispositivo VR a disposizione del pubblico.
Ho seguito anche Martin Romeo con il suo HumanVerse perché volevo fare un confronto tra le due diverse esperienze offerte dal suo progetto, via desktop e via visore VR. Il tema del corpo e la sua percezione in un ambiente virtuale è centrale.

LG: Abbiamo avuto l’opportunità di seguire i quattro progetti, per lo meno a livello di confronto sulle questioni progettuali e drammaturgiche. In alcuni casi abbiamo anche potuto svolgere il compito di “prime spettatrici” (come dice anche Anna Maria) che è quello che meglio ci permette di entrare nei progetti e porci con lo sguardo spettatoriale e compiere il lavoro di tutoraggio. Aver avuto modo, ad esempio, di sperimentare sul campo e prima della restituzione i progetti Teatropostaggio e HumanVerse, ha dato veramente un senso al nostro compito.

FP: Ho affiancato Giacomo Lilliù, Martin Romeo e Simone Verduci /Ariella Vidach, con cui c’è stato un dialogo costante e uno scambio davvero molto ricco, che credo abbiano portato ognuno di loro ad evolvere dalla proposta iniziale per arrivare a quanto presenteranno durante la settimana di restituzioni.
Personalmente sono rimasta stupita molto piacevolmente dalla validità e dalla puntualità del processo che hanno sviluppato durante i mesi di residenza, sia poeticamente che tecnicamente. Seppur ancora in formato di studio, le restituzioni hanno già una loro forza come spettacoli.

Federica Patti

Fare tutoraggio significa affiancarsi ad un progetto di un altro artista mettendo a disposizione la propria visione e le proprie idee affinché si possa esprimere al massimo grado. È un ruolo delicato; come ci si approccia a un lavoro con l’obiettivo di tirarne fuori il meglio, senza snaturare la ricerca autoriale?

AM: Ammetto che in passato alcuni artisti non hanno seguito le nostre indicazioni e talvolta il progetto non è andato nella direzione sperata. Il metodo che ci siamo date è stato quello di esporre liberamente sia le criticità che gli elementi positivi riscontrati. Quest’anno avevamo artisti con ampia e riconosciuta esperienza non solo di tecnologie digitali ma espressamente di tecnologie del web.
Il test è quello della chiarezza: il dispositivo/piattaforma/ambiente è adeguato a dire quello che si vuol raccontare? Il messaggio è chiaro? Lo è anche il modo con cui l’utente deve interagire on line con la narrazione? Di questo si parla con gli autori.

LG: Oltre a quanto riferito da Anna, ritengo che proprio perché ci troviamo a lavorare con artiste e artisti che hanno una competenza tecnologica e di linguaggio consolidata quello che ritengo essere il nostro contributo specifico sta andando nella direzione di mettere in relazione questa competenza con la qualità drammaturgica dei progetti, di ragionare insieme sulle specificità delle piattaforme utilizzate e sulle loro potenzialità performative ma anche sulle possibilità e le criticità di fruizione per pubblici.

FP: Personalmente, professionalmente interpreto sempre il rapporto con gli artisti in chiave “demiurgica”: fondamentale è mettersi in ascolto, cogliere gli elementi chiave costituenti l’obiettivo che si è posto l’artista e contribuire alla sua generazione, accompagnando il pensiero, agevolandolo.
Durante questi anni di Residenze Digitali, ho imparato quanto importanti siano anche il tempismo della condivisione e la delicatezza di approccio, utili ad instaurare un livello di fiducia profonda con l’artista.

Ci sono stati cambiamenti, miglioramenti o sottrazioni nel modo di lavorare con gli artisti rispetto alle edizioni passate?

LG: Rispetto alle scorse edizioni lo spostamento sui territori ibridi, online e offline, rappresenta, secondo me, il cambiamento più significativo. La realizzazione di performance digitali con le potenzialità performative e dal vivo (liveness) offline può valorizzare l’organizzazione in presenza delle restituzioni ma sono anche convinta che non si debba abbassare la guardia sul fronte della sperimentazione più strettamente online. È su questo fronte che, a mio avviso, si esprime l’aspetto più evidente dell’innovazione del progetto delle Residenze Digitali.

Sul sito del progetto si trova scritto: «Residenze Digitali è un ponte ancora fragile, per nulla sorretto dal sistema istituzionale e che fronteggia la diffidenza di una parte consistente del mondo teatrale». Perché credere nella validità del binomio tra teatro/danza e creazione online? Avete notato dei cambiamenti nella sua percezione da parte del mondo artistico-istituzionale in questi quattro anni?

AM: Il progetto Residenze Digitali è nato in un anno in cui il teatro era stato dato per spacciato, e ha rappresentato non solo un’opportunità di resistenza e sopravvivenza ma anche di creazione di nuovi formati digitali: in questo senso ha aggiornato il panorama teatrale italiano, allineandolo alla trasformazione tecnologica in atto.
In questi anni sono aumentati i Festival e i Teatri che hanno inserito proposte tecnologiche, molte delle quali provenienti proprio dal bando delle Residenze, sintomo di una raggiunta normalizzazione delle tecnologie a teatro. Anche le grandi istituzioni teatrali si stanno aggiornando: la versione online non è più lo spettacolo “svalorizzato” ma una nuova forma di teatro dal vivo, se consideriamo la liveness in un senso più ampio, che accolga anche la dimensione del digitale e dell’online.

LG: Non è facile rispondere a questa domanda. Temo che a livello organizzativo e istituzionale la performatività online sia ancora difficile da realizzare. È difficile da rendicontare, ad esempio, da collocare nelle caselle ministeriali, non c’è un lavoro di audience development mirato e adeguato a intercettare un pubblico interessato a questo tipo di proposta artistica.
Bisogna lavorare sulla consapevolezza che con la pandemia – che ha permesso agli artisti di porsi come “sperimentatori di emergenza” – si è creata la possibilità di fare quello che l’arte ha sempre fatto: sperimentare i linguaggi e creare forme inedite. Nel dopo pandemia con il ritorno negli spazi (cosa di cui siamo felicissime) quelle esperienze e le competenze che hanno generato (anche nel pubblico, non dimentichiamolo) sono retrocesse… diciamo così.
Le Residenze Digitali sono un esempio di resistenza in questo senso che mi auguro vada avanti. Non ci si deve aspettare che si esca dalla nicchia per diventare mainstream ma individuare un campo di interesse e lavorare su quello.

FP: Concordo con Laura e cito Mara Oscar Cassiani indicando che siamo “nell’epoca della restaurazione”: finita l’emergenza pandemica, ora assistere ad un contenuto attraverso un device mediamente, inconsciamente, riporta alla fatigue di quei tempi.
In verità lo stare online e l’interazione digitale animano le nostre vite da almeno un decennio, e non accennano a scomparire: ci sono modalità, culture ormai completamente digital & online born di cui non si può non tenere conto e che riecheggiano nella maggior parte delle produzioni artistiche e performative contemporanee. Così come non si può ignorare la cosiddetta rivoluzione digitale, che dovrebbe essere colta e interpretata dai luoghi e dalle istituzioni del teatro come opportunità di apertura ed evoluzione verso il futuro.